[Extra] Oneshot: Casa (Hermann/Victor)

Oneshot canonica collocata nel capitolo 24 "Alcol e Sentimenti" del mio libro "Gli Immortali II: Croce e Delizia"! Se non lo avete mai letto passate a dargli un'occhiata!
[Nota: l'avevo postata nel libro shitpost,ma poi ho realizzato che il suo posto è qui,quindi ce la metto<3]

Hermann non aveva resistito alla tentazione e alla fine aveva aperto quel fascicolo.
Stava trascrivendo alcune informazioni sulla sua agenda seduto sul pavimento del salotto; attorno a lui le scartoffie sembravano averlo circondato impedendo di lasciare il lavoro iniziato.
Victor varcò la soglia con un bicchiere di Vodka in mano.
<<Bonnesoir, generale>> lo prese in giro facendo un mezzo inchino.
<<Non sono mai stato un generale>> lo richiamò lui con tono aspro.
Il francese roteo gli occhi ,scocciato dai suoi odi di fare. Superò i fogli a terra stando bene attento a mettere i piedi negli spazi fra di essi e si stese sul vecchio divano chiudendo gli occhi.
Nessuno dei due prestò volontariamente attenzione all'altro per un bel po',solo Hermann bisbigliava qualche informazione importante di tanto in tanto per ricordarsela meglio.
<<Ti dispiace? Non riesco a dormire>> lo richiamò Victor.
<<Vattene in camera tua se vuoi dormire>> rispose freddamente l'altro.
<<Non riesco a dormire in camera mia, o non sarei venuto qui. Tu riesci a dormire lì?>>
Hermann spostò lo sguardo dalle carte per rivolgerlo al ragazzo.
Si accorse che la luce della luna che proveniva dalla finestra rifletteva proprio nei suoi occhi e li faceva sembrare ancora più finti di quanto lo sembrassero normalmente: gli occhi di una bambola.
<<Io non riesco mai a dormire>> ammise con una nota di sconforto, e per un attimo gli sembrò di trovare comprensione degli occhi nocciola di quello steso sul divanetto.
<<Quindi sei umano anche tu>>

 
Gli occhi di Victor si chiusero lentamente, con una facilità che non sperimentava da molto tempo, non appena si stese su quel divanetto scomodo nel salotto di villa Alighieri. Seduto a terra, proprio davanti a lui, il corpo dell'uomo che aveva riempito per dieci anni la sua vita di lamentele, richiami e consigli non richiesti, occupava nella sua interezza una delle grandi mattonelle di legno. I fogli sparsi intorno a lui ne occupavano almeno altre cinque, rendendo a chiunque impossibile attraversare il salotto se non come aveva fatto lui, in punta di piedi e facendo attenzione a infiltrarsi nei pochi spazi rimasti liberi dai fogli e dalle cartelline.

Il tedesco sussurrava, senza neanche rendersene conto, le informazioni che riteneva più rilevanti su ogni foglio che leggeva; forse era un metodo per imprimerle nella memoria, o per collegarle a qualcosa che già sapeva, Victor ricordava di aver sentito dire che fosse un'abitudine dei soldati che tornava molto utile per ricordare i dettagli dell'ambiente nemico durante le incursioni. 
Già, le incursioni.
Proprio come quella del giorno in cui lo aveva trovato, in cui lui e i suoi colleghi avevano distrutto la sua casa e la sua vita normale. Forse non era la migliore delle condizioni in cui esistere, forse lo aveva salvato da un'esistenza pietosa passata fra le prostitute, magari come una di loro. Ma aveva davvero importanza? Non ne valeva la pena, in cambio di un'esistenza pacifica insieme a sua madre, la donna che lo amava più di chiunque altro?
Aveva davvero bisogno di essere salvato?
Queste domande lo tormentavano ogni notte. In ogni momento in cui la sua mente non fosse troppo stanca per pensare, in ogni momento in cui il suo corpo non fosse impegnato a fondersi col corpo di qualcun altro, alla ricerca di una simbiosi che potesse donargli un'identità. 
Ma non ci sarebbe mai riuscito, perchè lui era una bambola, creato con delicatezza e maestria dalle mani di Dio, che gli aveva donato uno dei più belli fra gli involucri esterni presenti al mondo, ma che poi forse si era scordato di dargli un'anima.
<<Mi dispiace..>>
Nel suo sogno quello stesso uomo dalla folta chioma bruna ormai quasi completamente ingrigita, le mani grandi e muscolose a coprirsi gli occhi, piangeva e si scusava.
Forse era quello che voleva sentirsi dire, "mi dispiace di averti salvato", "mi dispiace di aver scelto per te".
Ma era solo un sogno, non glielo avrebbe mai detto nella vita reale.
<<Mi dispiace, Victor..>>
Si reputava patetico. Agognava così tanto quelle scuse che arrivavano alle sue orecchie come parole reali, come singhiozzi veri e sinceri. Ma non lo erano... lo erano?

Il ragazzo spalancò gli occhi di colpo ma non si mosse, spostò soltanto lo sguardo sulla figura possente che non si era mossa dal punto in cui si trovava prima: rannicchiato sul pavimento, Hermann Hesse si copriva il volto con le mani scosso da lievi singhiozzi, le ciocche della chioma ancora folta ricadevano morbidamente su quelle stesse mani nascondendolo ancora di più alla vista. 
"Il pianto di un uomo così grande dovrebbe disgustarmi", fu la prima cosa che attraversò la mente di Victor, ancora immobile nella posizione in cui aveva preso sonno. 
Probabilmente l'uomo era crollato, forte della consapevolezza di non poter essere ascoltato dal più piccolo durante il suo sfogo. Gli era già successo? Era solito piangere in quel modo? Avevano condiviso stanze vicine nei dormitori del dirigibile da quanto erano entrati a far parte della D.A.N.T.E , quante volte ,mentre lui accoglieva nelle sue pareti qualcuno conosciuto durante i rifornimenti, quelle contigue erano invece testimoni del suo sconforto? Quante volte era successo e lui non se n'era accorto? 
Quelle domande rimasero sospese nella mente del francese, pulsarono sulle sue tempie come un mal di testa molto familiare. Sgusciò silenziosamente giù dal divano, lasciandosi scivolare seduto per terra accanto al soldato; quello sussultò appena a sentire la presenza vicina alla sua e rimase immobile in quella posizione di nascondiglio, preso dalla vergogna.
<<Non ti sei mai scusato per tutto il fastidio che mi hai dato, criticandomi per ogni cosa che facessi o per chiunque mi portassi a letto>> disse il giovane, dopo qualche istante passato a pensare a parole significative che però non gli sovvennero <<perchè lo fai adesso?>>
Le mani scivolarono via dal volto dell'uomo, posandosi a terra accanto ai suoi fianchi. Guardandole, Victor potè notare le piccole ferite, i taglietti e le cicatrici a cui ormai era abituato. Come faceva a conoscerli così bene? Li aveva osservati altre volte senza rendersene conto?
Non si guardarono. 
In quel momento nessuno dei due poteva sostenere un contatto visivo.
<<Il tuo comportamento è da sempre riprovevole, Herr Hugo, e serve che qualcuno te lo faccia notare>>
Gli rispose con tono molto familiare, nel modo in cui era solito fare; i suoi occhi erano ancora nascosti dalle ciocche di capelli che ricadevano dal capo inclinato.
Victor non potè far altro che lasciarsi sfuggire una risatina vuota e frivola per quell'atteggiamento; prima piangeva e poi si nascondeva? Non solo dietro le mani, adesso anche dietro quel finto atteggiamento paterno o chissà che cosa che credeva di avere?
<<Hermann>> gli rispose, stavolta con voce più ferma, un tono che forse nessuno gli aveva mai sentito usare o che nessuno credeva lui fosse in gradi di usare <<voglio ricordartelo, tu non sei mio padre>>

Quelle parole rimasero sospese nel vuoto per un po', nemmeno l'aria fresca e ventosa della serata che entrava dall'anta spalancata della finestra fu in grado di portarle via.
<<Lo so>> disse soltanto l'altro, voltando lo sguardo della direzione opposta a colui che gli faceva compagnia.
<<Non credo>> ribadì lui <<io non ho un padre, non ce l'ho mai avuto. Avevo una madre, ma non so dove sia e nemmeno se sia ancora viva. L'ho persa per colpa tua, tua e di tutti i tuoi stupidi colleghi, ma non per questo ho bisogno che qualcuno mi faccia da genitore->>
<<Certo che sei proprio ingrato>>
Stavolta il tedesco parlò con lo stesso tono fermo, pur se abbassando di nuovo lo sguardo.
<<Sei proprio ingrato se dici questo, nonostante io stia facendo del mio meglio. Ti ho tolto a tua madre che avevi appena quattordici anni, nel farlo mi sono preso una responsabilità che non ero in grado di addossarmi, non avendo mai avuto moglie nè figli..>>
<<Ma a me non serviva un padre!>>
La voce del giovane francese risuonò, acuta, nella stanza. 
Mandò al diavolo le carte, spazzandole via con una mano per potersi piazzare davanti all'uomo, in ginocchio, in modo che fosse quasi impossibile non guardarlo.
<<E guardami mentre ti parlo, non costringermi a usare la mia abilità>> sibilò, forse con più tristezza che cattiveria nel tono. 
<<Lo stai già facendo>> mormorò Hermann, messo quasi letteralmente all'angolo. 
Se avesse creduto nel destino, Victor avrebbe quasi detto che il loro incontro era destino: perfino quello, il fatto che le loro abilità fossero diametralmente opposte al punto da annullarsi a vicenda, e che questo fosse stato la causa ultima dell'essersi ritrovati sulla stessa barca nel momento del pericolo. Se fosse stato chiunque altro, uno dei due sarebbe morto. Invece erano loro due, esattamente loro due, circondati dalle macerie in una casa distrutta di Avignone per giorni e giorni, prima che James Joyce andasse a salvarli e gli desse una casa.
Questo era uno dei motivi per cui non aveva mai espresso quei dubbi che lo tormentavano: non voleva essere additato come un ingrato, o sputare negli occhi della Fortuna e rischiare di essere mandato via anche da lì. Non aveva davvero nessun altro posto dove stare.
Eppure, iniziava a credere che non si sarebbe mai liberato di quel peso se non parlandone, anche a rischio di essere abbandonato; forse quello era il suo destino, il percorso tracciato per lui e che doveva percorrere in totale solitudine. 

<<Ti stai impegnando nel modo sbagliato>> disse dopo un silenzio teso e interminabile <<non mi serviva un genitore, ma una persona che mi stesse accanto nello schifo. Avrei potuto attaccarti quel giorno, tanti anni fa, perchè tenevo alla mia vita e avrei attaccato, mi sarei difeso, con tutte le mie forze e con qualsiasi cosa avessi a disposizione, da te e dai tuoi stupidi commilitoni. Sai perchè non l'ho fatto? Perchè tu hai sparato all'idiota che voleva uccidermi, e anche se non avevo idea di cosa significasse "deserteur" a quell'età, ho visto la paura nei tuoi occhi e ho capito che eri nella merda tanto quanto me>>
Lo sguardo di Hermann si alzò lentamente dalle mattonelle di legno, incrociando le iridi del ragazzo che stava davanti a lui, appena trent'anni più giovane eppure, si disse in quel momento, forse più maturo di lui. Avrebbe quasi potuto pensare che fosse un gesto oltre la sua volontà, comandato dall'abilità del più giovane che richiedeva attenzioni; ma lui a quell'abilità si era abituato da tempo, forse era troppo privo di amore e attenzioni da dare per soccombervi in un primo luogo. No, aveva alzato lo sguardo unicamente per sua volontà.
<<Ed era tutto quello che volevo nella vita>> continuò <<qualcuno con cui condividere lo schifo in cui sapevo di stare. Ma tu ti sei sentito in colpa e hai cercato di diventare qualcosa di cui non avevo bisogno, qualcosa in cui sei anche pessimo, quando poi  tutto ciò che volevo eri tu così come ti ho conosciuto. Non mi serve la tua esperienza, non mi serve che mi insegni come funziona il mondo o che cerchi di proteggermi da me stesso quando anche tu stai colando a picco. Se proprio devi chiedere scusa, chiedimi scusa per avermi salvato, per aver guidato quell'operazione ad Avignone quel giorno e non aver denunciato la cosa ai tuoi superiori quando sapevi benissimo che uccidevate le puttane per divertimento, chiedimi scusa per avermi incontrato e per il fatto che adesso non posso fare a meno di te>>
Tacque, e il sospiro che uscì dalle sue labbra parve portarsi via un peso incalcolabile.
Victor non si aspettava una risposta. Herr Hesse era una persona di poche parole e ancora meno riflessione su sè stesso, era certo che non potesse comprendere.

<<Mi stavo scusando di quello, infatti>> gli rispose invece, e vide la sorpresa negli occhi del più giovane alle sue parole <<e mi sto scusando del mio egoismo. Il mio egoismo ti ha strappato alla vita a cui eri abituato, il mio egoismo ti ha salvato dalla morte costringendoti a continuare la tua esistenza in mia compagnia, così come il mio egoismo ti ha costretto a sopportare per anni un padre incompetente che non meritavi e che non ti era neanche dovuto. Forse non mi importava davvero di cosa avessi bisogno tu, forse ho dato per scontato quello di cui avessi bisogno io, a cinquant'anni, forse ho creduto che Dio mi avesse mandato un figlio da crescere perchè è quello che spetta alla gente ordinaria della mia età. Però... tu non eri, non sei, un ragazzo ordinario e non vieni da un ambiente ordinario. Quindi, forse, nemmeno io>>
Victor rimase a bocca aperta, quasi convinto di star davvero sognando. Non erano le parole che voleva sentirsi dire, ma in un certo senso erano meglio. D'altra parte anche Hermann rimase incantato dal luccichio nei suoi occhi; non somigliavano più a quelli vacui, vuoti, di una bambola. Erano iridi umane di un essere umane, vive e pregne di emozioni e sentimenti, lucide e velate di lacrime che solo un essere umano potrebbe versare.
<<Mi dispiace>> mormorò in risposta, sentendo sulle labbra il sapore delle lacrime mescolato alla vodka che aveva bevuto prima <<di non essere stato il figlio che ti saresti meritato>>
Fu tentato di alzarsi e scappare, ne ebbe a tutto dire il desiderio. Non voleva mostrarsi debole, non lo aveva mai fatto, ma si sentiva come una lastra di vetro sottilissima in procinto di crollare in mille pezzi; era sicuro, non sarebbe mai riuscito a raccoglierli.

Ma proprio quando stava per far leva sulle ginocchia per alzarsi, fu tirato in avanti da braccia molto più grandi e forti di lui. Il suo naso si scontrò con la stoffa della camicia del soldato, le lacrime sfuggirono ai suoi occhi e bagnavano il tessuto all'altezza della spalla. 
Le braccia dell'uomo riuscivano a cingerlo interamente: gli sembrò che potessero bloccare il mondo esterno dall'avvicinarsi a lui e allo stesso tempo bloccare lui, impedendogli di fuggire. Una prigione. Eppure ci stava bene, si sentiva al sicuro, piccolo e fragile come un bambino dovrebbe avere la libertà di sentirsi. Lui non era più un bambino, e l'uomo che lo stringeva a sè non era un padre. Hermann Hesse e Victor Hugo non erano altro che due esistenze sospese in grado di legittimarsi a vicenda.
<<Non sei un figlio>> la voce profonda dell'uomo tedesco lo raggiunge in sussurro vicino al suo orecchio, quasi facendolo rabbrividire per la sicurezza nel suo tono <<ma sei comunque un uomo meritevole, Victor, più di chiunque altro abbia mai conosciuto>>
Avrebbe voluto ringraziarlo, di quelle parole, di quella stretta e del calore che riempiva pian piano il vuoto che sentiva nel suo petto, ma non ci riuscì. Altre lacrime si fecero strada lungo il suo viso, altri singhiozzi presero il posto di quelle parole nella sua gola. Non seppe dire per quanto tempo, ma forse non aveva importanza, pianse senza curarsi del tessuto rovinato di quella camicia dal profumo così familiare, delle dita che sfioravano i suoi capelli castani con una delicatezza che si riserva solo alle bambole più fragili e più costose. 
Quel profumo, quelle braccia, quelle dita... erano casa. Su questo non aveva dubbi. 
Non gli serviva una famiglia, ma una casa.
Un giorno, ad Avignone, la sua casa era andata distrutta, ma non aveva sofferto quanto avrebbe dovuto e solo adesso si rendeva conto del motivo: ne aveva trovata un'altra, molto più accogliente della prima.

Nessuno dei due ebbe la forza di dire altre parole, quando le lacrime si asciugarono sui loro volti era tarda notte. Notte che passarono così: sul pavimento del salotto della villa, poggiati l'uno, sostenendosi a vicenda come i muri di una casa. 

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