Capitolo ventottesimo.
La sola idea di perdere l'unica persona che avevo trovato da quando ero arrivata qui a Bologna mi fece sentire come se avessi perso una parte di me stessa. Certo, anche la mia coinquilina, per quando fosse una psicolabile, era diventata importante per me... ma non come lo era diventato Uran. Uran era forse l'unico che poteva capirmi, l'unico con cui io non mi sarei mai sentita fuori posto. Perché era così che mi sentivo in qualunque altra occasione: fuori posto.
Per quanto io odiassi chiunque dicesse che la parola strano era da considerarsi negativa, il mio subconscio mi aveva sempre portata a sentirmi a disagio in mezzo a quelle persone che si consideravano normali. La verità era che mi sentivo fuori posto in qualsiasi contesto. Fra le persone normali mi sentivo troppo strana per sentirmi a mio agio, fra quelli come me non mi sentivo mai abbastanza Gotica, abbastanza strana. Indubbiamente era un'orrenda sensazione e per mia sfortuna quell'orribile sensazione di essere nel posto sbagliato in ogni momento mi fece sentire da sempre terribilmente sbagliata.
Mi chiesi spesso se fosse giusto. Mi chiesi spesso cosa sarebbe accaduto se io fossi nata con i capelli biondi, gli occhi vitrei e una passione innata per i film della disney. Sarei stata più felice? Forse non sarei stata io, ma certamente la vita sarebbe stata così tremendamente facile. Non avrei più visto gli sguardi schifati o curiosi della gente, non mi avrebbero derisa alle medie e alle superiori, non avrei sentito più gli sguardi di tutti su di me, non mi sarei dovuta nascondere per paura di essere considerata pazza, non avrei dovuto avere la paura di essere internata.
Quella parola, quella terribile parola somiglia terribilmente alla parola "Imprigionata". Quasi singhiozzai nel mio pianto disperato, pensando a quanto fosse ingiusto che le persone diverse fossero considerate pazze; a quanto diamine fosse ingiusto imprigionare una persona solo per paura di essa; a quanto fosse terribile sapere che, mentre io continuavo a correre senza meta, c'era qualcuno chiuso in una stanza dalla porta senza la maniglia, con gli arti bloccati da cinghie e l'impossibilità di ribellarsi in alcun modo.
Uran fu per me l'unica persona, seppur per un breve periodo di tempo, a non farmi sentire sbagliata o fuori posto. Non ero più una strana fuori contesto, ero una ragazza felice.
Ma era tutto finito, tutto quanto. Perché nella vita ci sono alti e bassi, sì, ma io incontrai solamente bassi nel mio cammino e non credetti più, a quel punto, che gli alti esistessero davvero. Magari quelli erano riservati alle persone normali, ai cosidetti sani di mente. Ancora una volta, le persone prevalevano, le pecore bianche sbranavano quella nera come dei lupi affamati, senza alcun senso di colpa.
Odiai il mondo, lo odiai con tutta l'anima ed iniziai a pensare che forse non erano gli incubi a farmi tanta paura, ma la vita reale.
Arrestai la mia corsa appoggiando i palmi sulle ginocchia il tempo di riprendere fiato ed asciugare i miei occhi colmi di lacrime tanto da offuscarmi la vista. Mi guardai intorno e non riconobbi la strada, non riuscii a vedere niente di conosciuto intorno a me e velocemente entrai nel panico. Istintivamente presi il cellulare, ma questo si bagnò così velocemente che non riuscii a farlo funzionare nonostante i disperati tentativi, lo riposi nella tasca del mio cappotto, frustrata. Vidi l'ultima speranza di tornare a casa sana e salva sfumare lentamente.
<<Ho visto così tante persone nella mia vita, che perfino alla luce della mia lanterna distinguerei le lacrime dalla pioggia>> sentii dire da una voce roca e profonda. Una voce vissuta, virile ma dal tono quasi rassegnato.
Mi voltai finché non notai un piccolo spiazzo d'erba con un albero al centro ed un vecchio seduto alle radici di quest'ultimo.
<<Come?>> chiesi confusa, osservando l'uomo con la lanterna accanto alle gambe.
<<Sai, litigo spesso con mia moglie. Io la amo e lei ama me, nonostante siano passati cinquant'anni dalla prima volta che ci siamo incontrati. Bei tempi ch'erano quelli. Quando ci litigo, e ci litigo spesso, lei mi chiude la porta in faccia con una crudeltà inaudita ed io me ne vengo qua per qualche ora finché lei non torna da me con i sensi di colpa ed una coperta calda>> mi raccontò l'uomo.
Il racconto mi bastò per decidere di arrestare la mia corsa e sedermi sotto l'albero accanto al vecchio signore avvolto da un pesante cappotto color caramello.
<<Io mi sono persa>> sussurrai sperando comunque che potesse sentire la frase ignorando la nota d'imbarazzo che mi sfuggì nell'ammetterlo.
<<Tutti ci perdiamo, vedi me e mia moglie! Finiamo così una sera sì e una no, ma io mi ritrovo sempre qua e anche quando lei non ci sarà più io verrò qui con la stessa frequenza per ritrovarla, perché se dovessi morire prima io, sono certo che mia moglie verrebbe qui una notte sì ed una no con una coperta di lana fra le mani per ritrovarmi>> mi rispose l'uomo sospirando.
Quelle parole quasi mi fecero piangere ancora di più, ma le lacrime ebbero un sapore diverso. Non erano lacrime di disperazione ma di commozione. Mai sentii nella mia vita parole più belle dedicate all'amore della propria vita.
<<Ti prenderai un accidenti a star qui sotto la pioggia>> constatai osservando l'uomo con una nota di preoccupazione sul volto.
<<Anche per questo sono più che convinto che morirò prima io di mia moglie!>> mi rispose ridendo di gusto Quella risata mi scaldò, contagiando anche a me una sincera risata.
<<Io non starei mai per cinquant'anni con una persona che mi caccia di casa ogni due giorni>> pensai a voce alta poi, pensando all'orribile gesto, soprattutto nelle notti temporalesche che per carità, erano meravigliose, ma pur sempre pericolose.
<<Senza questo il nostro rapporto non sarebbe così nostro>> mi spiegò lui, lasciandomi senza parole.
<<Ma la vita è fatta di alti e bassi, come si può accontentarsi e tenersi stretti solo i bassi?>> gli chiesi combattuta, mordendomi il labbro inferiore.
<<La forza te la dà la voglia di inseguire gli alti. Non ci saranno per sempre bassi, ma se arrivassero tutti insieme, abbi la forza di resistere perché poi le cose cambieranno e gli alti arriveranno uno dopo l'altro, tutti quanti>> rispose il vecchio, guadagnandosi per merito l'aggettivo saggio.
<<Sai come arrivare alla facoltà di lettere?>> gli chiesi, alzandomi in piedi.
Nello stesso momento una macchina si fermò proprio davanti all'albero su cui era ancora seduto l'uomo e da questa scese una vecchia signora con una coperta di lana in mano.
Sorrisi, vedendo davanti a me la personificazione dell'amore.
L'uomo si alzò pronunciando un sentito Opplà e mi rivolse uno sguardo.
<<La terza strada sulla destra dopo aver svoltato a sinistra una volta raggiunta la rotonda>> mi spiegò, tendendo poi la mano destra.
Sorrisi vedendo la sinistra impegnata a tenere una vecchia lanterna ad olio. Gli strinsi la mano e ci salutammo con gli occhi, senza bisogno di parole.
Pensai all'amore nei suoi occhi e ne fui stregata, invidiai quella gioia, quell'amore che andava oltre ad ogni convenzione, quell'amore quasi malato ma così affascinante. Desiderai di essere al suo posto, ma cercai di non illudermi perché non sarebbe mai capitato. Inconsciamente misi a paragone la coppia con Uran e me. Nonostante io ed Uran non fossimo una coppia, ne avevamo passate tante ed io, a discapito di chiunque fosse contrario alla mia felicità, mi ero innamorata. Ma la consapevolezza che Uran non sarebbe mai e poi mai tornato a quell'albero fu come una coltellata sullo stomaco.
Aggirai la vecchia panda della signora e seguii la strada indicatami dall'anziano; Una volta che riconobbi la facoltà, riconobbi anche la strada per tornare a casa. Camminai lentamente infreddolita, vedendo la pioggia smettere di cadere e sentendo i tuoni allontanarsi.
Fui molto felice di non aver incontrato Stefano rientrando perché non avrei sopportato di vederlo, non dopo quello che accadde per colpa sua. Era davvero colpa sua? Non credetti di riuscire a rispondere a quella domanda perché, dentro di me, io sentii la risposta forte e chiara: un sonoro NO allegato al ricordo dei peccaminosi pensieri fatti su di lui un secondo prima che mi baciasse e Uran ci vedesse. Mi sentii nauseata al solo ricordo, ignorando il pensiero che mi ripeteva di essere una tradritrice poco di buono.
Arrivai di fronte al palazzo in cui abitavo e lo osservai, una volta attraversata la strada la giornata sarebbe finita, sarei andata a letto e mi sarei addormentata scivolando in uno di quegli orrendi incubi da cui Uran alla fine non mi salvò. Davanti a quella presa di coscienza mi resi conto che la cosa migliore sarebbe stata tornare a casa e, con gli occhi occupati a ricacciare indietro l'ennesima ondata di lacrime, scesi dal marciapiede attraversando la strada.
Passo dopo passo arrivai all'ingresso e successivamente alle scale, che salii con una lentezza disarmante per la stanchezza data da una notte così movimentata. Quando entrai in casa vidi che ore fossero. Alle quattro del mattino, entrai a passo felpato in camera mia e piansi in silenzio per non rischiare di svegliare Agata. Levai i vestiti zuppi e dopo averli sostituiti con un pigiama caldo di cotone, mi accoccolai fra le lenzuola nere, abbandonando poi la testa sul cuscino. Spostai il libro dal materasso e dopo averlo poggiato sul comodino, iniziai a piangere a dirotto. Singhiozzai reprimendo la voglia di urlare disperata ed esausta chiusi gli occhi, addormentandomi con gli occhi ancora gonfi e rossi dal pianto.
Aprii gli occhi vedendo una stanza bianca, mi disperai immediatamente più di quanto già non lo fossi e cercai di muovermi, stupendomi poi di vedere le mie braccia bloccate da delle manette e non dalle solite cinghie di cuoio con le catene di metallo. Anche il letto aveva qualcosa di diverso, mi sembrò molto più comodo e confortevole. L'odore nella stanza mi ricordò il disinfettante e davanti a tutte quelle novità, spalancai gli occhi nel tentativo di capire cosa stesse succedendo.
Intorno a me gli arredi e le pareti tipiche di una stanza d'ospedale. Non riuscii a capire e fui colta alla sprovvista da una forte tosse che mi bruciò la gola più del dovuto. D'un tratto un flashback dell'incendio in Villa Baruzziana mi colpì come uno schiaffo in pieno volto.
Poggiai la testa sul cuscino mettendomi più comoda dopo aver tossito e cercai di capire in silenzio ma non riuscii. In testa ebbi solo la consapevolezza di essere viva, ancora viva dopo tutto ciò che avevo passato. Ma sapevo che l'incubo non era finito, che non sarebbe venuto nessuno a salvarmi.
Come se qualcuno avesse sentito i miei pensieri, notai la porta della stanza aprirsi. Una figura familiare si presentò davanti a me e dopo aver fatto mente locale, sforzandomi di mettere a fuoco il volto del ragazzo, riconobbi Uran in tutto il suo splendore.
<<Bella giacca>> riuscii soltanto a sussurrare, per via della mia debolezza.
Lui si avventò su di me e dopo aver aperto le manette con una forcina, parlò.
<<Scusa per l'incendio, era più facile portarti via da qui che dalla Villa>> si scusò poi, lasciandomi piuttosto perplessa.
<<Portarmi via?>> gli chiedi confusa e spaventata.
<<Lo avevo promesso che ti avrei salvato da questo incubo>> rispose lui liberandomi definitivamente delle manette che mi costringevano i polsi fino a quell'istante.
Poi mi baciò.
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