Capitolo Ventiquattro
Dalle stelle non si vede l'inferno
La urla delicate di Adelin si consumarono presto. Le ultime note avevano un che di terrificante, nel modo in cui vibravano. Maed, appiattita contro l'informe escrescenza metallica, s'immaginò sua sorella afferrarsi i capelli, mentre le lacrime le bagnavano il vestito. Fu tentata di tornare allo scoperto e correre verso di lei, ma il metallo, gelido sulla nuca, la tenne incollata dov'era.
Scusa, scusa, scusa. Ti prego, ti prometto che torno, solo qualche minuto.
Il silenzio improvviso l'avvisò che poteva uscire dal nascondiglio. Rimase solo qualche rombo profondo e lontano, un rumore di pietra che si muove, così remoto che sembrava venire dal passato. La villa abbandonata dei Bangdelor ritornò d'un tratto a essere un luogo vissuto. Il luogo proibito, dove una volta i nobili traditori avevano maneggiato la scienza, e dove ora gli scienziati erano tornati per continuare i loro esperimenti.
Maed corse a passo leggero per il corridoio, svoltando agli incroci e continuando a guardarsi alle spalle. Quella era stata una villa e, come tutte le ville, era un intricato labirinto di budelli rocciosi. Non appena raggiunse una rampa di scale la imboccò, salendo con cautela i gradini di pietra che si sbriciolavano sotto i suoi passi. Si sporse oltre lo spigolo, e il primo piano si mostrò in tutta la sua decadenza.
Fu facile trovare i balconi. I muri ancora in piedi erano ben pochi, e quelle che una volta erano state stanze e corridoi si erano trasformati in un enorme e unico atrio. Il pavimento si era sgretolato, sembrava una vecchia tavola di legno carbonizzato.
Tadon era scomparso.
Maed riconobbe in fretta il balcone da cui si era affacciato. Corse, saltò sulle macerie, e una volta raggiunta la portafinestra che lui aveva attraversato si affacciò. La ringhiera di pietra la colpì sotto il diaframma, togliendole tutto il fiato. Di sotto, per un attimo, ebbe la visione di se stessa e Adelin sedute sul primo scalino. Si vide mentre sua sorella le diceva qualcosa, mentre le appoggiava la mano sul ginocchio.
«Allora stavi cercando me.»
Tadon era affacciato a un balcone di fronte a lei.
Maed inspirò di colpo e trattenne il fiato. «No» disse, lasciando uscire l'aria con un sospiro. Non sapeva se era perché lo aveva trovato, o se perché in realtà non si trattava di Adelin. Si riscosse e strinse la tozza ringhiera di pietra. «Sì, ti stavo cercando.»
«Ho visto tua sorella. Perché sei venuta con lei? L'hai forse convinta a diventare scienziata?»
«Non-» Maed scosse la testa e si costrinse a calmarsi. Allentò la presa. «Non pensavo ci fosse anche mia sorella.»
Anche lui parve tranquillizzarsi un attimo. Incrociò le braccia e si appoggiò con la spalla allo stipite dietro di lui. «Immagino tu non voglia dirmi cos'avevi intenzione di fare.»
«Che fine avevi fatto?»
«Diciamo che in questi giorni sono stato impegnato ad aiutare Andelus a riallestire la Combriccola.» Si guardò brevemente intorno, lanciando qualche occhiata al soffitto infestato di ragnatele. «E tu, che fine avevi fatto?»
Maed stava guardando in basso. Vedeva ancora sua sorella seduta sulle scale. Ora era da sola, raggomitolata, piangeva. Era tutto finto, eppure le si chiuse lo stomaco.
Si accorse che Tadon la stava fissando. In mezzo a loro, tra i due balconcini, una spada di luce trafiggeva la polvere. «Senti» disse a bassa voce e ricambiando il suo sguardo, «non ci sarebbe un posto migliore per mettersi a parlare?»
Tadon accennò una risata. «Aspettami lì.»
Aspettò lì. Si rannicchiò a terra, contro un lato del balcone, dove nessuno avrebbe potuto vederla. Tra le forme piene e affusolate della ringhiera di pietra continuò a osservare la polvere, alcuni granelli che fluttuavano, altri che si scagliavano furiosi verso il basso. Erano slegati da ogni legame col mondo.
Tadon arrivò proprio quando Maed si rese conto che stava perdendo troppo tempo. Anche Udenas sarebbe tramontato. Provò lo stesso dolore di Adelin - la gola che si asciugava e l'intestino che si annodava stretto - ma ormai il guaio era fatto.
«Andiamo.» Parlò piano, affacciandosi alla porta. Si era accorto anche lui che dovevano fare più silenzio possibile. Ma il suo tono lieve sembrò dirle che ormai il gioco era stato fatto. Pazienza. Andiamo. Ormai hai scelto. «Conosco un posto perfetto dove nessuno potrà disturbarci.»
«Quanto è lontano?» chiese Maed, accettando la mano di Tadon.
«Un pochino, ma ne vale la pena.»
Il silenzio in mezzo a loro era denso. Maed lo percepì come una forza, fatta di segreti e cose non dette, qualcosa che si espandeva e la obbligava a distogliere lo sguardo. Per tutto il tragitto fino al tetto della villa abbandonata sentì il bisogno di guardare alla sua sinistra, o per terra, dove con i piedi sbriciolava la pietra. A un certo punto, fece persino scivolare via le dita da quelle di Tadon, chiedendosi se anche lui non stesse pensando che forse tenersi la mano era troppo. Spesso si voltava, per accertarsi che nessuno fosse alle loro spalle.
«Ci conviene passare da sopra» disse lui, una delle poche volte in cui si guardarono. Si era arrampicato sul cadavere di un vecchio pilastro che ormai non sorreggeva più niente. Controllò velocemente oltre il soffitto crollato e infine aiutò Maed a salire. «I sotterranei della villa sono quasi tutti crollati, per poterci passare. E poi si vede tutta Asdenar da qui.»
Maed ebbe il timore che tutta quella situazione imbarazzante, quel silenzio, fosse colpa sua. «Grazie» disse, una volta su.
La villa dei Bangdelor era stata gigantesca. Torri spezzate gridavano invano di essere state le più alte di tutta la città, un tempo. La dimora si trovava su una delle colline più elevate, una delle più lontane da Asdenar. Maed si chiese se erano stati i nobili a stanziarsi così lontano dai traditori, o se non fossero stati gli stessi traditori a scegliere da sé il posto più remoto per condurre i loro esperimenti.
«Scommetto che non l'avevi mai vista tutta insieme.» Tadon le prese la mano e la costrinse a guardare verso Asdenar, la cascata di tetti rossi che diventava grigia e scura prima di gettarsi in mare. Ma lui si riferiva a qualcos'altro. Sapeva che a Maed mancava quel dettaglio.
L'altovia - o meglio, ciò che ne restava - era ancora lì. Perlopiù costeggiava la città, ma a tratti si era infilata fra i tetti. Riconobbe la fermata intermedia, dove il Benefattore era salito sulla cabina di Maed e, leggermente più in alto, il punto in cui si era spezzata. I lucenti fili d'acciaio che avevano portato su e giù le gocce di vetro ora erano fili sbiaditi di una vecchia e umida ragnatela. Pendevano flosci, quasi toccando terra.
«Chissà se il Benefattore sapeva che quella dell'altovia sarebbe stata una vittoria, a prescindere dal suo destino. Guarda che cicatrice» esclamò, osservando compiaciuto mentre si portava le mani dietro la nuca. «Sarà difficile rimarginare una cosa del genere.»
Maed piegò la testa di lato, cercando d'immaginarsi quello che aveva appena detto Tadon, provando a vedere la cicatrice che attraversava la città. Una macchiolina bianca, su un tratto di tetto inferiore, attirò la sua attenzione. La cassetta di suo padre. Lui non c'era più. Per un attimo, percepì come una scossa, in mezzo all'intestino, il bisogno di sbrigarsi.
«Non credi che sia pericolosa, come nuova casa degli scienziati?» disse, ancora col collo inclinato. «A differenza del Faro, questa villa è molto più scoperta. È piena di buchi.»
Tadon riprese a camminare, afferrando delle tegole con le mani per superare un pendio scosceso. Quella villa era così vecchia che aveva ancora le tegole. «Un giorno cammineremo in mezzo alla città come persone normali. Diciamo che stiamo cercando di abituarci.»
Superata la sommità del tetto, davanti a loro si aprì una vista tempestata da tetti bianchi e lucenti, frammezzati dal verde delle palme e delle chiome degli alberi. All'improvviso, ciò che aveva detto Tadon sembrò un controsenso. Gli scienziati, dopo essersi leccati le ferite, si erano stanziati nella loro nuova casa, in mezzo ai nobili, anzi, più in alto ancora. Ciò che aveva detto lo scienziato quando Maed era stata nascosta dentro l'Astro acquistò senso all'improvviso. Qualsiasi cosa stessero cercando di fare ora gli scienziati non era più nel loro Faro, in gran segreto, a sostenere dal basso la città. Ora, guardavano tutto dall'alto.
«Fanno paura, vero?» disse Maed. Si voltò a guardare Tadon, ma lui teneva gli occhi fissi sulle ville lucenti, le pupille strette. «Finché guardi la città sembra facile, ma poi ti giri e ti ricordi contro chi stai gareggiando.»
«Passerà» sospirò dopo un po', e si scrollò da qualsiasi pensiero l'avesse trattenuto. I suoi occhi ritornarono nella realtà. Non aggiunse nulla, si limitò a sedersi e a scivolare verso il basso.
Maed guardò per gli ultimi secondi la cassetta di suo padre, fresca di vernice, il tetto a punta. Il suo piccolo mondo.
«Mi chiedevo,» disse, raggiungendo Tadon, «voi scienziati sapete come parlare a distanza? Cioè, se uno di voi si trovasse in cielo, per esempio, sarebbe in grado di comunicare con qualcun altro a terra?»
Tadon camminava a passo sostenuto. La domanda aleggiò in mezzo a loro per qualche secondo, e alla fine lui sogghignò. «Certo.» Ancora silenzio. «Un giorno, immagino, riusciremo a parlare da Asdenar fino alla capitale. L'oceano, per un attimo, non diventerà che una pozzanghera larga un metro. Se però quello che vuoi sapere è come sia possibile una cosa del genere, mi dispiace, ma sei troppo una principiante per capirci qualcosa. Perché me lo chiedi?»
Maed iniziò a spiegargli cos'aveva visto fare a suo padre, cercando di essere meno confusionaria possibile. Appena vide disegnarsi sul volto di Tadon una smorfia confusa, disse: «Sì, mio padre fa quelle cose e lo sanno praticamente tutti, ma lo lasciano stare in pace.»
«Interessante.» La sua andatura sembrò rallentare. «Non c'è nessuno nella Combriccola che studia quelle cose, sai? Anzi, qualcuno ci aveva provato, ma si era annoiato a morte. Si vede che l'ha capito anche la tua famiglia.» Giunsero sul bordo di quella sezione di tetto e si calarono in basso.
«Ha fatto volare un palloncino, lo sai? Il cielo lo ha risucchiato in pochissimo tempo.»
Tadon fece spallucce. «Lo so fare anche io. Basta qualcosa di più leggero dell'aria, che ci vuole. Avrà usato dell'elio, o dell'idrogeno. Io preferisco il fuoco.» La guardò sorridente per un attimo, perché sapeva alla perfezione che Maed stava pensando a quando lui era fuggito dalla Villa, la notte in cui il Faro era stato distrutto. Lo sapeva, perché nessuno si sarebbe dimenticato. Decine di lanterne l'avevano accompagnato in cielo fino a farlo scomparire.
«Quindi il fuoco è più leggero dell'aria?»
«Non lo vedi come spinge verso l'alto? È come una bolla sott'acqua. Anche se ti sbagli, il fuoco è aria. Semplicemente, aria decisamente più calda.» Maed cercò d'interromperlo per fare un'altra domanda, ma lui continuò a parlare come se fosse in grado di sentire in anticipo ciò che voleva chiedere. «Se trovi qualcosa in grado di bruciare, gli dai energia, basta una piccola scintilla, e l'energia incomincia a trasferirsi all'aria. L'aria allora si mette in movimento, si agita. L'energia è così tanta che le fa cambiare colore, la fa diventare rossa, perché ormai è incandescente.»
«Anche gli Spiriti?»
«Oh, brava. Ma stavolta l'energia arriva da Gamon. Appena trova uno spiraglio nel cielo di Tumenor, si fionda in basso, come in un tuffo, e al suo passaggio l'aria si sveglia e si mette a danzare.» Lo aveva detto, lo aveva promesso. Quando erano stati in cima al Faro, aveva promesso di scoprire il segreto, e ce l'aveva fatta.
«Allora è scienza, avevi ragione» disse Maed, guardando in basso. «Quindi è stato Andelus. È riuscito a prendere l'energia di Gamon e l'ha portata dentro la Villa.»
«Cosa?»
«È stato Andelus a portare gli Spiriti dentro la Villa. Lo ha fatto per dirmi qualcosa. O era la prova. Forse lo ha fatto per farmi uscire dalla sala prima dell'esplosione. Sapeva quello che stava per succedere.»
Andelus sapeva quello che stava per succedere. Li ha fatti venire apposta, gli Spiriti. Sa che quando magia e scienza si toccano, succede quello che deve succedere.
«Che stai dicendo?»
«Ancora non mi credi? Gli Spiriti erano dentro la Villa.»
«Non è possibile, dài.»
«Senti...» disse Maed, «come hai fatto a entrare nella Combriccola? Intendo, quando hai smesso di essere un semplice ladro?»
«Che c'entra?»
«Dimmi qual è stata la tua prova.»
«Allora, Maed, calmati un attimo.» La prese per un braccio e la trascinò accanto a una casupola. «Stai parlando troppo forte. Ho sentito qualcuno avvicinarsi.»
«Io non ho sentito niente.»
«Io sì. Ora, ti dico qual è stata la mia prova, e poi, senza protestare o fare altre domande, andrai là dietro e te ne starai in silenzio e immobile, fino a quando non ritorno.» Aveva il braccio teso, a indicare la fine della parete. Tutta la sua voglia di scherzare era scomparsa. Sussurrò. «Di solito, Andelus vede se siamo curiosi. Fa di tutto per creare una situazione particolare, e se chi è nel bel mezzo della prova, che non è mai al corrente di nulla, va dove deve andare, dove Andelus vuole che vada, allora è degno di diventare uno scienziato. Ma questo non significa che-» Stavolta anche Maed aveva sentito un rumore, qualche sassolino rimbalzare sulla pietra. Tadon girò il collo di scatto. «Be', a me non è successo niente di tutto ciò» riprese, parlando ancora più piano e più in fretta. «Ho sempre causato problemi, quindi mi hanno trattato diversamente. Ho fatto una gara. E ho vinto. Scusa, ora devo andare.» Si allontanò, rimanendo accucciato. «Maed, vai» disse, girandosi un'ultima volta, e Maed ubbidì.
Girato l'angolo, si appiattì contro il muro. Non era quello che voleva sentire, esattamente, ma almeno ora aveva una minima prova che gli Spiriti erano dentro la Villa perché quella era la prova, per lei. Davanti a sé, adesso, non c'era né la città, né il quartiere dei nobili. Un ultimo tratto di tetto che digradava in basso e poi, solo colline. Non c'era più nulla da guardare.
«Shhh» sentì sussurrare, oltre lo spigolo del muro.
«Tadon» disse un'altra persona. «Che ci fai qui a terra?»
«Parla piano» rispose Tadon. «Ho sentito due persone parlare, penso siano ancora qua in giro. Non lo so se sono dei nostri.»
«Pure io» disse l'uomo, spostando alcuni cocci di terracotta.
«Stiamo nascosti qua dietro e vediamo se passano di nuovo.»
Dopo un po' di silenzio, l'altro disse: «Ogni volta che torno qua sopra mi cago addosso.»
«Io penso di essermici abituato, ormai» rise Tadon. «Finalmente, una casa tutta per me.»
«Vi aiuterei, te, Andelus e Ansel. Chi c'è oltre a voi tre, qua?»
«Ci sono l'Esplosivo e la Magnetica, come sempre. Perché non vieni pure tu? Non ci credo che non potresti esserci d'aiuto. Se non lo sai tu come aggirare la gravità.»
«Ah, non c'è bisogno. Ho consegnato tutti i fogli ad Andelus, il mio compito ormai è fatto. Comunque tranquillo, c'è bisogno di gente giù in città.»
«Gravio, sei sprecato per quello che sai.»
«Il Benefattore ha voluto in questo modo, e così è stato. Ci ha trasformati in burattini e ci ha messo le sue invenzioni in mano. Ormai il guaio è fatto.»
«Che guaio, scusa?»
«Cazzo, allora stare qua dentro è per davvero come stare tra le stelle, eh?»
Ci fu un breve momento di pausa, in cui nessuno parlò. Maed si affacciò con un occhio, e vide Tadon seduto contro la parete, mentre Gravio si sporgeva per guardare l'altro spigolo in fondo al muro. «Vedi qualcuno?» disse Tadon. Maed si nascose di nuovo.
«No, il nulla assoluto, come sempre. Magari erano solo due ragazzini un po' annoiati. Dicevo» continuò Gravio. «Alla fine della prima gara al veleno, il Benefattore ha sparato. Ha usato quello che chiama l'Esplodiferro, ne avrai sentito parlare di sicuro. Dovevi vederlo, ha lasciato un buco grosso così nel petto di quel nobile. Lui è rimasto fermo immobile in aria, appeso, mentre il sangue blu gocciolava sul palco e poi a terra, come se il bastardo si fosse pisciato addosso per la paura. Non voleva cadere. Ti giuro che quando è scoppiato il putiferio, e il Benefattore se n'è scappato sul suo carro fumoso mentre i nobili bloccavano a terra decine di scienziati, io l'ho rivisto, quello lì. Sono riuscito a salire su un tetto prima che riuscissero a prendermi, e ho visto il nobile che era ancora appeso in aria, e ti posso giurare che erano passati almeno dieci minuti.»
«Dai, non penserai sia stato il Benefattore a farlo rimanere lì?
«No, no, non sto dicendo questo.»
«Avevi uno sguardo. So che per te è difficile. Quando li avremo uccisi tutti tranne uno, ci faremo dire come dannazione fanno a fare finta che Tumenor non li attragga.»
«È che... era morto, capito? O non sanno davvero quello che fanno, non sanno davvero perché ogni tanto si mettono a volare, oppure riescono a farlo anche da morti. Magari sono davvero immortali.»
«Dopo dieci minuti con un buco al posto del cuore non so chi riuscirebbe a restare vivo.»
«Appunto.»
«Be', com'è finita poi?» chiese Tadon.
«Non è finita, semplice. Da quel momento in poi penso che nessuno di noi scienziati sia riuscito a farsi un paio di ore di sonno. Da qui non si vede bene, ma ora combattiamo sui tetti.»
«Porca... come te lo sei fatto?»
«Uno di quei bastardi mi ha fissato per qualche secondo, poi ho visto un lampo e mi sono ritrovato in mezzo a un vicolo con questo sul ginocchio. Qualcuno deve averlo fatto fuori prima che mi venisse a uccidere del tutto.
«Capisci?» riprese Gravio, dopo qualche secondo di silenzio. «Che senso ha? Stiamo usando la scienza, va bene, ma non c'è gusto. Che fine ha fatto il nostro cervello? Mi sono ritrovato in mano con uno di quegli Esplodiferro e ora devo stare attento che un nobile non si fiondi dal cielo con un pugnale puntato contro la mia nuca. Hanno fatto esplodere le case. Le hanno fatte saltare in aria e stanno dando la colpa a noi. Portano i cittadini verso la città alta con le loro carrozze e quando hanno qualche minuto scendono di nuovo e ci addormentano con il loro odore, per sempre. Non abbiamo niente. Nemmeno il Benefattore sapeva che sarebbe andata così. Va bene, abbiamo il fuoco, possiamo tendergli una trappola e far sì che si ritrovino in mezzo alle fiamme, ma non serve a nulla perché non muoiono. Stanotte, hanno fatto pure scendere i fulmini. Hanno carbonizzato due dei nostri su un tetto. Dove ci sono i resti dell'altovia, non si può più stare. Hanno fatto qualche roba strana, e se ora ti metti a guardare da un tetto con un tubo di lenti dovresti riuscire a vedere decine di cadaveri riversi per le strade.»
«Non ne sapevo nulla, Gravio. Cazzo, mi sento di essere inutile. Tutto quello che stiamo cercando di fare qua sopra sembra inutile, adesso.»
«Scherzi? Muovetevi, vi prego. Il Benefattore non ha capito un bel nulla della scienza. Non la sa usare. Era partito bene, l'altovia, le luci nelle strade. Ora è un delirio. Ovviamente, è scomparso nel nulla.»
Maed non ce la faceva più a stare ferma immobile ad ascoltare. Lanciò un sassolino lontano e approfittò del momento per dare una rapida occhiata. Gravio era in piedi, lo sguardo lontano verso il punto da cui era venuto il rumore.
«Quasi quasi vorrei farlo fuori, il Benefattore» disse, subito dopo che Maed si era ritratta.
«Gravio, aspetta. Non ho idea di quanto ci metteremo, ma quando avremo finito Andelus sistemerà tutto. Spero solo che tutto questo abbia un senso.»
«Cazzo, se ce l'ha.»
Maed si accorse all'improvviso che Udenas stava oltrepassando la sua testa. Una falce rossastra era comparsa oltre la cima della parete.
Adelin.
Il suo cuore si agitò d'un tratto e un tremolio le attraversò le gambe. Sua sorella era ancora là sotto a cercarla e Maed stava perdendo troppo tempo, si stava prendendo gioco di lei. L'avrebbe capita, se se ne fosse tornata alla Villa lasciandola in mezzo a quelle macerie, a mani vuote. Nella sua mente era stato tutto molto più rapido. Un breve incontro con Tadon, per poi fuggire di nuovo e ritrovare Adelin o suo padre.
Tadon comparve oltre l'angolo e Maed sobbalzò.
«Ci siamo, Gravio è andato via.»
«Dove stiamo andando?»
«Ti ricordi?» disse lui, allungando la mano in basso. «Ti avevo promesso di farti vedere un posto.»
Maed nascose le mani in mezzo alle gambe. «Non...»
«Che c'è, non vuoi venire?»
«È lontano?»
«Non proprio, ma preparati perché è abbastanza difficile da raggiungere.»
Maed si guardò intorno per qualche secondo.
«Dai, perché non vuoi venire più?»
E invece andarono. Dovette prendere un respiro profondo, per convincersi ad alzarsi. Approfittò dei pochi minuti che seguirono per pensare a un modo per ritrovare sua sorella. Avrebbe cercato nella dimora dei Bangdelor per qualche minuto, e se fosse stato tutto inutile sarebbe andata perfino a casa, alla Villa. D'un tratto, sembro un'idea interessante, nonostante tutto ciò che si era promessa. Avrebbe potuto scoprire com'era fatta la sua sostituta, la nuova figlia adottiva di sua madre. Si sentì stupida per non averlo chiesto prima a Farnel.
Tadon aveva ragione. Giunsero a un punto in cui il tetto era crollato, come risucchiato da un vuoto profondo. Si calarono in basso, saltando da un masso all'altro, e nel frattempo la luce di Udenas si rifiutò persino di accompagnarli, tanto erano scesi in profondità. Maed riconobbe il fondo perché intravide un vecchio pavimento decorato, figure rosse e nere celate da un sottile strato di polvere. Un corridoio. Proseguirono in quella caverna profonda, rischiarata da lanterne scientifiche appese alle pareti - quelle con i vermiciattoli incandescenti. Era Tadon a guidarla, qualche metro più avanti, mentre disegnava delle linee sulla polvere delle pareti.
Il corridoio, in fondo, andava a congiungersi a una stanza più alta che ampia.
Nessuno avrebbe mai immaginato che una tale immensità si potesse celare così in profondità. Maed giurò di non aver visto niente con quella forma a cupola sbucare dalla terra. Quanto in profondità si trovavano? E si chiese quanti anni potesse avere quel posto, se l'avevano scavato gli scienziati, oppure se era sempre esistito, anche prima del grande incendio. Il soffitto lontano e ricurvo, le pareti circolari, sembravano essere fatte apposta per contenere ciò che nascondevano.
L'Astro, per le strade di Asdenar, era sembrato svariate volte più piccolo.
Lo avevano dipinto. Ancora la vernice bianca non lo copriva fino alla punta, e alcune strisce rosse e verdi lo avvolgevano alla base come delle cinture. Guardandolo bene, sembrava davvero che gli scienziati avessero impilato tanti cilindri uno sopra l'altro, con l'ultimo sulla sommità a chiudere il tutto con la sua forma affusolata.
Tadon era appoggiato alla base dell'Astro con una spalla. «Vieni?» disse, le braccia e la gambe incrociate. «Possiamo anche entrarci dentro, se ti va, e salire fino in cima.»
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