Capitolo Otto - Nel bosco
La Bentley sfrecciava libera sulla strada deserta, senza automobilisti o pedoni a cui dover badare, alla massima velocità possibile sul ritmo dei Velvet Underground. Crowley lo avrebbe considerato un momento perfetto, con la sola compagnia dei prati verdi e di un cielo terso privo di sole, se non fosse stato che il silenzio di Isotta era più assordante del motore che ruggiva al vento. Seduta sul sedile accanto a lui, abbracciava la sacca da tennis con la testa appoggiata al finestrino e uno sguardo spento che spiccava sul volto assonnato. Era sicuro che il suo umore rasoterra non riguardasse il tennis.
Dalla metà di settembre, quando in Italia erano ripartite le scuole, le chiamate con Ilenia si erano fatte più sporadiche: aveva gli esami e, a detta di sua nipote, studiava e lavorava ai suoi disegni come una forsennata. Se durante l'estate si era abituato a udire esclamazioni e intere conversazioni in italiano dalla stanza di Isotta, ora quei suoni avevano perso familiarità, ma almeno una o due volte a settimana si sentivano ancora. La sera prima Isotta si era ritirata nella sua camera e, con tono serio e sommesso, aveva attaccato in italiano e passando davanti alla sua stanza Crowley l'aveva vista con uno spesso libro in mano: il libro di testo della "Divina Commedia", quello pieno di note e analisi e segni e sottolineature che usava per studiare (non avrebbe mai sfiorato con la matita i manuali illustrati che teneva in libreria, gli aveva detto). Rimase seduta alla scrivania per quasi tre ore e uscì con un'espressione pensierosa in viso. Non gli disse una parola per tutta la sera, ma non declinò la proposta dei campi da tennis.
Sebbene non ci avesse badato molto all'inizio, la personalità chiusa di Isotta lo stava preoccupando: era una persona riservata, forse anche un po' timida, ma non era una misantropa e il fatto che non stesse facendo alcuno sforzo per inserirsi nella vita londinese gli faceva intendere che avesse bisogno di qualche pacca sulla schiena. Oppure che avesse deciso, per qualche motivo, che sarebbe tornata in Italia il prima possibile e che dunque rifarsi una vita sarebbe stato inutile. Crowley non si aspettava che, in tal caso, Isotta glielo dicesse, non subito almeno, eppure il pensiero che lo lasciasse solo in qualche modo lo pungeva. Era una sensazione strana, difficile da spiegare e ci rimuginava poco, perché, di questo ne era certo, l'immagine di Isotta che si imbarcava in un aereo per l'Italia suscitava in lui emozioni pesanti e senza nome che preferiva scacciare.
Approfittando della strada vuota, guardò sua nipote per qualche secondo: tutta inclinata a sinistra, aveva tirato su le gambe e le scarpe avevano già lasciato dei polverosi segni bianchi sul sedile.
«Giù le gambe» disse duro. Obbedì senza replicare. «Quanti anni hai giocato a tennis?»
Mosse la testa verso di lui come se si fosse appena svegliata. «Sette anni. Ho iniziato a nove e ho smesso due anni fa».
«Troppo impegnativo?»
Annuì. «Partecipavo anche ai tornei e non riuscivo a gestire anche lo studio e i corsi a scuola. Però mi piaceva».
«Seguivi il Wimbledon?».
«Ogni tanto».
Ancora silenzio. «Ieri stavi spiegando qualcosa a Ilenia? Ti ho vista con il libro in mano».
Si sedette composta. «Sì, il "Paradiso". Ma non so quanto sia stato utile. Non le interessa granché e si distrae molto».
«La tua professoressa mi aveva detto che eri brava ad aiutare agli altri con letteratura. Sono certo che abbia capito- Sant'Iddio!». Frenò per evitare di investire un volpe comparsa da alcuni cespugli e Isotta soffocò un respiro a causa della cintura di sicurezza. «Devi proprio andare così veloce?!»
«Tanto non c'è nessuno» ribatté. «Era simpatica quella donna. Aveva dei modi così teatrali, quando parlava sembrava stesse recitando un monologo tragico».
«Sì, la Trevisan è un personaggio. Una volta ha fatto cadere dal primo piano un dizionario che usavamo per tenere aperta la finestra. Ha cacciato un urlo talmente forte che la bidella è arrivata con il kit di primo soccorso perché credeva che qualcuno si fosse fatto male».
Ridacchiarono mentre la Bentley s'insinuava in una strada alberata. «Sempre pronti a ridere di noi. Il nostro è un lavoro stressante».
«Non dirmi che a te non è mai successa una cosa del genere. Per come sei fatto, poi...»
Crowley, sorridendo, allungò la mano verso lo stomaco di Isotta e lo solleticò. «Stai insinuando qualcosa?».
Isotta fece cadere la sacca ai suoi piedi mentre si agitava sul sedile tra le risa. «Dai, smettila!».
Riportò le mani sul volante. «In realtà ci sarebbe una cosetta che potrei raccontarti...»
«Ossia?» si tolse una lacrima dall'occhio con il polpastrello.
«Beh, è stata una cosa stupida. Alcuni anni fa avevo due ragazzini in classe, due scemi che a malapena sapevano scrivere il loro nome. Giocavano per tutta la lezione a un giochino sul cellulare, una di quelle robe online, e credevano che non li vedessi. Quindi un giorno staccai la connessione a internet della scuola».
Sua nipote spalancò gli occhi. «Tu sei pazzo. Metà delle cose che si fanno a scuola è online!».
Fece qualche versetto strozzato alzando compulsivamente le spalle. «Sì, quel giorno l'ho notato».
«Ti hanno scoperto?»
«Avanti, non sono così scemo, principessa. Altrimenti non credo insegnerei ancora lì».
Isotta alzò le mani e fece una risatina nasale.
Attraversarono un altro tratto di strada circondato da terreni erbosi. Infine, Crowley parcheggiò all'entrata del campo sportivo, dove si udivano i rapidi rintocchi delle palline e un leggero brusio di voci. Guardò sua nipote, che stava recuperando la sacca sportiva: si era incupita. Possibile che la sola idea di vedere delle persone la mettesse così tanto in agitazione? Per quanto potesse, studiò il suo volto: puntava gli occhi al terreno, con le palpebre un poco abbassate, le labbra appena schiuse dove ogni tanto infilava l'unghia del pollice.
Aprì la bocca per parlare, quando un dettaglio orrido lo distrasse: uno dei fanali posteriori della macchina si era sganciato e penzolava contro il paraurti. «Satana in terra!». Si accucciò per controllare: alcuni fili erano interi, altri spezzati.
Isotta inclinò la testa. «Sicuro che prima non fosse così?»
«Penso che sarebbe volato». Sollevò il portellone e, soffiando, agguantò la borsa degli attrezzi. «Tu vai. Non so quanto ci vorrà per sistemare tutto». Bestemmiò tra i denti.
Isotta guardò un'ultima volta il fanale. «Va bene, poi ti chiamo». Crowley fece il segno dell'ok in risposta e lei si allontanò.
Sistemare il fanale si rivelò più complesso del previsto: Crowley era in grado di aggiustare piccole parti del motore, di certo non i cavi elettrici. Soprattutto non con la chiave inglese che continuava a rigirarsi fra le mani in attesa che quell'affare si mettesse a posto da solo. Lo incastrò alla bell'e meglio nel foro, ma un'ammaccatura sul bordo non gli permetteva di inserirlo del tutto e tornò a penzolare.
«Al diavolo».
Scavò nella borsa degli attrezzi e pescò un paio di pinze arrugginite. Sarebbe bastato correre come matti per evitare la polizia stradale e impedire che Isotta se ne accorgesse. Se la fortuna avesse deciso di voltargli le spalle avrebbe sganciato qualche sterlina allo Stato, poco male.
Avvicinò le pinze ai cavi, ma si bloccò al trillo del suo cellulare rimasto sul cruscotto. Che fosse Isotta, di già? Buttò a terra le pinze ed entrò in macchina, ma il nome che lampeggiava sul cellulare era quello di sua sorella. Stava iniziando a pentirsi di aver proposto quell'uscita.
«Che c'è, Beelz?».
«Ho sentito che sei tornato, Anthony». Fredda, apatica la sua voce androgina.
«Ben svegliata, sono qui da giugno».
«Non mi hai telefonato» sentenziò. Rumore di fogli.
«Perché avrei dovuto? Me la sbrigo da solo con mia nipote».
«Non lo metto in dubbio» un sospiro. «Tornando al motivo per cui ti ho chiamato, ho trovato una cosa davvero interessante. Ne ha parlato solo il "Financial Times": un giro losco a Trietsee».
«Trieste» la corresse, ma un brivido gli percorse la schiena. Bastarda fino al midollo. «E comunque non mi interessano le tue seghe mentali da criminologa improvvisata, te l'ho già detto».
«Mh, peccato».
«Altro? Sono impegnato». Bloccò il cellulare tra la spalla e la guancia maneggiando le pinze e i cavi con le mani senza risultati.
«Passa a trovarmi, una volta. Porta anche la bambina, già che ci sei».
Clic metallico, il fanale cadde a terra. «Da quando ti importa qualcosa?».
Sbuffò. «Da mai, Anthony. Sono solo curiosa, tutto qui. La prendo a sberle se mi chiama zia».
«Affettuosa come sempre» borbottò sarcastico. «Va bene, un giorno veniamo».
In risposta, Beelzebub mormorò un saluto distratto e chiuse la chiamata senza che Crowley potesse dire qualcosa. La insultò a bassa voce e recuperò il fanale. Beelzebub era sua sorella minore e tra di loro vi erano solamente due anni, ma a Crowley erano sempre parsi un secolo. Da bambini si parlavano poco e da adolescenti si ignoravano, lui preso dalle sue osservazioni astronomiche e lei da macabre storie di cronaca nera mondiale. Crowley ricordava soltanto una tregua, nel loro rapporto gelido come le acque del nord: il matrimonio di Helen, quando entrambi cercarono di sorridere e organizzare tutto l'occorrente per la festa, ma lei non si presentò né alla nascita di Isotta né al suo battesimo. Di fatto, constatò Crowley mentre raccoglieva gli attrezzi, non si erano mai viste e ora Beelz voleva vederla perché "era curiosa", come se Isotta fosse stata un cucciolo di cane di razza nuova. Ciò che però lo tormentava di più era l'articolo che gli aveva nominato, quello che poche settimane prima era sparito dalla sua copia del "Financial". Perse un battito, ma subito si calmò: non era un problema, era un articolo minuscolo, un'inezia, cinque centimetri di giornale in cui non vi era nemmeno un nome e anche se qualcosa fosse venuto fuori non avrebbe varcato le Alpi. Beelz era in grado di scovare gli aghi nei pagliai, ma aveva ben poco potere contro le barriere linguistiche. Specialmente perché odiava l'italiano («Ma senti quel cretino come parla?» gli aveva detto quando avevano visto il padre di Isotta per la prima volta).
Scosse la testa. Non voleva pensarci, non quel giorno. Afferrò la bottiglietta d'acqua, bevve un sorso e uscì dalla macchina, ammirando i tendoni versi che si ergevano di fronte a lui, voci sommesse di urla che si alternavano ai colpi di racchetta. Sperò, invano, di udire la vocetta di Isotta, ma i toni che lo raggiungevano erano tutti duri, maschili, britannici. Non si sarebbe infilata là dentro, ne era sicuro.
Sospirò, frugò nel cassetto, estrasse il piccolo saggio sulla polvere interstellare, uscì e chiuse la macchina. Oltre i campi da cricket poco distanti vi era un boschetto rigoglioso e tranquillo: perfetto per rilassarsi con le sue stelle. Si avviò facendo ruotare il libriccino tra le dita mentre fischiettava un ritmo dei Beatles. Passò accanto ai campi da cricket, dove due squadre giocavano una partita che, a giudicare dai punteggi sui tabelloni, era quasi giunta al termine. Sulle panchine, a pochi metri da Crowley, un uomo dai corti capelli scuri e la barba ben curata si asciugava il sudore sul volto. Per un solo attimo fu in grado di vedere i suoi occhi violacei.
Il bosco era umido e l'odore di pioggia ancora forte tra le foglie, ma i suoni delle palline e dei tifi erano lontani e un placido silenzio albergava in mezzo agli alberi. Dopo un sabato sera trascorso in quattro locali diversi, a bere quattro diverse combinazioni degli stessi quattro cocktail, un po' di sana quiete era quello che serviva, bastava trovare una roccia, un tronco, un fazzoletto d'erba abbastanza asciutto e godersi la sua polvere. Scostò gli arbusti per farsi strada, camminando verso una piccola radura che aveva adocchiato circa cento metri prima. Sollevò un ultimo ramo e fece un passo avanti, ma si bloccò: un uomo biondo, paffuto, vestito con una tuta sportiva firmata, seduto su un asciugamano di tartan e appoggiato a un grosso albero con un libro in mano e uno zainetto vicino al fianco. Crowley schiacciò un grumo di foglie secche e i loro sguardi si incontrarono.
«Oh, lei. 'giorno».
Il signor Fell distolse lo sguardo dal libro. Sbatté le palpebre, boccheggiò e infine gli rivolse un sorriso incerto. «Buon... buongiorno. Lei è il... padre di Isotta?»
Crowley sollevò un sopracciglio. «Zio».
«Sì, zio, scusi». Si alzò in piedi, voltandosi da una parte e dall'altra come un cervo intimorito. Che aveva, credeva lo avrebbe mangiato? «Isotta non c'è?»
«L'ho portata ai campi da tennis» indicò con il libro la direzione dei tendoni verdi inghiottiti dagli alberi.
Il signor Fell infilò un segnalibro tra le pagine, un cartoncino con una piuma bianca disegnata sul fondo ocra, e si passò il libro da una mano all'altra. «Non sapevo giocasse».
«Lo ha fatto per molti anni. È Pirandello, quello?» indicò il libretto marrone che il signor Fell continuava a tormentare: "Questa sera si recita a soggetto".
Spostò lo sguardo dal terreno a Crowley. «Lo conosce?»
«Mia nipote me ne ha parlato».
«L'ho vista leggere una sua commedia durante la pausa pranzo» inclinò la testa. «Anche lei qui per leggere?»
Solo in quel momento Crowley si ricordò del saggio che gli pendeva dai polpastrelli. «Cercavo un posticino. Vicino ai tendoni c'è un chiasso». Si immaginò Isotta, la sua piccolina quieta e composta in mezzo alla masnada, schiacciata contro gli spalti con le braccia che stringevano a sé la sacca. Con uno scatto scosse la testa: era grande, sapeva badare a sé stessa, non doveva preoccuparsi.
«Va tutto bene?». Il signor Fell, con l'asciugamano in mano, si avvicinò a lui.
«Perfettamente». Silenzio, cinguettio degli uccelli. «Lei è qui a giocare?»
«Sì, cricket con i miei fratelli e qualche amico, ogni tanto organizzano qualche partita» rispose. «Ma non sono un grande amante dello sport. Sono sgusciato fuori mezz'ora fa».
L'uomo con gli occhi viola, la tuta della stessa marca e della stessa tonalità di grigio, che si toglieva il sudore dalla fronte seduto sotto il tettuccio delle panchine. Nessuno aveva notato che mancava un giocatore? Nessuno lo aveva cercato? «In effetti ho visto un gruppo di uomini al campetto».
«Probabilmente erano loro».
Recuperò lo zainetto senza metterselo in spalla. Mosse un passo verso il sentiero e lo indicò a Crowley con un timido cenno, guardandolo a malapena. Crowley lo fissò oltre gli occhiali da sole e alzò le spalle. Si avviarono insieme in una direzione ignota.
«Quindi» esordì il signor Fell, che ancora si rigirava il libro tra le mani. «A Isotta piace fare sport». Le sue guance si imporporarono.
«Sì, per questo l'ho portata» rispose Crowley. «Spero possa farsi qualche amico. Non ha conosciuto nessuno in quasi quattro mesi».
«Ho notato che è molto chiusa».
«È la sua natura. Anche in Italia non aveva molti amici, a parte una ragazza con cui usciva tutti i giorni». Spostarono un ramo per passare. «La sera si parlano via internet».
«Non deve essere facile mantenere i rapporti con così tanta distanza».
«Se la cavano. Non che abbiano molta scelta».
«Tornerete mai in Italia?»
«Sicuramente in futuro» rispose Crowley, sebbene l'idea gli percorresse la spina dorsale come un filo gelido. «Pensavo dopo Capodanno, ma al momento è soltanto un'ipotesi. Lei ci è mai stato?»
«Qualche anno fa sono andato a Milano per lavoro» rispose. «Lavoravo ancora nell'azienda della mia famiglia e dovevamo prepararci per la settimana della moda».
«Moda?» Crowley si fermò. Qualcosa nel suo cervello lottava per uscire. «Un momento... la Fell Creations?».
Il signor Fell si bloccò e spalancò gli occhi. «Ehm, scusi?»
«La Fell Creations» ripeté Crowley. «Moda da uomo. È roba sua, o è soltanto un omonimo?».
«No, no, è...» si grattò il collo. «È l'azienda della mia famiglia. Non propriamente "roba mia". Ne sono uscito circa due anni fa».
Crowley lo guardò perplesso. «E come mai, se posso chiederle? Voglio dire, avrà avuto un gran bell'incarico» e remunerativo.
Il signor Fell diminuì la velocità dei suoi passi, come se avesse dovuto risparmiare le energie per una risposta che tardava a giungere. «Disegnavo, gestivo i conti, non facevo granché. Erano i miei fratelli ad avere le redini e i vertici di un'azienda non sono ciò che si può definire un paradiso». Si strinse il libro al petto. «Fare il librario è molto più tranquillo. Meno stress, meno grafici, meno eventi. E almeno Isotta mi tiene un po' di compagnia».
Crowley ripensò alle sue giornate prima di quella funerea telefonata di metà gennaio, quando una piatta voce femminile gli annunciò che sua nipote minorenne era rimasta sola al mondo: monotone, grigie, un fuori e dentro dalla scuola privo di qualunque stimolo che non fosse il cielo notturno. E ripercorse i suoi giorni nuovi, quelli in cui tornato a casa trovava la cenetta mediterranea, le voci italiane in televisione, i libri sparsi e un sottile odore di shampoo al cocco. «Ne sono contento».
«Ci sa fare con i clienti, sa? Soprattutto quelli stranieri. Non me l'aspettavo, visto il suo carattere».
«Forse perché lei stessa non è britannica» osservò Crowley. Ricevette un'occhiata confusa dal signor Fell.
«Ma lei ha la cittadinanza britannica, è nata a Leeds. Lei è un suo parente di sangue, o sbaglio?».
Crowley si portò una mano tra i capelli. Non glielo aveva detto? «È una storia un po' lunga. Mia sorella maggiore si sposò a Leeds con il padre di Isotta, che era italiano, e lei nacque qui. Per questo ha la cittadinanza» abbassò lo sguardo. «Due anni dopo mia sorella morì in un incidente nel laboratorio di analisi tossicologica dove lavorava».
Il signor Fell trasalì. «Non lo sapevo, mi dispiace, davvero».
«Ehi, niente di che, è stato un sacco di tempo fa» lo tranquillizzò in fretta. «Dopo il funerale mio cognato prese la bambina e se la portò via. Improvvisamente, senza dire nulla a nessuna, capisce?».
«Intende dire che non vi aveva avvisato?».
«Zero assoluto. Me lo disse solo dopo qualche mese» quando si fidanzò, per dirmi che Isotta una mamma l'aveva di nuovo, e che non voleva più avere nulla a che fare con i suoi parenti britannici, ma questo non lo disse.
«Dunque vi siete ritrovati solo di recente?».
«Sì» rispose Crowley. «A febbraio. Abbiamo dovuto: non aveva nessun altro». Stava pensando a sua sorella, quella che non era stata chiamata a causa di una fedina sporca - non che il suo sguardo truce non sarebbe bastato a far tentennare qualunque assistente sociale - quando il signor Fell si bloccò vicino a un arbusto, con il piede immerso in una piccola pozza di fango, un velo di sorpresa a coprirgli il viso. «Che intende?»
«Beh, suo padre non c'è più. Gli assistenti non avevano molta... ». Quegli occhi azzurri aperti in una morsa di stupore gli impedirono di andare avanti. Si guardarono, il tempo scandito dalle zampette di uno scoiattolo sule foglie. «Non sapeva?»
Il signor Fell tremò, come se una scossa elettrica gli avesse ridato vita. «No, affatto».
Crowley si maledisse, si sarebbe preso a schiaffi cento volte urlando "cazzo cazzo cazzo" e sbattendo le mani sul volante, se solo fosse stato in macchina e senza il capo di sua nipote a prenderlo per pazzo. «Sì, insomma, la capisco. Non è granché da raccontare» certo che non voleva dirlo, idiota.
«Mi... mi dispiace» riprese a camminare stringendo ancor di più il libro all'ampio petto.
Crowley schiuse le labbra, ma si limitò ad alzare le spalle.
«Quando è successo?»
«Gennaio» disse piatto. «Incidente d'auto. Schiacciato contro una parete di roccia a pochi chilometri da Trieste».
Il signor Fell tremò. «Quindi ora Isotta... starà con lei?».
Vorrei poterlo dire. «Dipende da lei. Per ora sì. Se vorrà tornare indietro... io non posso fermarla».
«Pensa che lo farà?».
«Non ne ho idea» tagliò corto. Sollevò lo sguardo verso il cielo, trovandolo minaccioso e grigio. Un tocco freddo gli sfiorò il naso. «Credo stia per piovere». Altre carezze dure e bagnate tra i capelli, l'odore familiare e pungente della pioggia gli trafisse le narici e un'ombra azzurrina gli avvolse gli occhiali da sole. La seguì fino alla mano grassottella che stringeva il manico dell'ombrello di tartan.
«Chiamavano variabile» gli disse il signor Fell, un piccolo sorriso in volto. «Per questo avrei voluto restare a casa, ma i miei fratelli hanno insistito».
L'immagine del piccolo ombrello con il serpente rosso appoggiato al comodino gli balzò in mente. «Non pensavo, stanotte il cielo era limpido».
Ripresero a camminare e imboccarono un sentiero di ghiaia, coperto almeno in parte dai rami e dove la pioggia era più rada. «Fa osservazioni astronomiche?».
«Spesso» rispose. «Soprattutto d'estate. Con la scuola e Isotta fatico a stare alzato fino a tardi».
«Posso chiederle perché insegna, invece di fare l'astronomo?».
«Ho lavorato come astronomo, in realtà» disse con una smorfia. «Ma lo odiavo. Solo conti, analisi chimiche, discussioni. Io volevo le mie stelle, i miei pianeti e basta. Ho ripiegato sull'insegnamento perché non c'era molto altro che potessi fare». Isotta gli spuntò nella mente, lei e la sua "Divina Commedia" aperta davanti al PC, il suo tono straniero, fluido e severo. «E perché amo stare con i ragazzi». Il signor Fell gli stava sorridendo fin troppo teneramente, per cui aggiunse «Mi fanno sentire giovane».
Il signor Fell ridacchiò. «Concordo, sa? Da quando c'è Isotta mi sento molto più attivo in libreria. Il solo fatto che sia lì mi aiuta a lavorare».
«Vorrei poter dire lo stesso, ma da quando ce l'ho in casa non faccio altro che digerire piatti di pasta e lasagne seduto sul divano».
Risero sotto la pioggia, un suono che si perse fra le foglie e il debole cinguettare degli uccelli. Che situazione: in mezzo al bosco sotto l'ombrello di uno sconosciuto. Uno sconosciuto che era il paffuto libraio capo di sua nipote, e non un gigolò pescato fra i locali di Soho, o un ubriaco del bar il sabato sera, uno sconosciuto con cui conversava del più e del meno come non faceva da tempo: in modo limpido, disinteressato, per fresca compagnia. Isotta lo avrebbe definito un momento da film, come aveva fatto quando le aveva raccontato il suo secondo incontro - primo da sobrio - con Lucifer, in un negozio di lampadari vicino a Oxford: "una commedia di serie Z degli anni Ottanta".
Si scambiarono poche altre parole prima di raggiungere il limite del bosco. Avevano girato in tondo ed erano ritornati ai campi di cricket, dove lo stesso gruppetto di prima era ora accalcato sotto una tettoia con alcuni tavolini, intento a consumare il pranzo.
«Deve tornare?» chiese Crowley.
«Non vorrei, in realtà».
«Facciamo il giro largo, allora». Sorrise, ma tornò impassibile all'istante.
La pioggia s'infittì e i loro passi accelerarono sul terreno fradicio e poltiglioso. Se prima gli alberi e l'ombrello li avevano riparati del tutto, ora Crowley sentiva le punte dei capelli bagnarli la nuca e i pantaloni appiccicarsi alla pelle umida dei polpacci. Si rifugiarono sotto una grossa quercia.
«Deve tornare alla macchina?» domandò al signor Fell.
«Guida mio fratello» rispose lui. «Ma posso tornare anche ora, ho i soldi per un biglietto dell'autobus».
Seduto su una grossa radice bagnata, Crowley si guardò intorno: i tendoni del tennis erano lontani, Isotta non gli aveva telefonato né scritto e sperò volesse dire che andava tutto bene. Pensò alla sua auto, al vetro cosparso di pioggia e al suo libro che aveva infilato sotto la giacca per timore che si bagnasse. Sarebbe tornato lì, in attesa che Isotta ricomparisse, ma poi adocchiò un piccolo edificio bianco a meno di centro metri dal campetto, la cui insegna a forma di tazzina brillava oltre i rami.
«Posso offrirle qualcosa da bere?».
***
Nota dell'autrice: mi scuso innanzitutto per l'abominevole ritardo, ma la scuola mi sta già soffocando e io in questo momento dovrei ripassare chimica invece di sparare scuse.
Il capitolo otto e i nostri mariti sono arrivati. Amo le relazione slow burn, quindi cercherò di trattenermi dall'infilare fluff ovunque.
Probabilmente lo avete capito, ma gli aggiornamenti saranno molto più lenti rispetto a questa estate (non che prima fossero frequenti). Cercherò di velocizzare, ma non prometto nulla.
Come sempre, spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Sempre vostra
Fran Truth
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