Capitolo Ventisette
Il dente di leone
Due anni prima
Non c'era nessun motivo per fermarsi ancora una volta lì davanti, ma lei lo fece lo stesso.
Adelin si soffermò sulla porta di Maed, si sistemò il vestito stropicciato e appoggiò la mano sulla maniglia di ottone. Immancabile, sentì la gola annodarsi, il respiro scendere a fatica.
La luce era spenta, tutto sembrava al suo posto. Non c'era davvero bisogno di entrare a controllare.
Si allontanò, tenendo lo sguardo fisso sulla serratura, e il respiro tornò a fluire come prima. Succedeva ogni volta che si avvicinava. Come se dentro quella stanza si nascondesse una grande fiamma nera, si sentiva attratta. Era tardi, era stanca, doveva solo tornare in camera, mettersi sotto le coperte e chiudere gli occhi. Ripensare a Valien Rencan e al fiato che fino a qualche minuto prima le si era arrampicato sul collo. Sarebbe crollata a dormire nel migliore dei modi. Ne aveva davvero bisogno. Tre ore e la sua giornata sarebbe incominciata da capo. I denti, li avrebbe lavati appena sveglia.
Era quasi arrivata, quando si accorse che qualcosa non andava nelle lanterne appese lungo il corridoio. Lì doveva starcene una viola, non una azzurra. E quella verde. Mancava anche la lanterna dalle fiamme verdi.
Adelin represse uno sbadiglio e s'incamminò per controllare meglio.
Ci volle ben poco per accorgersi che tutto era sbagliato. E si trattava sicuramente della ragazza nuova.
Si voltò di nuovo verso la porta di Maed. La luce era spenta. Sospirando, si sdraiò in mezzo al corridoio, distese le braccia e le gambe, e sentì l'ambra gelida combaciare sulla sua pelle. Salutata quella piacevole sensazione, si alzò di nuovo, consapevole di dover fare un ultimo sforzo e sistemare le lampade per il giorno dopo.
Non capiva se le gambe le tremavano per il freddo o la stanchezza. I suoi occhi si erano persino chiusi, ma continuava a camminare. A un certo punto un bagliore violaceo filtrò oltre le sue palpebre, avvisandole che era quasi finita. L'ultima lanterna da sistemare si trovava appesa al soffitto, e non ci fu più nemmeno la forza per sospirare. Avrebbe fatto tutto la magia, stavolta.
Adel lanciò un'ultima occhiata alla stanza di Maed e, veloce come un battito di ciglia, scorse una fessura di luce scomparire come in un risucchio sotto la porta. Si sentì mancare. Aspettò. Nel bel mezzo della notte, l'unico rumore che poteva sentire era un acuto e sottile fischio di sottofondo.
Il giramento di testa se ne andò dopo un paio di minuti, e la fessura non si illuminò più nemmeno una volta. Adelin si assicurò di essere veramente da sola, e ora che anche la stanza di Maed era immobile e quieta, non l'avrebbe vista nessuno. Nessuno avrebbe visto che stava ignorando le regole del gioco. La notte era profonda e quello era il regno di Adel.
Strofinò la punta della scarpa sull'ambra per qualche secondo, e quando sentì la magia afferrarla per la vita, come due grandi mani che ti sollevano da terra, si diede una spinta leggera con l'altro piede e fluttuò verso il soffitto.
Quando richiamavi la magia senza preavviso, però, qualcosa doveva andare sempre storta. Adelin era pronta a galleggiare di nuovo verso il pavimento, ma l'ultimo metro d'aria sotto di lei si sgonfiò senza far rumore. Un breve e rapido vuoto la fece crollare sul solo piede destro, e lei rotolò di fianco con la lanterna abbracciata al ventre, mentre al calore del vetro si univa quello del dolore alla caviglia.
«Adelin, tutto bene? Signorina?»
Una servitrice si materializzò sopra di lei, i lineamenti del viso ombreggiati dalla luce viola della lanterna.
«Tutto bene» mugugnò Adel, mentre sentiva le mani della donna armeggiare sul suo corpo.
«Se mi permette,» continuò la servitrice, e Adelin riconobbe la voce di Celia, «mi aspetti, la prossima volta. Qualsiasi cosa vuole fare, così le do una mano.»
«È davvero tutto a posto» disse Adel, dandosi una spinta per alzarsi. La caviglia non si era fatta nulla.
Celia la fissò preoccupata per qualche altro secondo.
«Ho solo sonno» rispose Adel, aiutando la donna ad alzarsi.
La servitrice non le consigliò di andare a letto, ma solo perché sapeva che Adelin odiava sentirselo dire. «Maed sta dormendo» sussurrò, invece. «Le luci della sua stanza erano spente quando sono passata.»
«Ottimo.» Ci fu una pausa, e Adelin si sforzò per deglutire senza farsi sentire. Si chinò per prendere le lanterne che aveva raccolto. «Puoi andare, Celia, hai fatto un ottimo lavoro.»
In giardino c'erano solo il silenzio, la notte umida e un'altra servitrice, china in mezzo ai cespugli. «Buongiorno» disse la ragazza, stropicciandosi gli occhi con una mano e accennando un sorriso.
Adelin si fermò all'altezza della sua figura immersa nell'oscurità, scavando nella memoria per ricordare il suo nome. «Come ti chiami?»
«Mi chiamo Tanya, signorina. Ha piantato il mio fiore all'ultimo Congedo, non ricorda? Un bucaneve.»
Ce n'erano almeno sette, di bucaneve. Adelin annuì senza rispondere, e s'incamminò a passo sostenuto verso la decorazione personale del giardino.
E così, la sua giornata incominciò ancora prima di concludersi.
C'era tanto lavoro da fare. E c'era Maed. Adelin si accorse di avere la vescica piena, ma avrebbe aspettato di finire con le piante, prima di andare a svuotarsi.
Dopo aver indossato i guanti, e dopo aver disposto cinque lanterne in un cerchio intorno a lei, s'inoltrò al centro della decorazione e si mise al lavoro. Avrebbe approfittato della notte, della sua pace, per sistemare la sinfonia dei profumi senza essere distratta dall'apparenza dei fiori. Ben presto, incominciò a estirpare le piante e a ripiantarle senza farci tanto caso, lasciandosi guidare dall'istinto e dall'olfatto, mentre la sua mente ritornava alla porta di Maed, alla fessura sul pavimento che proiettava la luce nel corridoio. Scosse la testa. Doveva togliersi di dosso quell'immagine. Invece, cercò di ricordare quale fosse il fiore della servitrice che aveva sbagliato la disposizione di tutte le lanterne, ma si sentiva così confusa dalla stanchezza che piuttosto le sembrò di infilare le braccia dentro un pentolone di zuppa fredda e appiccicaticcia, solo per cercare un petalo che vi era caduto dentro. La ragazza, qualunque fosse il suo nome, avrebbe imparato che i fiori avevano le radici corte, e non era difficile sfilarli dalla terra. Anche se a quel punto saperlo non le sarebbe più servito a un bel nulla. C'era la fila, là fuori, decine di ragazze. Ma non capivano, non capivano che una sola cosa fuori posto avrebbe rischiato di mandare tutto all'aria. Mancava una lanterna, una sola, e qualcuno non avrebbe potuto fare la sua magia. Magari Maed si trovava a percorrere quel corridoio, e non avrebbe visto la magia che avrebbe dovuto vedere, e qualcosa sarebbe scattato nella sua testa, ma non se ne sarebbe accorta. E magari sarebbe successo altre volte, e chissà invece quante volte era già successo, tutto questo fino a quando una notte non si sarebbe svegliata quando non doveva, avrebbe acceso la luce e aperto la finestra per guardare dove non doveva guardare.
Adelin capì che aveva bisogno di andare a dormire. Si sfilò i guanti e fece per raccogliere le lanterne, ma si accorse solo in quel momento che si erano spente tutte tranne una.
No, no, no.
Inciampando tra i rami, si fiondò su quella che era rimasta, l'abbracciò e riuscì a scoperchiarla in tempo. Si sprigionò un lieve odore di magia, ma era così debole che sembrò piuttosto un fastidioso solletico sul collo. Si alzò di nuovo, stringendo la lampada al petto e sentendo il calore tenue delle sue fiamme premerle sul collo. Doveva chiamare la ragazza, Tanya, ordinarle di prendere quelle lanterne e riaccenderle, prima dell'alba.
«Tanya» chiamò, cercando di tenere la voce a metà tra un sussurro e un tono normale.
Qualcosa le accarezzò il polpaccio, quando lei provò a uscire dalla sua decorazione. Rametti viscidi, foglie appiccicose. Adelin sentì il cuore saltarle in gola. Cercò di fare luce con le fiamme verdi, ma stavolta il suo dito toccò qualcosa, e lei lanciò un gridolino, ritraendo la mano come se avesse preso la scossa.
Cambiò idea e decise che non avrebbe provato più a guardarlo. Il tumore floreale sembrava essere cresciuto ancora, dall'ultima notte. Quanti centimetri aveva guadagnato? «Tanya» chiamò ancora Adel, e stavolta percepì una nota di paura nella sua voce. Deglutì e mosse un passo avanti, i fiori cosparsi di bava che le leccavano le ginocchia e non si staccarono da lei fino a quando non fu a metri di distanza.
Incominciò a correre sul sentiero, e si accorse ben presto che Tanya non era più in mezzo ai cespugli. «Tanya!»
Dannata puttana, dove sei?
Un brivido sulla nuca le disse che c'era qualcosa di sbagliato nella sezione gerarchica del giardino. Sentiva che qualcosa nella piramide era andata molto storta. Lasciò la lanterna a terra e riprese a correre, tenendosi il vestito, le dita appiccicose per colpa di quell'orrore di pianta.
Tanya era riversa a terra, e aveva schiacciato una quantità immane di fiori. Gran parte della sezione gerarchica era andata. Adel si chinò, allungò una mano verso quello che assomigliava a un braccio, quando una luce verde inondò tutto il corpo, proiettando lunghe ombre fino alla punta della piramide floreale.
«Oh, Astrali.»
Adelin si voltò di scatto, con una mano sul cuore.
«Che è successo?» squittì Celia, coprendosi la bocca con le dita.
«Ti avevo detto di andare a dormire, dannazione.»
«Sì, Adelin, ha ragione, ma mentre tornavo—»
«Dopo, adesso aiutami a levare da qui questa cretina.»
Spostarono Tanya di lato, attente a non calpestare altri fiori. Nel frattempo, Adelin controllò il respiro. Si preparò all'ennesima brutta notizia.
«Che hai visto peggio di questo?»
«Ecco, stavo tornando nella mia stanza, ma... sì, sono passata di nuovo dal vostro corridoio. Volevo controllare tua sorella.»
«Lo avevi già fatto.»
«Lo so, ma quella porta ha uno strano effetto su di me. Be', ho visto la luce accesa sotto la fessura.»
«Sei entrata?» Adelin sentì i lineamenti contrarsi, la gola serrarsi, mentre osservava le ombre sul volto di Celia in attesa della verità.
«Sono entrata» rispose, chinando il capo. «Maed non c'era, la finestra era aperta.»
Adelin deglutì e sentì il cuore sprofondarle fino allo stomaco. «Bene» disse. «Vai a cercarla. Anche se è scesa in città, portati una luce e cercala. Se la vedi, stai muta e seguila fino a quando non sarà più sicuro.»
«Sì, Adelin» disse, inchinandosi, e scappò via per il sentiero fino al portone della Villa.
Quando rimase sola in mezzo al giardino, in mezzo al suo giardino, Adelin si sentì soffocare nel buio. Mosse un passo in avanti, a tentoni. Anche se non c'era un minimo segno dell'alba, nemmeno una lieve sfumatura di blu all'orizzonte, Adelin percepì Hajen. Lo percepì prendere la rincorsa da dietro le colline e scagliarsi con tutto il suo peso addosso a lei, abbattersi sul suo collo, portandosi appresso gli schiamazzi del mattino, i servitori che si svegliavano, sua madre e Tanesin che uscivano dal portone e si convincevano di giostrare quello che non era loro.
«Celia!» gridò Adelin.
Si svegliassero pure tutti, nessuno avrebbe dormito in pace quella notte.
Una luce si bloccò, proprio sulle scale, e incominciò a ondeggiare su se stessa. Riprese a ingrandirsi, fino a quando la servitrice non giunse ansimante e piegata sulle ginocchia al cospetto di Adelin.
«Sì...»
«Non andare. Stamattina ho bisogno di te qua. Vai a svegliare la servitrice nuova...»
«Chi?»
«L'ultima. Svegliala, se non si sveglia falla cadere dal letto, e mandala giù in città a cercare mia sorella. Riferiscile tutto quello che ti ho detto prima. Se non ubbidisce o fallisce perderà il suo fiore. Tu» disse Adelin, avanzando nella luce verde e sentendo nello stesso istante lo stomaco brontolare, «se non vuoi perdere il tuo papavero, ora vai in cucina e tiri fuori le uova. A colazione ho voglia di uova, e tutti mangeranno le uova. Appena Hajen sorgerà, correrai in stanza di Tanesin prima che arrivi la sua servitrice e le spalancherai le tende. Metterai quella cosa nel suo bicchiere d'acqua, mentre ancora si sta svegliando e sta urlando contro di te a occhi chiusi. Oggi Tanesin Tamoni avrà il raffreddore così forte ché non riuscirà ad alzarsi dal letto. Ci penserà qualcun altro a capire che è meglio annullare il pranzo con i Rencan. Puoi andare a dormire, dopo.»
Celia annuì un'infinità di volte mentre incespicava all'indietro e scompariva nel buio.
Adelin sospirò fino a svuotarsi i polmoni.
Non si era mai ubriacata, anche se se n'era presentata l'occasione. Una volta Tanesin l'aveva sfidata a bere del vino per vedere chi avrebbe retto di più, ma solo dopo due bicchieri lei era saltata sul tavolo, convinta di aver vinto alla grande. Eppure immaginò come ci si poteva sentire proprio in quel momento, quando barcollò verso alcuni cespugli e si lasciò cadere in mezzo ai rami.
Rimase in compagnia dell'acqua che gocciolava dalle foglie per qualche minuto. La tenne sveglia, mentre le picchiettava sulla guancia e poi le scivolava giù sul collo. O forse a un certo punto si addormentò. Chiuse gli occhi, ma solo per cercare di mettere ordine nella sua mente, per capire cosa poteva fare davvero lei. Forse gli alberi si sentivano in quel modo, quando percepivano le foglie staccarsi. Una di qua, una di là, e mentre provavano ad arginare il problema concentrando la loro attenzione su un unico ramo, arrivava una folata di vento e spazzava via tutto il resto. Arrivava l'autunno e se ne accorgevano troppo tardi.
Adelin immaginava che sarebbe arrivato l'autunno. Sapeva che Maed avrebbe soffiato, un giorno o l'altro, e le foglie sarebbero volteggiate in cielo e poi cadute a terra.
Si girò sul fianco, si accucciò e aprì per sbaglio le palpebre, quando di fronte ai suoi occhi vide un astrale.
Era fiorito all'ombra di un cespuglio, il gambo timido che faceva capolino da dietro il sottile tronco della pianta. Come la pelle degli Astrali nelle favole, i suoi petali erano di colore azzurro, quasi sbiaditi, e si schiarivano o acquistavano colore a seconda dell'angolatura dalla quale li osservavi. Bastava spostarsi di un centimetro a destra ed ecco che diventavano bianchi come margherite, o blu, come iris. Adelin, ancora distesa, allungò la mano e con estrema attenzione lo sfilò da terra, pensando già un posto da dedicargli nella sua decorazione.
Hajen arrivò con meno foga di quanto si era aspettata e le voci nel giardino crebbero con calma. Approfittò dell'assenza di sua mamma e di Tanesin per alzarsi e uscire dai cespugli. Ordinò a una sua servitrice di portarle un vestito nuovo, si cambiò dietro alcune siepi e infine andò dove poteva fare davvero qualcosa.
Trovò un posto all'astrale e lo piantò, eppure, per tutto il tempo, non riuscì a non guardarla. Quell'altra cosa. Il tumore floreale era davvero cresciuto, nel corso della notte. C'erano un paio di rami in più, e le ampie foglie pendevano fino a sfiorare il suolo. E le liane. Quei fiori simili a rose, con i petali viola e le punte arancioni, sputavano all'esterno delle liane umide e pelose, che fino al giorno prima erano sembrate bisce innocue e sottili, ma che adesso assomigliavano ai tentacoli di una piovra. Ora tenevano in scacco il viburno che stava lì accanto, e stritolavano un ramo dell'oleandro.
Adelin allungò la mano per raccogliere l'ultimo fiore che vi era rimasto attaccato. Lo staccò, lo avvicinò con cautela al viso, ma i suoi petali sbiaditi decisero di sfilarsi come i semi di un soffione.
Non riusciva a distogliere lo sguardo. Era orribile, viscida, ma più guardava quella pianta, più se ne innamorava. Ora che ci pensava, Adelin non ricordava nemmeno chi gliel'avesse regalata. Sapeva solo di averla piantata dopo che Maed le aveva incendiato il giardino, per fare quello scherzo a Tanesin. Era stata una delle prime piante della sua nuova decorazione, eppure stava esplodendo solo adesso, solo ora che l'intera decorazione era ritornata rigogliosa come un tempo.
Adel intuì cosa stava accadendo, lì sotto, tra le radici. Fissò la base del tumore floreale, dove il fusto si tuffava nel suolo, dove la terra si era sollevata, gonfia, come una bolla. Le mancò il fiato, sentì la gola annodarsi stretta.
Un'ombra oscurò tutta la decorazione, e Adelin ritrasse la mano di scatto. Sentì il petto sciogliersi, mentre si accorgeva che stava facendo tutto quello senza nemmeno aver indossato i guanti.
«Signorina» esordì la voce dispiaciuta di Tanya, alle sue spalle. «Mi sono addormentata in mezzo ai cespugli, non so davvero come scusarmi.»
Adelin si alzò in piedi, ringraziandola nel profondo, ma sapendo già cosa avrebbe dovuto fare. Si voltò a guardarla. Aveva gli occhi cerchiati di nero. «Vieni con me» disse.
La prese per mano ed entrambe s'incamminarono per il vialetto di terra. Il giardino nel frattempo si era popolato. Alcune servitrici le guardarono con strane occhiate mentre sfilavano in mezzo a loro. Quelle sue capirono immediatamente, chinarono il capo e si misero di nuovo a lavorare con le piante. Le altre indugiarono qualche attimo in più. Non potevano capire.
Alla luce del mattino, fortunatamente, il danno alla decorazione gerarchica del giardino non parve essere così grave. I fiori schiacciati formavano un mezzo cadavere alla base della piramide, ma con una giornata di luce e acqua sarebbe tornato tutto alla normalità.
Tanya strinse le dita intorno a quelle di Adelin, mentre lei cercava il suo fiore in mezzo alla moltitudine. Un bucaneve, ora lo sapeva. Lei era nuova, quindi il suo doveva trovarsi alla base della piramide, dove l'affollamento era maggiore. «Spero di non aver schiacciato proprio il mio fiorellino» disse lei, con una risata nervosa.
«Ora lo scopriremo» disse Adel, chinandosi per guardare più da vicino. Tanya non mollò la presa e la imitò.
Alle loro spalle si riunì una piccola folla. Bisbigliavano, erano tutte servitrici. Adelin riconobbe la voce preoccupata di Ealen, i sussurri di Genna, percepì una tensione collettiva, densa e carica, che la fece sentire come al primo giorno di addestramento.
Lo vide. Quando allungò la mano sopra la decorazione, la folla trattenne il fiato. Danna si lasciò scappare un sospiro rumoroso, quando le dita di Adel sfiorarono la sua margherita. Un leggero movimento d'aria, probabilmente, annunciò il suo svenimento. Voci sommesse, la terra che scricchiolava sotto le scarpe di tutte le spettatrici. «Sollevatele le gambe...»
Adelin approfittò della lieve distrazione generale per stringere il bucaneve di Tanya tra le dita e sfilarlo dal terriccio umido. La sentì piangere.
Le porse la spalla per un paio di minuti, mentre la folla si sparpagliava, alleviata per il pericolo scampato. Quando i suoi singhiozzi finirono, la invitò ad alzarsi, le sorrise amaramente e le accarezzò la schiena indirizzandola verso il portone.
Yanesin arrivava dalla parte opposta, minacciosa, col suo vestito svolazzante. Tanya non la vide, la testa china mentre si asciugava le lacrime, ed entrambe sbatterono con la spalla. «Tu, vai a sparecchiare la tavola» urlò Yanesin, prendendole il mento e alzandole il viso a forza. La spinse verso il portone. Il passaggio era sempre stato brusco.
«Perché non eri a colazione?» chiese, ancora a qualche metro da Adelin. Lei lanciò un ultimo sguardo oltre la schiena di sua madre, incrociando gli occhi arrossati di Tanya, l'ultima volta in cui l'avrebbe fatto coscientemente. Mantenne il contatto fino a quando Yanesin non le oscurò completamente la visuale.
Le afferrò il polso. «Siamo più potenti noi dei Rencan, quindi non sei tu che devi andare a casa di quel ragazzo, intesi? Un giorno farà parte di noi ed è bene che si abitui il prima possibile.» Allentò la presa e addolcì lievemente lo sguardo. «La nostra villa è più grande, piccola. Di tutte le stanze che abbiamo non ce n'è nemmeno una che vi aggrada?»
«Mamma...» la rimproverò Adelin con un sussurro, guardandosi alla sinistra, mentre due delle sue servitrici passavano accanto per controllare. «Ero in camera mia, ho un po' di raffreddore.»
«Anche Tan.» Yanesin lasciò la presa sul suo polso e riprese a camminare. «Vieni, dobbiamo cercare tuo padre.»
Adelin si guardò un'ultima volta intorno. Intercettò gli sguardi preoccupati di Genna, Tilien e Iolian, ma le tranquillizzò con un sorriso. Quando Yanesin era ormai lontana di qualche passo, vide Daya, seduta sui talloni, tirare fuori da dentro un cespuglio una lanterna dalle fiamme magenta e riprendere a far bollire su dal terriccio l'acqua per innaffiare le piante. Le annuì. Adelin allungò il passo e si affiancò di nuovo a sua madre.
«Sicuramente il raffreddore è colpa di Maedlin. Ora...» Si mise a spiegarle come Tanesin era insieme al maestro nella speranza di trovare un rimedio entro la sera e inveì contro la cucina, che aveva preparato uova per la terza mattina di fila, ma Adelin in realtà non stava prestando molta attenzione, perché ad un tratto il timore che Maed potesse combinare qualche disastro le attanagliò lo stomaco di colpo. Si ricordò che lei in quel momento poteva trovarsi dappertutto.
«Il pranzo è saltato, ma i Rencan verranno comunque stasera, va bene? Ci sarà anche lui.» Yanesin si fermò di colpo. Si trovavano in un sentiero di ghiaia leggermente appartato, affiancato da siepi di cipresso. «Vedo che ti piace quel Valien. Piace anche a me. Stasera vediamo di concludere questo matrimonio, intesi?»
Adelin intravide la mezza figura di suo padre in fondo al sentiero, alle prese con uno dei cespugli. Lo indicò. «Trovato.»
Yanesin gonfiò il petto e si lisciò il vestito sui fianchi.
«Mamma, pensò che andrò a riposarmi di nuovo.»
«Rimettiti, mi raccomando.» Ma ormai lei era partita all'attacco verso suo marito.
Adelin strappò una fogliolina da un cespuglio e iniziò a giocarci con le dita. Attese che suo padre si accorgesse di sua madre, che si accorgesse anche di lei, e attese un'eventuale richiesta d'aiuto da parte sua.
Lui sobbalzò appena vide Yanesin, e fece guizzare gli occhi intorno fino a quando non trovò Adelin. Una volta stabilito il contatto visivo, li socchiuse lentamente.
Bene, un altro grattacapo.
Mentre i suoi genitori incominciavano a discutere, Adelin ritornò sui suoi passi e imboccò il sentiero parallelo. Lo percorse fino in fondo, e quando riuscì a udire con chiarezza le due voci, si sedette per terra, con la schiena contro la siepe e lo sguardo fisso sul tetto della Villa. Almeno, gli scorci che se ne intravedevano da dietro le siepi. Hajen era già tramontato, mentre Gamon doveva essere ancora nascosto dietro al bastione centrale.
Maed era seduta sulla cima di un camino. Dondolava le gambe, la salutava con la mano. Poteva vedere i suoi denti anche da quella distanza, splendenti come il marmo bianco che la circondava.
Tutto il corpo di Adelin sembrò irrigidirsi in unico crampo. La gola le si strinse a tal punto che le mancò il fiato. Rispose al saluto, mentre teneva a bada i singhiozzi.
Maed imitò il gesto di asciugarsi le lacrime e inclinò leggermente il capo. Infine, si tuffò dentro il camino.
«...sei buono solo a scappare. Mi fai intendere che se il ragazzo fosse venuto da una famiglia di servitori allora non ti saresti lagnato?»
«Yani, ti prego, non è...»
«Cazzo, dovrai startene zitto e mangiare con la testa china. È così difficile?»
Anche se Adelin avesse voluto seguire Maed, non avrebbe saputo dove andare. Cercò di eliminarla dalla mente, e invece prestò attenzione all'imminente richiesta di suo padre.
Guardò sul tetto ancora una volta, ma non vide nessuno.
«Ah, scusa, hai ragione, se ti metti un vestito buono poi c'è il rischio che ti facciano delle domande, e il povero Farnel Bangdelor smetterà di non esistere.»
«Non ti è bastato quello che mi hai fatto finora?»
I due si zittirono, poi Adelin sentì sua madre sghignazzare.
«Non basterà mai, lo sai bene. Mi dispiace tanto.»
«Stasera no, ti prego» disse Farnel, abbassando la voce. «Solo stasera. Oggi è una giornata così bella.»
«Cosa non hai capito, idiota? Tua figlia si sposerà con loro figlio.» I rami della siepe dall'altra parte si schiacciarono sotto il peso di qualcuno. «Credi che non ceneremo mai più insieme? Quel Valien diventerà nostro. Non dirmi che pensi di poterti nascondere fino a quando non sarai costretto a esiliarti nelle isole. Non dare la colpa a me, Farnel, dalla a chi ti ha concepito. Ai Rencan non gliene frega niente di conoscere Adelin, sono qui per te. Vogliono vedere se questa cosa del serpente che ha stritolato l'ultimo scienziato ha funzionato per davvero. Vogliono vedere se ti ho mangiato e digerito. Vogliono testimoniare la merda che sei diventato. Forse pensi di essere l'unico in difficoltà. È difficile fare la figura della puttana dalla mattina alla sera, ogni minuto del giorno. I Rencan hanno delle aspettative alte, tutte le famiglie, in realtà, e stanotte vogliono tornare a casa soddisfatti.»
«Perché mi hai scelto, allora? Ti sei proposta tu per questo giochetto del serpente. Sei sazia?»
«Non immaginavo sarebbe diventato così faticoso. Ero giovane e pensavo di divertirmi...»
Quando Adelin vide la servitrice che Celia aveva mandato giù in città sbucare da dietro il bastione con la lanterna verde in mano, che si guardava in giro spaesata come una bambina smarrita, Adelin saltò in piedi e capì che stava per succedere.
Si sfilò le scarpe e corse scalza lungo il sentiero, sentendo i sassolini picchiarle la pianta dei piedi a ogni passo. Tenne d'occhio il tetto per tutto il tempo, ma non vide altro che il marmo bianco, fino a quando non rispuntò sulla strada di terra battuta al centro del giardino, e lì si bloccò.
La servitrice — come dannazione si chiamava — era aggrappata al bordo del tetto con una mano sola. Nell'altra, distesa lungo il fianco, impugnava ancora la lanterna. Maed era lì accanto, e con un piede le schiacciava le dita, strofinando la scarpa come se stesse uccidendo uno scarafaggio. Adelin rivide l'incendio di tre anni fa, e quella visione le tolse la forza dalle gambe.
Non c'era nulla da fare. Si guardò attorno, cercò una servitrice qualsiasi delle sue, nella speranza di mettere su una magia per salvare il giardino, ma tutti avevano gli occhi puntati in alto.
Quasi inciampò, quando decise di scattare in avanti. I muscoli delle cosce si sciolsero come cera sotto il suo peso, avvolti dal calore del fuoco che stava per arrivare. Ma riuscì ad arrivare alla sua decorazione, s'inginocchiò a terra e abbracciò le sue piante. E in quel momento la servitrice perse l'appiglio. Gli unici suoni, in tutto il giardino, furono il suo breve strillo, lo schioccare della sua veste e l'infrangersi del corpo sui rami di un cespuglio, come denti che masticano un duro boccone.
Il resto, tolto il colore delle fiamme, fu identico a tre anni prima.
Tra le urla e i servitori che scappavano come formiche, il fuoco divampò e l'avvolse, e Adel strinse più piante che poté nel suo abbraccio.
Il fuoco era niente. Era la prima cosa che s'imparava a sconfiggere quando iniziavi l'addestramento. Da piccoli, si guardava a quell'abilità come alla più difficile, la più orgogliosa, quella che diceva a Tumenor che eri diventato un vero nobile ed eri invincibile. Ma in realtà comprendevi ben presto di quanto fosse tutto così ridicolo.
Il fumo, invece, quello uccideva per davvero. Ti addormentava e ti avvelenava nel sonno.
Adelin non seppe chi le agguantò il braccio per tirarla fuori dalla cenere, troppo stordita per la repentina ripresa di coscienza, però sapeva di non volerne uscire. Si dimenò e strillò a più non posso, fino a quando non la lasciarono sola. Il suo abbraccio aveva salvato una dozzina di piante. L'astrale aveva solo un petalo bruciacchiato. Quando sciolse l'abbraccio, Adelin sentì il tumore floreale perdere presa sul suo vestito, le foglie appiccicose e ricoperte di bava che le strappavano di dosso gli ultimi brandelli inceneriti. Una volta separati del tutto, la pianta scattò in piedi come una molla, svettando su tutto quello che le stava accanto e scagliando fili di linfa biancastra tutt'intorno.
Sfacciato, così l'avrebbe descritto.
Adelin affondò le mani sotto la terra, scavò con le unghie, fino a quando non toccò il groviglio di radici di quell'orrore. Rivoltò il terriccio fino a quando non fu tutto visibile alla luce di Gamon, un ammasso di fili informe, fili bianchi, verdi, muffa e viscidi lombrichi intrappolati. Strappò tutto ed estrasse il tumore dalla sua dimora, stringendolo per il fusto e alzandolo al cielo come un trofeo.
Sfacciato, più che mai. Orgoglioso.
La metà del giardino in cui si trovava Adelin non esisteva più. Solo cenere, a terra, per aria. Tutto, tutto era da ricostruire da capo. La gerarchia, i cespugli, la sua decorazione personale. Scelse un punto al centro del tappeto di cenere e incominciò a scavare, fino ai gomiti, fino a quando le sue dita non ritrovarono la terra bagnata. Raccolse il tumore e gli diede un posto al centro della fossa. E poi quello che era rimasto. Il piccolo astrale, l'oleandro, le rose e le petunie, tutte in cerchio, a qualche centimetro di distanza. Le aveva salvate dall'incendio, ma erano deboli, pendenti, piegate verso il centro. Non poté non notare una curiosa metafora, in tutto quello.
Avrebbe ricostruito il giardino da quel piccolo anello di piante, e dal magnifico orrore selvaggio che vi svettava al centro.
Il resto della giornata lo passò ad accertarsi che tutte le sue servitrici fossero al sicuro. Si riunirono in mezzo alla cenere, si abbracciarono.
«Qualcuno di voi ha visto Celia?»
Le ragazze chinarono il capo tutte insieme. Una di loro si fece avanti. «Ce l'ha tua madre. L'ho vista tirarle uno schiaffo. L'ha fatta cadere a terra e l'ha trascinata via.»
Le altre annuirono e incominciarono a bisbigliare.
«Perché?» chiese Adelin, afferrandosi il vestito.
«L'ha vista usare la magia» intervenne Jenna. «Tu eri là dentro, e non hai visto che ha fatto. Ha maneggiato le fiamme bianche e ha fatto venire il vento. Ha spento tutto lei.»
Adelin sospirò e sorrise. «La salveremo.»
La gerarchia andava ricostruita da capo, ma non quel giorno. C'era un'ultima cosa da fare. Adel lasciò le sue donne in giardino e ritornò dentro la Villa. Salì le scale e andò in camera sua. Si lavò il corpo dalla cenere, cambiò il vestito e mise il profumo migliore che aveva. Inspirò e ritornò nel corridoio.
«Signorina, Adelin» disse una servitrice, appena uscì dalla porta. Il suo fiore non era mai stato nella piramide, non la conosceva. «Nonostante il disastro, la cena con i Rencan non è stata annullata. La aspettano tutti nella sala. Mi ha fatto mandare suo padre.»
«Fa nulla» rispose, e s'incamminò. «È lui che vogliono, non me.»
La porta della stanza di Maed era chiusa a chiave. Lo poteva vedere dalla serratura, leggermente oscurata. Adelin tirò fuori dalla tasca una chiave.
Appoggiò la mano sulla maniglia di ottone. Come sempre, le mancò il fiato. Aspettò. Passarono cinque minuti forse, e Adel rimase lì fino a quando l'ottone non perse tutto il suo gelo, fino a quando lei non fu sicura di aver messo a bada l'ultimo singhiozzo.
Inserì la chiave e girò. La serratura scattava al ritmo del suo cuore.
La stanza di Maed era identica alla sua. Almeno, nella forma. Il letto si trovava sulla destra, mentre sulla sinistra decine di vasetti di terra erano sparsi per terra. C'era una cassapanca. Era aperta, alcuni oggetti luccicavano al suo interno.
«Adelin.» Maed sobbalzò. Era sul davanzale della finestra, pronta a lanciarsi. Le tende schioccavano attorno a lei, nascondendo e mostrando le sue braccia. Lei stringeva qualcosa nel pugno. «Ti prego» disse, asciugandosi una lacrima e portando la mano dietro la schiena. Quando la riportò in avanti, la riaprì, mostrandole il palmo vuoto. «Ti prego, non dire nulla.»
Adelin spalancò le braccia e chiuse gli occhi.
Si era sempre domandata come facessero i denti di leone a trasformarsi in quel modo. Petali gialli, forti. E poi, da un momento all'altro, sottili semi pallidi. Una brezza leggera entrava dalla finestra, e lei sentì tutto il corpo volare via quando Maed l'abbracciò.
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