Capitolo Cinque - Speranza di carta
Sotto il plumbeo cielo di un tranquillo sabato pomeriggio, un fiume di gente attraversava le strade di Soho fuori dalla libreria di Aziraphale. Seduto sulla poltrona nel retrobottega, sorseggiava un buon vino con una mano e girava le pagine ingiallite di un libro con l'altra. Faticava ad ammetterlo, ma era agitato. Giusto un poco. Il cuore gli martellava incessante nel petto e muoveva in cerchio il piede destro.
Aveva sempre lavorato da solo, nella sua libreria perlomeno. Non aveva mai sentito il bisogno di assumere qualcun altro, magari un commessuccio maldestro e con le dita sempre impasticciate di chissà quale sostanza che avrebbe potuto rovinare i suoi preziosi libri, gli stessi che ormai considerava dei compagni fidati. Solo lui, le pagine che profumavano di antico, di passato, e il dolce silenzio interrotto appena da qualche flebile borbottio dei clienti educati. Si trattava di una pace rara che lo avvolgeva come il mantello di Maria. Il paradiso, in poche parole. Una beatitudine duratura, perfetta, ineffabile.
Eppure negli ultimi mesi aveva sentito quell'amabile calore venir meno. La solitudine iniziava a stargli stretta, a premere contro il cuore e a mordicchiarlo. Bruciava appena, un fastidio lieve, di quelli che si sopportano dopo poche ore di abitudine, ma non gli piaceva. Lo distraeva troppo, gli annebbiava la mente in un torpore insolito. Talvolta le lacrime gli pizzicavano gli occhi.
In preda a un folle stato di trance, aveva attaccato il foglio alla vetrina. Il giorno dopo, quando lo aveva guardato, si era sentito strano. Non era da lui prendere delle decisioni così avventate, specialmente se riguardavano la sua libreria. Tentato, aveva allungato la mano verso i pezzetti di nastro adesivo, ma qualcosa lo aveva fermato: quell'orrido solletico al petto, che ancora lo tormentava, seppur con leggerezza disarmante. Facendo spallucce, aveva ripreso a lavorare come se nulla fosse, ma dandosi un ultimatum di due settimane. Dopo quindici giorni, se nessuno avesse bussato alla sua porta, avrebbe strappato quel pezzo di carta e tutto sarebbe tornato normale: lui, la sua libreria e i suoi tomi. Punto. Non c'era bisogno di nessun altro, si sarebbe abituato a quel senso di fastidio che la tranquillità monotona della sua vita gli causava e ci sarebbe passato sopra. Nulla di più, nulla di meno, un piano perfetto.
Nel profondo, però, covava una speranza che voleva ignorare, quella che qualcuno effettivamente si presentasse. Non lo avrebbe mai ammesso, ma accendere il computer (una scatola vecchia che funzionava per miracolo) e notare che la notifica della casella di posta elettronica non era l'ennesima pubblicità della sua profumeria preferita, ma un curriculum, gli aveva acceso una gioia rassicurante. Sorridendo, aveva stampato il PDF e, con una cioccolata calda in mano, aveva letto in tutta calma. Riconobbe all'istante la ragazza italiana che aveva visto circa una settimana prima.
Non si aspettava un tipo di persona particolare, ma Isotta lo lasciò perplesso: non era raro che ragazzi europei appena diplomati rinviassero l'inizio dell'università per lavorare in Inghilterra, magari come camerieri o pizzaioli in modo da migliorare il loro inglese, ma quello di Isotta era un caso diverso. Doppia cittadinanza, nata a Leeds, residente a Camden ma diplomata in Italia e un mucchio di certificazioni linguistiche, un numero eccezionale contando che aveva compiuto diciotto anni da meno di un mese.
Non era convinto al cento per cento: era giovanissima, non sapeva da quanto vivesse a Londra, ma al tempo stesso i quindici giorni di attesa che si era prefissato stavano per scadere. Ne aspettò solamente un altro, poi la chiamò e fissò un incontro. Non era un vero e proprio colloquio, sapeva già che gli sarebbe bastata una buona impressione per assumerla, ma aveva tanta voglia di staccare. Sedersi, bere un tè, parlare con qualcuno di nuovo, estraneo in tutto e per tutto.
Lo destò un picchiettio. Qualcosa colpì tre volte il vetro della porta principale, poi altre due. Aziraphale si diresse verso l'ingresso e una manica corta e bianca puntò oltre il cartello degli orari. Aprì l'uscio e un volto non più nuovo gli sorrise e lo salutò. Ricambiando, la invitò a entrare.
Isotta era piccolina, sebbene cercasse di lanciarsi verso l'alto grazie a un paio di scarpe col rialzo, ma non raggiungeva il metro e sessanta. Dalle maniche corte della blusa candida uscivano due braccia bianche, corte e tutt'altro che esili: doveva essere una persona attiva, sportiva, visti i fasci di muscoli abbastanza delineati che le percorrevano gli arti, con le cosce grosse e i polpacci robusti sotto i pantaloni attillati. Gli occhi, appena truccati con una patina di ombretto chiaro e mascara, enormi, a palla, saettavano da un dettaglio all'altro del negozio, dal soffitto agli scaffali ai divani fino ai tavolini. Aziraphale la guardava, sperando di incontrare il suo sguardo, ma non ci riuscì. Si sedettero su due divanetti, uno di fronte all'altra, con un tavolino basso a dividerli, ricoperto di scartoffie.
Rigida come una statua di marmo, Isotta si mise composta e, schiena ritta, si portò una mano in grembo e l'altra sul ginocchio destro. Aziraphale la studiò mentre si tormentava la rotula con le dita. Non credette di aver mai visto una persona più tesa, come se da un momento all'altro avesse dovuto attaccarla una belva. Decise di parlare prima che il silenzio si facesse insopportabile. Afferrò le carte sparse sul tavolo e recuperò quella con la fotocopia del documento di identità.
«Quindi, Isotta Fonda, giusto?». Le sorrise di nuovo, lei non fece altrettanto. Annuì, poi aggiunse "sì".
«Da che parte dell'Italia vieni?». In realtà lo sapeva già, ma pensò fosse un modo discreto per continuare. Aveva avuto a che fare con molti stranieri e, solitamente, erano sempre contenti di parlare del proprio paese.
Le braccia di Isotta, da dritte e immobili, si ammorbidirono. «Trieste» rispose. «Nord Est».
«È dove soffia la bora, giusto?»
«Sì».
«E da quanto vivi qui?». Poi si rese conto che, forse, stava sforando i limiti del personale e aggiunse in fretta: «Se non è un problema...»
Lei si strinse nelle spalle. «Tre mesi, circa».
Aziraphale annuì e prese un'altra manciata di fogli. «Una cosa in particolare vorrei chiederti». Sfogliò le certificazioni linguistiche di inglese, francese e tedesco. «Queste vengono tutte dalla tua scuola?».
«Sì. Le ho studiate lì».
«Anche russo?». Le mostrò un altro foglio. Sopra vi era un B1 in grassetto.
«Oh, più o meno. Ho seguito per due anni un corso serale organizzato dal liceo e infine ho fatto gli esami».
Per la prima volta rispose adeguatamente, senza fermarsi dopo poche parole. Aziraphale si compiacque della sua scioltezza e della pronuncia corretta, ma l'accento si faceva sentire comunque. «Quindi studiavi quattro lingue a scuola e sei riuscita a raggiungere questi livelli?».
Isotta lo guardò e si grattò il braccio. «Beh, sì».
«E sloveno?». Isotta non aveva certificazioni di sloveno, ma sul curriculum aveva segnato un A2 che aveva confuso Aziraphale. Non era di certo una delle lingue straniere che di solito comparivano quando, nei giorni in cui lavorava a tempo pieno nell'azienda di famiglia, ogni tanto si occupava degli aspiranti lavoratori.
Isotta fece un sorriso minuscolo. «Mia nonna era slovena e mi ha insegnato un po' della sua lingua. Poi facendo avanti e indietro per il confine ed esercitandomi con qualche libro ho iniziato a masticarla meglio». Poi aggiunse: «Non sono un asso, ma me la cavo. L'A2 è indicativo».
«Abbastanza da aiutare un cliente?». Aziraphale era uno studioso prettamente umanistico (spaziava dalla letteratura inglese alla storia, dalla musica all'antropologia e provava anche un discreto interesse per la teologia), ma le lingue straniere non erano mai state il suo forte. Ricordava ancora la sua prima, umiliante interrogazione di francese, dove la lingua che parlò fu un bizzarro misto di inglese, gallese e francese. Quelle volte in cui un cliente tentava di comunicargli a gesti ciò che desiderava erano imbarazzanti e parevano durare secoli. Spesso si concludeva con l'acquirente che, esasperato più di lui, gli mostrava una foto dal cellulare. Non sempre però li soddisfaceva, dato che il reparto di letteratura straniera era abbastanza esiguo, in special modo durante la bassa stagione, quando i turisti non erano di un numero tale da spronarlo ad acquistare altri libri in lingua originale.
«Direi di sì».
«E di tutte queste lingue hai studiato anche la letteratura?».
Isotta, che stava tenendo la testa lievemente abbassata, la sollevò di scatto. «Di inglese, francese e tedesco sì, ma al corso di russo insegnavano soltanto la lingua, quindi l'ho studiata un po' da sola. Di letteratura slovena non so quasi niente, però...». Si grattò la nuca, poi abbassò il braccio di colpo e il tonfo della pelle sui pantaloni smosse il divano. «So molto di letteratura italiana».
Il modo in cui lo disse - deciso, ma leggermente tremante, uno squittio forte e rapido - fece credere ad Aziraphale che fosse una sorta di asso nella manica giocato in maniera molto incerta, una carta che ti rigiri tra le dita pensando "la mostro o non la mostro, la mostro o non la mostro". Non capiva bene cosa intendesse dire Isotta (conosceva molti titoli o avrebbe potuto spiegargli ogni singolo verso di Boiardo?), per cui tacque per qualche minuto, mentre lei, con la mano di nuovo sul ginocchio, studiava l'ambiente circostante. La bilancia nella sua testa non cedeva né da una parte né dall'altra: davanti a sé vedeva una ragazzina curata ma dall'atteggiamento imbranato e chiuso (già se la immaginava balbettare con i clienti e lasciar cadere pile di libri), ma al tempo stesso una voce in fondo alla sua testa gli ordinava di provarci e l'immagine che si ritrovava davanti non era abbastanza forte da fargli concludere l'incontro.
Il suo flusso di pensieri venne interrotto da un forte bussare. Insistente, irregolare, volgare.
«Siamo chiusi, mi dispiace» disse Aziraphale voltandosi verso la porta.
«Ragazzotto, sono io!»
Riconobbe quella voce roca e sapeva anche cosa gli avrebbe chiesto. Fece un cenno con la mano a Isotta. «Scusa, solo un secondo».
Celando la sua irritazione, raggiunse la porta e la aprì. Un tanfo di tabacco ed erbe sconosciute lo investì e fu costretto a soffocare un colpo di tosse. «Ah, sergente Shadwell».
Il cacciatore di streghe - quel titolo faceva spesso ridere Aziraphale, ma stava sempre al suo gioco onde evitare disguidi - diede un ultimo tiro alla sigaretta, la gettò a terra e la spense con lo stivalone sporco di terra. Aziraphale gli scoccò un'occhiataccia, ma non disse niente.
«So che hai chiuso, non sarei venuto se Gezabele fosse stata a casa, ma sarà questione di un attimo».
Aziraphale lo avrebbe volentieri cacciato sbattendogli la porta in faccia - in mente aveva ancora lo sguardo perso di Isotta - ma si trattenne e si sforzò di sorridergli. «Entri pure, cosa le serve?».
«Ah, dieci, quindici sterline per il treno» gracchiò. «Vado da mio fratello, quel poveraccio si è ammalato di brutto».
Aziraphale cercò il suo portafoglio nei cassetti sotto la cassa. «Oh, mi dispiace».
«Ma è forte come un leone, confido che...». Si zittì di colpo e Aziraphale riemerse dal mobiletto. Il sergente aveva gli occhi puntati su Isotta, che si era alzata e sporta per vedere cosa stesse succedendo.
«Ehi, ma tu sei la straniera che va da Gezabele la domenica».
Isotta corrugò la fronte non appena udì "straniera", ma si limitò ad annuire. Aziraphale si affrettò ad allungare le banconote al sergente.
«Ecco a lei».
Shadwell se le intascò e corrugò la fronte. «Che ci fai con una donzella in libreria, eh?»
Aziraphale stava per controbattere, guardando prima il sergente e poi Isotta preoccupato, ma quello cambiò subito espressione, rise e gli diede una pacca sulla spalla. «Avanti, scherzo. Te li ridò, eh! Grazie, amico. Ehi, Ee-sho-tah!». Iniziò a gridare e ignorò le richieste di Aziraphale di abbassare la voce. «Salutami tuo zio, eh!». E se ne andò, accendendosi un'altra sigaretta.
Imbarazzato, Aziraphale tornò a sedersi, studiando il più velocemente possibile una spiegazione per Isotta, ma fu lei a parlare per prima. «Sa che non glieli ridarà mai, vero?».
Sorpreso dal suo tono fermo, Aziraphale ci mise un secondo in più a rispondere. «Sì, sì. Mi deve sessantacinque sterline, con quelle di oggi». Alzò le spalle. «Non mi pesa troppo, mi dispiace più che altro per la sua vicina».
«Madame Tracy?». Isotta si sciolse di nuovo e si portò una mano sotto il mento.
«La conosci?»
«Vive nel palazzo vicino al mio. Ogni tanto le do una mano con la spesa».
Aziraphale si limitò ad annuire. Recuperò i fogli, ma ormai aveva perso il filo del discorso e si chiese se avesse davvero senso continuare. Non in quel modo, di sicuro.
«Basta così, direi» mormorò.
Isotta, con uno scatto fulmineo, si voltò a bocca aperta. «Che intende?»
«Ti va una tazza di tè?»
Pensò che sorridesse e si rilassasse, invece lo guardò come se avesse detto qualcosa di astruso. «Prego?»
«O di cioccolata, se preferisci» continuò caloroso. Posò per caso lo sguardo sulle sue braccia che, mani sulle ginocchia, formavano un angolo retto con i fianchi, e si accorse della pelle d'oca, oltre che di una lunga cicatrice bianca sull'avambraccio. «Sei certa di non avere freddo?».
Boccheggiò un istante. «No, no, sto bene. E... e preferirei la cioccolata, grazie».
«Non fa molto caldo qui dentro» disse lui. «È per i libri antichi, sai, meglio non andare oltre i ventuno, ventidue gradi». La camicetta che indossava Isotta, in quel momento, gli parve fin troppo leggera. «Forse è meglio andare di sopra».
Isotta spalancò gli occhi. Le sue mani presero a tremare, un movimento quasi impercettibile che però non sfuggì ad Aziraphale e il suo cuore fece un balzo d'orrore. Cosa aveva detto di tanto sbagliato da agitarla in quel modo? «Isotta?»
«P-preferirei rimanere qui» balbettò. «Se non le dispiace» aggiunse frettolosa.
Confuso, Aziraphale non insistette. Andò nella cucinetta del retrobottega, prese due tazze dalla credenza e preparò le cioccolate. In attesa che fosse pronte, lasciò il pentolino e si appoggiò allo stipite della porta. Giocherellando con gli occhiali, guardava la mano di Isotta (che spuntava oltre uno scaffale) disegnare forme irregolari sulla superficie del divano, bagnato dalle deboli chiazze del sole appena giunto. Era tanto irrequieta, quella ragazza, ma desiderava metterla a suo agio, perché vederla in quello stato lo rattristava. Gli ricordava sé stesso, in un certo senso. Si chiese se anche lei si sentisse sola.
Portò la cioccolata e alcuni biscotti danesi. Isotta prese la tazza con entrambe le mani e, soffiandoci sopra, lanciava piccoli sguardi ai biscotti, ma non osò allungare il braccio.
«Allora» riprese Aziraphale. «Ti piace Londra?»
Isotta mandò giù un sorso. «Oh sì. È molto diversa dalle città italiane. Nessuna è così grande e popolosa».
«Non eri mai venuta, prima?»
«No, no. O meglio, avrei dovuto fare uno scambio culturale», Aziraphale prese un biscotto e lei lo imitò, «ma alla fine la scuola ha optato per Dublino».
«Ho dato un'occhiata al sito del tuo liceo» le disse. Dal momento che l'istituto accoglieva anche studenti stranieri, la pagina web era stata tradotta in tre lingue. «Organizzano molte attività con altre scuole europee».
Isotta annuì. «Sì. La mia scuola faceva parte di una sorta di esperimento».
«Esperimento?»
«Uh, da dove inizio...» si grattò la nuca. «La scuola superiore in Italia di solito dura cinque anni, ma alcuni istituti propongono percorsi quadriennali, di solito con il patrocinio del Ministero dell'Istruzione. Molti sono privati, dunque hanno una maggiore libertà sull'uso dei fondi e la mia scuola puntava tanto sulla collaborazione con gli studenti stranieri». Bevve un altro po' di cioccolata. «Certo, lo fanno tutti gli istituti, bene o male, ma da noi era proprio una parte integrante del percorso. In tutte le classi c'era una manciata di studenti stranieri ogni anno e solo la metà degli insegnanti era italiana».
«Quindi hai anche viaggiato molto?»
«Abbastanza. Con la scuola siamo andati soprattutto in Austria». Fece dondolare leggermente la tazza e si pulì in fretta una piccola macchia marrone vicino al labbro. «È utile. Soprattutto per la conversazione».
«Si nota che sei allenata. Il tuo inglese è ottimo».
Incrociò i piedi e abbassò la testa. «Grazie».
Per qualche minuto nessuno parlò. Fuori i fiacchi raggi del sole erano scomparsi e le nuvole si erano tinte di nero sopra un prato di tetti grigi e insegne folli. Aziraphale, spinto da un'estranea curiosità (raramente si curava di ciò che facevano i giovani, per il solo motivo che poche volte aveva contatti con loro) si chiese cosa avrebbe fatto Isotta quel sabato sera. Sarebbe uscita con i suoi amici al bar, a scatenarsi in una discoteca del centro? Ci pensò su e anche se non credeva fosse il tipo non escluse del tutto l'idea. O avrebbe fatto come lui, cioè si sarebbe chiusa in casa con un libro? Oppure avrebbe studiato. No, era improbabile, visto che aveva richiesto un lavoratore a tempo pieno e uno studente universitario difficilmente avrebbe potuto organizzare al meglio le due cose. Che volesse guadagnare qualcosa per l'anno successivo? Non pensava sarebbe tornata presto in Italia, visto che aveva la residenza a Londra. Fu tentato di chiederle, senza giri di parole, perché fosse lì, a diciotto anni appena compiuti e in città da meno di una stagione, a cercare lavoro, ma si fermò. Erano fatti che non lo riguardavano e l'avrebbe messa in soggezione, di nuovo. Forse gliene avrebbe parlato, un giorno.
Posò la tazza. «Che ne dice di tre mesi?»
Isotta sollevò lo sguardo e sbatté le palpebre più volte. «Scusi?»
«Tre mesi» ripeté lui. «Per il momento. Ci saranno un po' di documenti da mettere a posto, ma non dovrebbe essere troppo- cara, stai bene?».
Era rossa in viso e, ne era certo, aveva anche gli occhi lucidi. Si destò come da un sogno. «Ah, sì, scusi, quindi lei mi sta... »
«Ti sto prendendo, sì». Le sorrise, lei ricambiò e nel petto gli si accese una scintilla di felicità. Per la prima volta dopo mesi, si sentiva bene, il cuore libero.
Si diedero appuntamento per la settimana successiva. Isotta non smise di sorridere e persino il cielo scuro che prima incombeva minaccioso ad Aziraphale parve più sereno. Le porse la mano e lei accettò la stretta senza tentennare. Era bollente.
Isotta uscì e sventolò la mano in aria per salutarlo. Oltre il cartellino girevole appoggiato sul vetro, Aziraphale rise nel vederla fare una piroetta, quasi colpendo un gatto che sfrecciava sul marciapiede.
***
Nota dell'autrice: orari consoni dove pubblicare e dove trovarli.
Mi sono messa d'impegno e sono ri-uscita dal blocco. Diciamo che lo stress da preparazione valigie dovuto a mia madre mi ha aiutata ad apprezzare di più il tempo davanti al PC. Domani parto per il mare, signori, quindi gli aggiornamenti saranno ancora più irregolari. O forse no, dipende se trovo o meno l'ispirazione.
Anche stavolta ho superato le tremila parole. Lo dico sempre, ma spero che i tanti dialoghi rendano il tutto abbastanza accettabile.
È arrivato Aziraphale, comunque. Non ho granché da dire, mi piacerebbe conoscere le vostre impressioni.
Come sempre, spero abbiate gradito.
Sempre vostra
Fran Truth
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