Capitolo Ventidue

Il sommozzatore e l'astronauta

Cinquantadue anni prima

Andelus spiegò sul tavolo l'indovinello del giorno.

Un grosso quadrato, due frecce incrociate, e otto lettere tutte attorno.

I tratti, di una mano precisa, riempivano il foglio per intero. Eppure sembrava tutto così vuoto.

«Che casino là fuori» disse Rael, sbattendosi la porta alle spalle. Una ventata smosse l'aria dello stanzino, risvegliando vecchi odori di muffa e di alghe. Tutte le finestre erano serrate a chiave, sbarrate con assi di legno. Quella mattina i gabbiani non la smettevano di urlare, forse perché si erano accorti che qualcosa stava cambiando.

«Quanti sono?» chiese Andelus, girando al contrario il foglio con l'indovinello. Era un foglio giallastro, macchiato qui e là. Ben conservato, per essere venuto dallo spazio in un involucro di metallo incandescente.

«Secondo me» rispose Rael sedendosi, «almeno duecento.» Si abbandonò sullo schienale e incominciò a guardarsi intorno. «Per forza qui dovevamo farlo?»

«Sì, per forza. Fa parte della carezza di cui ti parlavo. Appena usciranno da qui non vedranno l'ora di tornare.»

«Non dirmi che hai intenzione di dirglielo per davvero?» chiese Rael. «La scienza sarà la nuova luce su Asdenar» lo canzonò, con la vocina.

Andelus rimase con lo sguardo fisso sulla lavagna. «No, devono capirlo da soli. Se sono quelli giusti, lo capiranno appena tornati sulla scogliera, dopo aver lanciato uno sguardo in alto e osservato con cura dove hanno trascorso gli ultimi quindici minuti della loro vita.»

«Guarderanno in alto e vedranno un fuoco blu. Sicuro di sentirti bene, Del?» Uno degli anelli di Rael picchiettava sul tavolo, mentre gli tremavano le dita.

«Te lo ricordi quel bulbo di vetro che ti ho fatto vedere l'altra volta?» disse Andelus. Guardò Rael - il ragazzo venuto dal cielo - in faccia per la prima volta. Lo fissò in mezzo alla fronte pallida. «Quello che s'illumina. Quanto ci ha messo, eh? All'inizio faceva una luce fredda, debole. Ma quanto era diventato accecante, alla fine? Scottava.»

«Ti ricordo che quel coso si è fritto da solo. Si è sciolto.»

«Avremo tempo di cambiarlo, il fuoco. E preparati a fallire, perché tutto questo non sarà facile.»

«Mi sento prontissimo.»

«Vedrai che è stata la scelta giusta.»

«Lo spero per te.

Se avessimo usato il tuo, di metodo, voleva dirgli Andelus, avrebbe fatto tutto schifo. Perché quel ragazzo sembrava avere il pepe su per il culo?

Comizi in piazza.

Ci avrebbero preso per pazzi. Una volta che le guance dei cittadini avrebbero smesso di far male per le troppe risate, se ne sarebbero andati tutti su alle ville a raccontare la barzelletta che avevano appena sentito.

Ciao ciao, scienziati, è stato bello.

Ci vuole pazienza, con loro. Bisogna corteggiarli, con delicatezza. Accarezzare e fuggire.

Un giorno sarebbero venuti a cercarti perché si sono innamorati di te.

E così è stato.

Gli avrebbe detto in faccia tutto quello, a Rael. Ma forse era meglio tenersi stretto l'unico alleato.

«Avanti il primo» urlò Andelus.

Dietro la porta sorse un breve clamore, e appena tornò il silenzio, l'anta della porta si scostò. Un uomo entrò con la testa china, un libro tenuto stretto tra le mani.

«Chiudi la porta» disse Rael.

La stanza si era illuminata per un attimo, ma tornò immediatamente nella penombra. Gli unici raggi di luce filtravano tra le fessure delle tavole di legno, e si adagiavano proprio sulla lavagna.

«Dove hai trovato il libro?» chiese Andelus, senza perdere tempo.

L'uomo lo appoggiò su un tavolino in mezzo alla stanza. «Nelle fogne» disse.

Rael si girò di scatto e Andelus gli sorrise.

«Qualcuno lo aveva buttato?» chiese.

L'uomo iniziò a tormentarsi le mani. «Mia moglie. L'aveva trovato infilato in una grondaia. Si è messo a sfogliarlo, ma appena ha capito che si stava mettendo nei guai ha deciso di buttarlo.»

«E appena te l'ha raccontato tu ti sei messo a cercare in tutti i tombini, o sbaglio?»

Lui fece di sì con la testa. «Cioè, intendevo, non sbaglia. L'ho cercato per tre mesi.»

«Vediamo, e di cosa parla questo libro?» disse Rael, con un pugno affondato nella guancia.

«Parla... delle leggi del moto» disse l'uomo, chinandosi sul libro e iniziando a sfogliarlo con dita emozionate e tremanti. «Velocità, accelerazione, strappo...»

E non smise di parlare per almeno mezz'ora. Di sua iniziativa, raccolse un gessetto e iniziò a disegnare delle linee, delle curve sulla lavagna. Ogni tanto il gessetto gli si spezzava tra le dita, e lui si fermava per un attimo titubante, ma poi riprendeva più forsennato di prima. Quell'uomo aveva ricevuto una carezza, tempo prima, e si era innamorato perdutamente. Chissà quante volte aveva letto quel libro. Non gli era bastato, ed era venuto lì per sfamarsi ancora di più.

Andelus, dopo qualche minuto trascorso ad ammirare l'uomo mentre affrescava la lavagna, non poté non ritornare al suo indovinello. Senza farsi vedere da Rael, girò il foglio col quadrato e provò a venirne fuori in qualche modo. Lo ruotò, cercò un ordine o un senso alle lettere, ma in risposta non ricevette altro che il vuoto enorme tra le sue linee.

Uno scherzo.

«Posso farti una domanda?» Rael si spostò sulla sedia.

L'uomo smise di scrivere. Annuì.

«Sai perché stiamo facendo tutto questo?»

Il gessetto gli cadde dalle dita. Tutte le linee, i cerchi, i numeri che affollavano la lavagna sembrarono inghiottirlo.

«Non... non lo so.»

Rael si protese sul tavolo e ci appoggiò sopra i gomiti. «Forse pensi si tratti tutto di un gioco. Il mio compare Andelus non ha nascosto i libri in giro per Asdenar perché avevamo bisogno di qualche amichetto in più.»

«Grazie mille» disse Andelus, alzandosi in piedi un po' impacciato. Gli girò la testa. Era ritornato così in fretta dalla sua distrazione che si sentiva frastornato. «Attendi fuori, ti faremo sapere cosa ne pensiamo.»

L'uomo s'inchinò e raccolse il libro. Si fiondò verso la porta.

«Aspetta» disse Rael. «Cancella tutto quello che hai scritto.»

E così, il primo candidato, tremante, raccolse una pezza da un secchio d'acqua e fece svanire nel nulla i numeri e le curve che con tanto amore aveva riversato sulla lavagna. Bastò qualche secondo. L'acqua colava sul pavimento sporca di bianco.

«Che razza di domanda era?» disse Andelus, appena si fu chiusa la porta.

«Mi aveva stancato, con i suoi discorsi. Derivata di qua, derivata di là. Ma hai visto? Non sapeva nemmeno cosa siamo qui a fare.»

«L'hai spaventato.»

«Certo, si è cagato sotto. Quello è il tipico bastardo che ti volterebbe le spalle nel momento cruciale.»

«Era così innamorato che non l'avrebbe mai fatto.»

Il secondo e il terzo candidato persero la sfida dopo aver parlato per un solo minuto. Li cacciò entrambi Andelus. I loro occhi non brillavano. Rael sembrò essere d'accordo, ma di sicuro aveva in mente ben altre motivazioni.

Il quarto aveva quattro libri sotto braccia. Due, disse, li aveva rubati a qualcun altro.

«Ho dato fuoco ai loro carri» spiegò. «Li ho minacciati, gli ho detto che se non mi avessero dato i loro libri avrei fatto lo stesso con le loro case. Esistono dei metodi fantastici per far esplodere qualsiasi cosa. Mischia questo, mischia quello. Lo sapevate?»

«Continua» disse Rael.

«Oh, sì, certo.» Aprì un libro dalla copertina rossa. «È scritto tutto qua. Credo proprio possa fare al caso nostro.»

«E qual è il caso nostro?» chiese Rael.

«Fare fuori i nobili, ovviamente.»

«Prosegui.»

«No, fermo.» Andelus appoggiò la penna sul tavolo e ne chiuse il cappuccio. Il disegno con il quadrato rimase a metà sul suo avambraccio. «Hai intenzione di far saltare in aria le ville dei nobili?»

«Sì, stavo arrivando proprio a quello. Non è facile, certo, ma...»

«Un attimo.» Andelus si alzò e si girò verso Rael. «Lui sì che ha capito. Penso che andremo a parlare di questa cosa là fuori. Così tu puoi continuare con le selezioni.»

Rael lo guardò spaesato.

«Andiamo» disse Andelus, facendo cenno all'uomo. Lui raccolse in fretta e furia le sue cose, e Andelus lo aspettò sulla soglia, con le dita serrate sulla maniglia. Quando il candidato fu a un metro da lui, però, si bloccò.

«Mi chiedevo...» disse, a testa bassa. «Non sarà pericoloso parlarne là fuori? Potranno sentirci, non crede?»

«E qual è il problema?»

«Be', non penso sia saggio, se mi permette.»

«Spiegati.»

L'uomo deglutì. «Pensavo aveste fatto tutto questo in segreto, così alti e lontani, per non rischiare di essere sentiti dai nobili. E dai cittadini.»

«E perché i cittadini non dovrebbero sentirci?»

«Perché hanno paura, e potrebbero riferire tutto ai nobili.»

«E perché dovrebbero avere paura?» chiese Andelus, aprendo la porta. Rael si alzò di scatto dalla sedia.

«Be', per colpa dei nobili. Se i nobili sono diventati nobili e la scienza ora è bandita è perché Asdenar è esplosa, anni fa...» Gli occhi dell'uomo si spalancarono.

«Vedo che hai capito» disse Andelus, invitando l'uomo a uscire. «Finalmente hai capito perché la tua idea di far saltare in aria le ville è un'idea del cazzo.»

Là fuori, i duecento aspiranti scienziati, tutti ammassati nella stretta scala a chiocciola del Faro, ammutolirono all'unisono. L'uomo uscì. Si voltò, cercò di dire qualcosa, ma Andelus gli chiuse la porta in faccia.

«Dannazione, Del» disse Rael, lasciandosi andare in un sospiro sofferto. «Non puoi decidere sempre tu. La sua idea non era il massimo, ma almeno era sulla strada giusta.»

«Anche il primo era sulla strada giusta.»

In quarantatré candidati, nessuno riuscì a concludere il proprio discorso.

Andava sempre nello stesso modo. Uno tra Andelus o Rael li fermava e li incastrava in qualche modo. Ovviamente, quando era Rael a prendere l'iniziativa, Andelus non era d'accordo. E quando Andelus lo anticipava, invece, era lui a sentire Rael mugugnare e agitarsi sulla sedia.

Il quarantaquattresimo candidato fece il suo ingresso con le mani in tasca, senza alcun libro. Indicò la porta da cui era entrato. «Mi chiedevo» disse, senza che nessuno gli avesse chiesto niente. «Davvero, cioè, davvero Asdenar duecento anni fa è esplosa per colpa della scienza?» Dopo qualche secondo di silenzio, aggiunse: «I nobili stanno lì sopra per quello?»

«Tu che dici? Io non c'ero» disse Andelus, ricalcando l'ultima linea dell'indovinello sul braccio. Quando ebbe finito, sollevò lo sguardo.

«Purtroppo nemmeno io ero nato» rispose l'uomo, ridacchiando.

«Allora sai cosa? Vai a chiederlo ai nobili. Qualcuno che ha più di duecento anni lo troverai di sicuro. E non tornare. Non me ne frega un cazzo della risposta.»

«Non l'hai fatto parlare» disse Rael, una volta che l'uomo li ebbe lasciati soli. «Non ti piacevano mica, quelli curiosi?»

Andelus decise che non era il caso di rispondere.

«Forse aveva un'idea intelligente.»

«E allora perché non ti sei intromesso? Ti lamenti delle mie decisioni, ma stai sempre zitto. Cazzo, la prossima volta ti alzi, se non ti va bene. Corri, lo prendi per il braccio e lo riporti qua dentro, se pensi che dalla sua bocca possa uscire qualcosa di sensato.»

«Non voglio che ci vedano litigare. Già questo posto fa schifo, se ci mettiamo a urlare tra di noi penseranno che siamo-»

«Facciamo l'ultimo, va bene?»

«Facciamo l'ultimo» disse Rael, con un tono neutro. Andelus non lo guardò, ma sapeva che in realtà stava scoppiando di gioia. Si preparò a una frecciatina da parte sua, un commento sull'idea dei libri e dei colloqui. «Avanti» si limitò a dire.

Entrò una donna. La seconda del giorno, su quasi cinquanta.

Perché così poche, eh?

Siete poco creative? Vi fa schifo la scienza? Vi vergognate?

La donna era giovane. Stringeva un tomo enorme sotto il braccio. Dopo averlo mollato sul tavolino, si sollevò la spallina del vestito.

«Buongiorno» disse Rael.

Stavolta Andelus lo vide, vide il sogghigno farsi strada sulla sue labbra. Sapeva che aveva vinto.

Lasciò che fosse lui a continuare. Rimase fermo nella sua posizione, tenendosi la fronte col pugno e allo stesso tempo fissando il quadrato con le frecce sull'avambraccio.

«Di cosa ci parli?»

La ragazza si schiarì la voce. «Questo libro» disse, sedendocisi accanto e posandoci una mano sopra, «mi è piaciuto molto.»

Si spostò qualche capello della fronte e aprì il tomo. Era così voluminoso da sembrare un cubo. Lei iniziò a sfogliarlo, leccandosi le dita e raccogliendo una pagina alla volta. Andelus, che aveva iniziato a sbirciarla da dietro il braccio, le avrebbe detto di smetterla di trattare il suo libro come un giornaletto, ma il gesto era così sensuale che non poté che stare fermo e guardare.

«Va bene» disse Rael. «A quanto pare con questa caccia al tesoro vi siete divertiti da matti.»

«Già, i nobili non ne organizzano mai. È sempre una noia con loro.»

Andelus spostò il braccio dalla propria visuale. La ragazza fece scivolare gli occhi verso di lui e, in quel preciso istante, il suo sguardo ritornò più serio. Ci fu un contatto. Un trasferimento di energia.

«Anche io ho rubato un bel po' di libri» disse, con le gambe accavallate e le mani appoggiate su un ginocchio. «So che forse vi arrabbierete, ma a qualcuno ho pure strappato le pagine. Poi le ho riattaccate nell'ordine che più mi piaceva. E ho costruito questo.» Diede una pacca alla spessa copertina del tomo. «Ho riscritto la scienza. Una parte, ovviamente.»

«Non hai riscritto la scienza» disse Rael, aggrottando le sopracciglia. «Non mi pare di aver assistito a strani cambiamenti, attorno a me.»

«Oh, ma tu lo sai benissimo che non sono direttamente collegate, scienza e realtà. E poi, dove la metti la magia?»

«Ti faccio un'ultima domanda.» Rael incrociò le braccia e si abbandonò sullo schienale. «Secondo te, perché siamo qui, ad ascoltare la gente che si è presentata?»

«Perché siete soli?» disse la ragazza, socchiudendo gli occhi. «Cioè, che ve ne fate di tutti questi libri, senza qualcuno con cui parlarne?»

Rael appoggiò le mani sul tavolo e fece per alzarsi, ma la ragazza fu più veloce. Allungò le braccia in avanti. «Aspetta, forse non volevi sentire questa risposta.» Guardò rapidamente Andelus, e poi riprese a parlare prima di essere interrotta. «Vedo che hai fretta di cacciarmi, quindi ti darò la risposta che vuoi. Sì, va bene, volete usare la scienza per diventare i nuovi nobili.»

«Non è proprio così» disse Andelus.

«Vogliamo usare la scienza per sconfiggere la magia» aggiunse Rael.

«E poi?» La ragazza li fissò con gli occhi spalancati.

«Cosa?» disse Rael.

«Poi, cosa farete, una volta che li avrete fatti scendere dalle loro ville?»

«Questo non posso dirtelo.»

«Io posso dirtelo» disse Andelus, alzandosi in piedi. «Ti dico che non lo so.»

«Andelus, sì che lo sai» disse Rael, sospirando. Si rivolse alla ragazza. «Asdenar, e poi tutto Tumenor, meritano di più. La gente merita di avere un po' di potere tra le mani.»

«Quindi è per questo?» La ragazza si guardò attorno, in cerca di qualcosa. Raccolse una sedia da un angolo della stanza e la trascinò fino al tavolo. Si sedette, davanti a loro. «Non sarebbe pericoloso dare il potere a tutti?»

«Tu non donerai potere a nessuno» disse Andelus. «Credi che dare un modo agli abitanti per spostarsi su e giù per la città sia potere? Qualsiasi cosa tu abbia in mente di costruire per soddisfare questo bisogno, non sarà mai veramente loro. Finiremmo per creare altri sudditi, e nuovi idoli.»

«Con la scienza chiunque potrà diventare idolo. Quante volte te l'ho detto? Chi scopre una cosa, ottiene un nome. Diventa qualcuno. Là fuori, hanno bisogno di sapere che c'è qualcuno, sopra di loro. Hanno bisogno di sapere che possono raggiungerli, che possono avere un nome anche loro.»

«No, no, no» sibilò Andelus, stringendo i pugni. Si sentì addosso gli occhi della ragazza, che continuavano a scivolare a destra e a sinistra. «Stai...» Chiuse un attimo gli occhi. «Che succederà, allora» riprese, più calmo, «quando tutti avranno un nome?»

«È solo un'esca. Sarà così difficile che la maggior parte di loro morirà ancora prima di accorgersi di non avercela fatta. Ma moriranno felici, capito? Moriranno ancora desiderosi di inventare qualcosa, col sapore del potere in bocca. Sapendo che possono creare qualcosa con le loro mani perché possiedono la conoscenza. Questo è potere.»

«Questo?» Andelus si sentiva esplodere. La guancia gli si contrasse in un sorrisetto nervoso.

Rael annuì, sospirando. Lui voleva farla finita lì. La sua faccia urlava di smetterla, di ritornare a pensare al futuro insieme. Ma Andelus desiderava aggiungere un'ultima cosa, ormai.

«Per me, il vero potere, è lo stupore.»

Gli occhi di Rael si strinsero.

«Cosa succede quando una cometa attraversa il cielo? Perché tutti alzano lo sguardo? Non ce la fanno a stare con la fronte china. Una forza, qualcosa d'invisibile, ci afferra il mento e ci costringe a guardare.» Andelus guardò brevemente la ragazza, che nel frattempo teneva un labbro tra i denti e si massaggiava il mento con un dito. «È la domanda irrisolta che attrae ogni cosa come se fosse dotata di massa. Mentre guardiamo, un brivido ci corre giù per la spina dorsale, e tutti i peli sulla nostra pelle si tendono, carichi di energia elettrostatica. È lì il potere, la potenza, il trasferimento di energia.»

Per un brevissimo istante quel discorso sembrò aver avuto effetto.

«Andelus,» disse Rael «cosa vuoi fare, il poeta o lo scienziato?»

L'aveva detto con un sorrisetto. Forse pensava di aver fatto una battuta simpatica. Forse pensava di aver sdrammatizzato la conversazione.

Andelus chinò la testa e sospirò. Guardò il tavolo pieno di fogli. Non c'era niente d'importante, là sopra. Raccolse lo zaino da terra e si diresse verso l'uscita.

«Ehi, che fai, scherzi?»

Sulla scala, la gente discuteva. Quando Andelus aprì la porta, i candidati alzarono lo sguardo su di lui. Lui fissò le loro facce per qualche secondo, dopodiché si fece spazio a forza, guardando a terra e spingendo di lato individui confusi. Fece cadere qualche libro. Voleva solo uscire da quella cappa soffocante di uomini al più presto. Ignorò le voci, anche quella di Rael, che probabilmente arrivava da dentro lo stanzino.

«Per oggi basta?» chiese qualcuno toccandogli il braccio, quando era quasi giunto alla base del Faro. Era stata un'altra ragazza.

Andelus si sistemò lo zaino in spalla e continuò a scendere.

Una volta fuori, si calò dalla scogliera e s'incamminò su per un viale sperando che qualcuno lo raggiungesse e gli dicesse qualcosa, qualsiasi cosa. Così fu, ma all'improvviso si accorse di aver cambiato idea. Desiderò restare solo, di nuovo, di andarsene alla villa, come ogni dannata sera.

«Ehi, Andelus» disse Rael, col fiatone. Gli appoggiò una mano sulla spalla e uno dei suoi anelli gli sfiorò gelido la nuca. «Non doveva finire così. Mi dispiace.»

«È normale che accada. Non stiamo facendo niente di facile.»

«Hai ragione. Ma ti ricordo una cosa. Una importante.»

Andelus fece lo sforzo di voltarsi e guardarlo.

Rael si fermò. La strada non era così affollata e la gente li superava senza degnarli di uno sguardo. Lui aveva lo stesso sguardo quasi alieno di quando si metteva a blaterare del cielo.

«Non scherzare, con lo stupore» disse. «Non lo fare.»

Andelus si levò la sua mano dalla spalla e riprese a camminare, lasciandolo indietro.

«Non scherzarci, come non lo sto facendo io» aggiunse, fermo dov'era. «Te l'ho detto che non ci devi scherzare su, o gli Astrali torneranno.»

Quando ormai erano lontani, Rael urlò un'ultima cosa. «Ci vediamo domani mattina. Io vado, ho trovato un posto dove nascondere i soldi.»

***

Andelus si appoggiò con la spalla su una delle escrescenze metalliche all'esterno della villa dei Bangdelor.

Quella che era stata casa sua, ormai, era un ammasso di rottami di pietra e di metallo.

Chi mai l'avrebbe detto, il metallo. Il calore dell'incendio doveva averlo fuso e fatto risalire dalle profondità, dai lunghi e stretti cunicoli sotterranei. Come lava, era sfociato all'esterno, solidificandosi in archi e forme affusolate. Quando i nobili avevano mostrato ai cittadini che fine aveva fatto la dimora dei traditori, avevano indicato quelle mostruose colonne nere, sbucate dalla roccia e dalla terra. Quelle, avevano urlato, erano la testimonianza della pericolosità della scienza. Di cosa una volta era stato libero di scorrazzare per Tumenor, prima che la magia prendesse il sopravvento. Non toccatele, dicevano, o morirete.

Andelus si sfilò lo zaino e si lasciò scivolare in basso con la schiena.

Anche parte della pietra si era sciolta. Davanti a lui, quello che una volta era stato il giardino, ora era sommerso da un grinzoso tappeto di pietra nera. Ciò che era rimasto libero di poter respirare l'aria era morto sotto i raggi del sole e avvelenato dall'odore di magia. Delle decine di alberi che avevano affiancato il sentiero, rimanevano scheletri secchi e fibrosi.

Prima di rialzarsi in piedi, Andelus frugò nello zaino in cerca della maschera per respirare. L'odore di magia era opprimente. Continuò a rivoltare il contenuto della borsa, ma alla fine si arrese al fatto che doveva aver lasciato la maschera in cima al Faro. Fissò per qualche secondo l'aria tremolante attorno alle macerie. Contò fino a cinque, e infine si alzò in piedi.

Trovò la fessura nella roccia e s'infilò in una delle ferite più profonde della villa, una di quelle che portava ai sotterranei. Il primo tratto aveva le scale - scale friabili e corrose dal tempo - ma ben presto dovette tirare fuori la corda col rampino e indossare i guanti. Si calò, lasciandosi scivolare con una mano aggrappata alla cima, e con l'altra a coprirsi naso e bocca. Riprendeva fiato ogni dieci secondi, piccole e rapide boccate.

Quando atterrò in fondo, si accorse che, tutto sommato, dimenticare la maschera non era stata una cattiva idea. L'odore di chiuso, di sotterraneo, di pietra umida e fredda che non vede la luce da anni, era sempre stato uno dei preferiti di Andelus. Inspirò a pieni polmoni, fino a quando i residui di magia lo costrinsero a tapparsi naso e bocca per non vomitare.

Percorse un ultimo corridoio, disseminato di lunghe ferite sul soffitto che lasciavano filtrare la luce rossa di Udenas, e finalmente varcò la soglia della biblioteca. L'idea di circondarla con diversi strati di roccia, e pomparvi all'interno litri e litri di elio, era stata di suo padre. Era grazie a quella pensata se i libri lì dentro non si erano sbriciolati avvolti dalle fiamme, a differenza di quelli che avevano invaso i corridoi. Andelus era stato costretto a buttare giù la stanza di scambio a colpi di martello, e l'elio era volato via.

Andelus camminò per qualche minuto tra gli immensi scaffali, respirando polvere e magia. Quando fu sicuro di essersi perso, mollò lo zaino a terra e si sedette sollevando uno sbuffo di sporcizia.

Tutto, là dentro, era ricoperto da uno spesso velo di sudiciume.

Andelus contò dal basso fino a otto, allungò un braccio in avanti ed estrasse un libro. Ci passò sopra l'indice, rivelando il vero colore della copertina. Dopo qualche secondo passato a spolverarlo, il tomo era finalmente pulito. Ora, poteva davvero aprirlo.

Sfogliò qualche pagina, fino a quando non si accorse di star piangendo. Una lacrima era caduta in mezzo a un foglio, in mezzo a un mare incomprensibile di simboli. Quel piccolo cerchietto pareva aver ripulito la carta corrosa dal tempo, ma non aveva fatto altro che accentuare la crudeltà di quello che c'era scritto di sotto.

Il quadrato, sul suo avambraccio, era ancora lì, e lo fissava senza ancora una risposta.

Tutto, là sotto, era senza una risposta.

Andelus singhiozzava, e per un breve istante gli mancò il fiato. Doveva essere colpa dell'asfissiante odore di magia. Non ti lasciava nemmeno piangere in pace.

Quando se ne sarebbe andato? L'incendio si era spento da dieci anni ormai. E quella dei nobili era una fesseria, non avevano sparso la magia per stanare i traditori, come con il veleno per i topi. La magia continuava a sfuggire dalle profondità della villa, per propria volontà. Non avrebbe smesso di farlo fino a quando non si fosse esaurita del tutto. D'altronde, quella era stata una villa di nobili, per quanto traditori qualcuno avrebbe potuto considerarli. La magia era fluita ugualmente nei cunicoli, nelle vaste sale, nei corridoi d'ambra, e quando tutto era esploso, non aveva avuto più un posto dove stare. Come un'anima, stava fuggendo dal proprio corpo.

I libri, invece, erano rimasti lì. Milioni. Erano lì da sempre, nascosti, da quando erano caduti dal cielo insieme agli uomini, e da quando qualcuno li aveva recuperati. Quando ancora gli Astrali abitavano Tumenor.

Qualcuno, qualche stronzo, era crollato dal cielo portando con sé la scienza. Ma era stato così bastardo da morire prima di spiegare a qualcuno come comprenderla.

Quando Andelus ebbe smesso di piangere, si diede una spinta per rimettersi in piedi. Fece per inserire di nuovo il libro dove lo aveva preso, ma si fermò. Era troppo pulito, ora, non poteva davvero lasciarlo dov'era prima. Prese un respiro profondo, e lo inserì nello zaino. Partì, con un nuovo peso sulle spalle.

La sua scrivania non era mai difficile da trovare. Bastava incrociare uno di quei corridoi con poca polvere, e seguire le tracce lasciate per terra. Quando arrivò, raccolse la pezza e la passò sul tavolo, fino a lucidarlo. Una fetta di luce rimbalzava sul ripiano di legno. Se Andelus aveva scelto quel posto, era perché si trovava proprio sotto una delle ferite della villa. Oltre a rischiarare l'ambiente come una lampada, gli ricordava che stava lavorando per qualcosa, là fuori. La voglia di annodare un cappio e appendersi in cima a uno scaffale, in quella profondità così oscura, talvolta strisciava dentro di lui abbastanza convincente. In quel preciso istante, però, ammise di sentirsi abbastanza felice.

Si sedette con un sospiro e svuotò il contenuto dello zaino sul ripiano. Mise tutto in ordine. Per primo, il foglio con l'indovinello. Mentre camminava verso la scrivania, qualcosa era scattato nel suo cervello.

Entropia. Una di quelle lettere, la s, stava a significare entropia. Gli era venuto in mente osservando il pulviscolo danzargli attorno. E si era ricordato di quell'altro libro, quello che aveva pulito, letto e compreso qualche giorno prima. L'aveva nascosto insieme agli altri in mezzo alla città. Doveva avercelo qualcuno, ma quel qualcuno non si era presentato al Faro. O forse, aveva aspettato in mezzo agli altri su per la scala. Sarebbe tornato.

Una zaffata di magia giunse dalle sue spalle.

Andelus si chinò sul tavolo, soffocando un accesso di tosse. Frugò nello zaino, in cerca della...

Calma.

Cosa diceva ogni volta?

Prima di andare a nuotare nello spazio, devi imparare a trattenere il fiato in fondo all'oceano.

Levò la mano dal naso, controllando che la ventata se ne fosse andata. Ogni tanto accadeva, uno sbuffo di magia più denso degli altri ti coglieva alla sprovvista. Ma, si diceva, stava a indicare che tutta quell'apnea sarebbe finita più in fretta del previsto.

Il quadrato, ora, era più amichevole. C'era un punto da cui partire. Chissà che non sarebbe stato proprio lui, un giorno, a portarli tra le stelle.

C'era bisogno di più libri, più conoscenza - più stupore - da spargere nella città.

Avrebbe continuato. Avrebbe pianto sulla polvere, e soffocato là sotto. Avrebbe litigato con Rael. Va bene, poteva avere il suo, poteva soddisfare i bisogni dei cittadini, creare gli idoli di cui aveva bisogno e dargli i nomi che volevano, ma quando sarebbe stato il tempo, Andelus avrebbe ripreso le redini.

Si mise a ridere.

Se davvero gli Astrali erano un problema vero, se lo stupore davvero avrebbe potuto svegliarli - o farli tornare, come diavolo gli aveva detto il ragazzo venuto dal cielo, decine di volte - non si sarebbe fermato lo stesso. Non gliene fregava nulla di quello. Potevano tornare da dove si erano nascosti. Se davvero non erano morti, gli avrebbero fatto solo un favore. I cittadini di Asdenar si sarebbero meravigliati ancora di più a vederli arrivare.

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