Capitolo Ventesimo
<<Ti avevo detto di stare fermo!>> esclamai arrabbiata, strappandogli la foto dalle mani.
<<Cavolo, che casino!>> esclamò guardando il pavimento pieno di zucchero, <<Ti aiuto>> mi propose subito dopo.
<<Ci mancherebbe altro, è colpa tua!>> esclamai in tutta risposta, gesticolando animatamente forse in preda ad un attacco isterico.
<<Come ti chiami?>> gli chiesi in tono più calmo mentre mi aiutava a sistemare il disastro sul pavimento.
<<Vuoi provarci con me?>> chiese lui facendo con un sorriso spiritoso sulle labbra.
<<Voglio sapere chi devo denunciare nel caso continuassi ad importunarmi>> risposi seria facendogli l'occhiolino.
Finimmo di raccogliere tutto lo zucchero e dopo averlo buttato ne riempii un altro bicchiere. Lo consegnai nelle mani del misterioso e invadente vicino di casa, poi lo spinsi letteralmente fino alla porta, cacciandolo via dall'appartamento.
<<Comunque mi chiamo Stefano>> disse a voce alta il ragazzo con il gilet poco prima che sbattessi la porta chiudendogliela violentemente in faccia.
Tornai al mio divano e alla mia pizza, decisi poi di leggere "Le pietre di Venezia" un romanzo di un autore gotico di nome John Ruskin, ma dopo poche pagine il sottofondo di un pianto singhiozzante mi irritò a tal punto che mi chiusi in camera mia e abbassai il volume della realtà per alzare quello della musica. Una parte di me pensò di aver esagerato, pensò di essere stata cattiva, ma l'altra parte non se ne dava la colpa e anzi, l'avrebbe volentieri fatto ancora. Probabilmente la ferii, ma sempre probabilmente se lo meritò. Meritò ogni parola, perché lei non era vittima di questa faccenda, ne era l'artefice. Le persone come lei non potevano passarla liscia ogni volta, non potevano pensare di potersi comportare come se non ci fossero regole... Come se le persone non avessero sentimenti.
Pensai che probabilmente mi sentivo in colpa perché avevo iniziato in qualche modo a volerle bene, ma non smisi nemmeno per un attimo di sentirmi tradita e questo fu il motivo per cui ignorai i suoi singhiozzi fino ad addormentarmi.
Quando la sigla della famiglia Addams risuonò nelle mie orecchie mi svegliai sollevata di non aver fatto nessun incubo. Misi a fuoco ciò che avevo intorno e mi spaventai non trovandomi in camera mia. Studiai la situazione in cui mi trovai, vedendomi seduta su una lunga panca di metallo grigio chiaro con la proiezione di un film della Famiglia Addams del 1991. Capii immediatamente dove avevo sentito quella che scambiai per la mia sveglia e cercai subito di muovermi, ma un fastidioso dolore al polso destro mi fece rendere conto di essere ammanettata alla panca.
<<Endora se ti addormenti nella giornata film, sarò costretto a riportarti nella tua stanza>> disse un uomo vestito di bianco, uno di quei malvagi inservienti che non facevano altro che sedarmi.
Mi dimenai sperando di riuscire a liberarmi da quel paio di manette che mi impedivano di fuggire lontano, mentre il film continuava l'inserviente prestò tutta l'attenzione possibile a me e alla mia agitazione. Dopo molti strattoni vidi una delle maglie della catena delle manette allentarsi e nell'esatto momento in cui queste si ruppero corsi verso la porta di quella a me nuova e sconosciuta stanza.
L'inserviente si mosse ad una velocità quasi animalesca e mi prese per le spalle spingendomi sulla panca. Caddi su di essa e non feci in tempo a ritentare la fuga perché il dolore di un ago nella gamba mi fece poi immobilizzare. Pensai per l'ennesima volta che mi avessero sedato, ma dopo infiniti secondi in cui non accennavo a perdere conoscenza mi resi conto di essere ben sveglia ma totalmente paralizzata dal collo in giù.
<<Mi hai stancato, sono due anni che cerchi di fuggire ogni volta che sei cosciente, quanto altro tempo dovrà passare prima che tu ti arrenda al fatto che resterai qui per tutta la vita?>> sibilò cattivo il ragazzo dal volto giovane, familiare ma al contempo sconosciuto.
<<Non mi arrenderò mai!>> esclamai stringendo i denti. Gli rivolsi un'occhiata di fuoco e rabbia, spinta da un'improvvisa determinazione che però cadde in una lacrima che solcò la mia guancia.
Cercai di contrastare qualunque sostanza avessi in corpo immaginando di dimenarmi, ma più provai a muovermi, più mi sembrò di essere immobile finché all'improvviso non sentii un forte dolore alla tempia sinistra.
Mi svegliai sul pavimento di camera mia. Ipotizzai di essere caduta dal letto nel sonno a causa dell'ennesimo sogno che stavolta mi aveva letteralmente fatta agitare.
Sogno dopo sogno, specialmente dopo le rivelazioni di Agata, tutto sembrava sempre più reale e ad un certo punto mi resi conto di quanto fosse difficile distinguere i sogni dalla realtà. Quando presi coscienza di questo l'angoscia crebbe dentro di me a tal punto che l'aria iniziò a mancarmi e dovetti lottare con tutte le mie forze per non perdere i sensi. Mi alzai lentamente e con la vista offuscata arrivai alla finestra della camera, poi la aprii usando le ultime energie rimaste.
Respirai a pieni polmoni l'aria fresca della notte e dopo poco riuscii a regolarizzare il respiro. Quando mi sentii meglio presi il cellulare per vedere che ore fossero, ma vidi la notifica di tre chiamate perse di Uran. In quel momenti persi un battito e sentii il cuore esplodermi nel petto dal turbine di emozioni che provai. La mia indecisione davanti alla scelta di richiamare oppure no, venne interrotta dalla notifica di un messaggio.
<<Immagina che parta dal cervello, passi per le vene del collo e scorra in quelle del braccio fino ad attraversare l'inchiostro della penna poggiata sulla carta. Lascia che in quel preciso momento finisca il suo percorso sul foglio su cui stai disegnando.>> lessi nel messaggio inviato da Uran.
Non riuscii a capire a cosa si riferisse ma decisi di ascoltarlo. Mi sedetti alla scrivania nera curiosa di mettere in pratica le sue istruzioni. Aprii il mio diario ad una pagina bianca e presi una penna. Chiusi gli occhi rilassandomi, immaginando di fare come scritto da Uran. Dopo una serie di interminabili secondi non accadde assolutamente niente. Il suono di una notifica interruppe il mio sbuffo a metà.
<<Ho pensato a questo, prima di vedere un tuo ritratto su un foglio>> lessi nel messaggio.
Mi sentii stupida per aver frainteso le sue parole ma anche incredibilmente felice realizzando il fatto che con questi messaggi Uran mi stava dando una speranza. Una speranza di riaggiustare le cose. Cercai quindi qualcosa da scrivergli in risposta ma ci misi così tanto che l'esasperazione si impossessò di me. In realtà avevo già trovato il messaggio da scrivere, ma mi sentii in dovere di cercarne uno più adatto di quello che avevo in mente.
Se non devo farlo, pensai, allora datemi un segno. Aspettai qualche altra decina di secondi e quando non accadde niente decisi di prendere coraggio e scrivere una cosa di cui probabilmente mi sarei subito pentita.
<<Vieni da me?>> scrissi e inviai velocemente.
Subito dopo aver premuto il tasto invia, la mia mente iniziò a rendersi conto di ciò che sarebbe accaduto. Uran mi avrebbe preso per matta oppure avrebbe accettato l'invito a venire da me a quest'ora della notte. In entrambi i casi mi ero ficcata in una brutta ed ingestibile situazione.
Ma tutto dipendeva da cosa avrebbe risposto Uran alla mia proposta.
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