Capitolo Venticinque - II
Scambi
Seconda parte
Quando si risvegliò era da sola, ancora raggomitolata sul pavimento della cupola. Aveva come la sensazione che una pietra fosse cresciuta sotto i muscoli della sua spalla, dura e gonfia. Rimase sola per minuti, e non seppe dire per quanto tempo era rimasta svenuta. Alla fine decise di alzarsi in piedi. Il braccio destro penzolava, ancora attaccato per pura fortuna. Aprì e chiuse le dita della mano più volte, lasciando che un formicolio risalisse fino all'articolazione, e scoprì che stavolta il dolore era piacevole, la stava risvegliando. Si affacciò alla finestra, e in quel momento l'Astro incominciò a gemere e scricchiolare. Stava cadendo ora. Non poteva cadere ora.
Tadon sbucò dietro di lei dopo pochissimi secondi. «Maed» disse, ancora per metà al di sotto della botola.
«Hai parlato con mia sorella? Che ti ha detto?»
«Niente che tu non sappia già.»
Tadon non sembrava arrabbiato. Maed restò nella sua posizione, osservandolo mentre si issava nella cupola e si rimetteva a sedere. Non sapeva cosa fare, allora continuò a guardarlo. Niente che tu non sappia già. Quello significava tutto.
«Fammi vedere il braccio» disse, allungando la mano in avanti. «Dài, non ti mordo.»
Quale tatuaggio vuoi vedere?
Maed restò qualche secondo con le braccia dietro la schiena.
Ne ho uno nuovo, sai? voleva dirgli. Uno che nemmeno Adelin ha mai visto. Gli avrebbe fatto vedere quello da scienziata, e gli avrebbe detto che se lei aveva accettato che sua sorella le insegnasse la magia era solo perché non aveva avuto altre alternative. Ma ora Tadon era lì, e pure Andelus era ancora vivo, e forse avrebbe potuto fargli cambiare idea, avrebbe potuto convincerlo che non poteva partire per davvero.
Gli porse il braccio dove c'era scritto che lei era la Luminosa, chiuse gli occhi e si preparò alla domanda che stava per arrivare.
«Guarda che ti ho fatto» disse lui, invece, accarezzandole il polso col pollice.
Quando Maed riaprì gli occhi, vide che il tatuaggio non c'era più, o meglio, al suo posto era comparso il triangolo impossibile. Ma quello era sempre stato sul braccio destro.
Tadon continuò ad accarezzarle la pelle, muovendo le dita sopra tre lunghi lividi. «Scusami, non volevo farti male prima» aggiunse. «Penso che dovrò rimediare, e lo farò convincendoti al mio ritorno.»
Maed era ancora premuta contro la parete d'acciaio. Fu tentata di srotolarsi la manica del braccio destro per controllare se il nuovo tatuaggio fosse finito lì, se per qualche strano motivo entrambi i disegni non si fossero semplicemente scambiati di posizione. Stavano succedendo insieme troppe cose, e sentì che la testa iniziava a dondolarle.
«Convincermi di cosa?» disse.
«È guerra aperta, adesso, tra me e tua sorella» disse, ma stava ridendo. «Sai? Ho appena scoperto che abbiamo un sacco di cose in comune, io e lei.»
Maed ritirò l'avambraccio dalle dita di Tadon, e in quel momento ebbe la chiara impressione che qualcosa vi stesse strisciando sopra, anche sotto la pelle, qualcosa che si stava ritirando. La stessa cosa stava accadendo dall'altra parte, sul braccio sinistro.
«Per esempio,» continuò «non sappiamo entrambi cosa diamine tu voglia. Saresti così gentile da dirmelo, così magari ho un piccolo vantaggio su di lei?»
Le uscì spontaneo. «Io voglio la scienza e la magia.» Per un attimo, pensò pure di allungare in avanti entrambe le braccia, e mostrargli cosa stava succedendo, mostrare al mondo cosa pensava stesse succedendo, ma si bloccò all'istante perché era un segreto, e non poteva davvero rovinare quel momento. Preferì che tutto restasse nella sua testa, vero e reale, e si crogiolò in quella sensazione.
«Dici sempre la stessa cosa. Ma è la verità?»
«Sì, e ora so anche il perché.» Anche quello le era uscito spontaneo. Si accorse solo dopo qualche istante della grandiosità della sua illuminazione.
Ma certo.
Ora so perché sono successe quelle cose. La pianta, il fulmine e la saponetta. Gli Spiriti, e la luce che l'aveva scansata.
«Il perché...» sospirò Tadon. «Che bella domanda, non è vero? È bello sapere il perché. E qual è, questo perché?»
«Te lo farò vedere.»
«Maed, ma che hai?»
Non poteva stare ferma. La voglia di correre, di saltare sui tetti della città sfociò dentro di lei e le fece tremare le gambe. «Quando torni, tu?» La sua voce era vibrante. Si appoggiò con le mani alle pareti e sentì il gelo del metallo invaderla e calmarla un attimo.
«Quando torno...» rispose lui, facendosi cupo. «Non ci voglio pensare, in realtà. Che ne dici se cambiamo discorso e mi dici che ti prende?»
«Niente, Tadon, niente» disse lei, ma nel frattempo il desiderio di lanciarsi giù dall'Astro e correre via da lì le causò un breve giramento di testa.
Tadon rimase in silenzio e si raggomitolò ancora di più. Ora era lui a tremare.
«Cosa intendevi, prima?» chiese Maed. «Di cosa mi devi convincere?» Pur di non stare ferma dov'era, decise di sedersi accanto a lui.
Tadon si accorse che qualcosa stava accadendo, dentro di lei. Le lanciò una breve occhiata e, spaventato, ritornò a guardare in basso. Dopo qualche secondo, iniziò a parlare. Non disse di cosa voleva convincerla. Disse qualcosa della missione, ma non fu chiarissimo. O forse era stata lei a non prestare così tanta attenzione, perché stava tenendo a bada la tempesta dentro di sé. Fu difficilissimo costringersi a stare seduta, ora che lui stava parlando. Compensò strofinandosi le dita sul palmo sudato della mano, sentendo la superficie rugosa e rovente dei suoi polpastrelli.
Dopo aver parlato per diversi minuti cadde il silenzio, e in pochissimo tempo nella cupola s'insinuò l'oscurità. Restarono così, seduti dentro la sommità dell'Astro. Con quel buio, la volta di acciaio sembrò un cielo, un cielo senza stelle.
Giunse il momento della partenza. Maed si era addormentata, a un certo punto. Lo vide — la mente stordita per il risveglio improvviso — che si calava nella botola e le diceva qualcosa sottovoce. Lei rispose al saluto, e si riaccoccolò contro la parete fredda dell'Astro. I pensieri che l'accompagnarono prima di risprofondare nel sonno la turbarono per qualche minuto. Tadon aveva parlato di un ragazzo — Ansel, era il suo nome? — qualcuno che l'avrebbe accompagnato durante la missione, insieme agli altri, qualcuno che però era stato più importante degli altri, almeno per lui. Ora, probabilmente, si trovavano sul ponte di una nave, nel buio più totale, mentre le onde placide baciavano lo scafo. Tadon aveva detto che quella missione avrebbe potuto regalargli un nome, uno di quelli veri, o avrebbe potuto negarglielo per sempre. Non c'era una via di mezzo. Sarebbe tornato glorioso, o avrebbe fatto meglio a non tornare nemmeno. Qualcosa strisciò sul petto di Maed, anzi, dentro la sua cassa toracica. Ormai era tardi, ma si pentì di non aver prestato attenzione. Si pentì di non avergli chiesto di più, di aver ascoltato e basta. Avrebbe potuto dargli un bacio sulla mano, prima che si calasse per sempre nell'oscurità, ma non l'aveva fatto. Lui le avrebbe chiesto cosa gli stava donando, lei, che voleva tante cose ma non ne aveva neanche una, lei che non aveva fatto granché, e Maed gli avrebbe ricordato che una volta alla vista di un fulmine aveva volato.
***
Si svegliò presto. Almeno, pensava fosse presto. L'aria era frizzante.
Quando aveva dormito alla Villa, nella sua stanza cosparsa di vasetti di terra e fiori profumati, aveva goduto dei momenti passati al buio, trascorsi a rigirarsi per minuti e minuti in cerca della frescura sulle gambe e sulle braccia, fino a quando sua madre non fosse venuta a chiamarla per scendere. Quella mattina, nell'Astro, si ritrovò in piedi ancora prima di costringersi a farlo.
Si calò giù per la scala. Scendere era più rilassante che salire. I cilindri che mano a mano diventavano più lunghi e spaziosi le donavano una sensazione di leggerezza. Le passò per la mente l'idea di lanciarsi, e per un attimo qualcosa le disse che avrebbe perfino fluttuato senza peso fino a terra, se l'avesse fatto veramente. Quando uscì, una ventata d'aria fresca soffiò attraverso l'ampia apertura di fronte a lei, accarezzandole il vestito. Si guardò intorno. Si accorse solo ora di tutti i numeri, le curve e i simboli degli scienziati disegnati sulle pareti. L'Astro per poco non toccava la sommità della stanza, un volta di pietra dalle cui ferite trasudava la luce del mattino.
La villa pareva deserta. Camminò per qualche metro nel corridoio, e a un tratto fu attirata da un piacevole odore, l'odore della pietra umida e fresca, l'odore della penombra, di qualcosa di antico. Si trattava di un vecchio magazzino disseminato di detriti. Una colonna squadrata si adagiava su un letto di polvere alto un paio di centimetri. Uno sbuffo di pulviscolo solleticò il naso di Maed non appena fu entrata, e in quel momento lei decise di togliersi le scarpe e continuare a piedi nudi. La polvere sembrava sabbia fresca, fra le sue dita, fine e soffice.
Il magazzino si sviluppava su più livelli. Maed, salendo da un piano all'altro, si era procurata una sacca di tela e l'aveva riempita di quello che aveva trovato in giro. Quella era una vera e propria stanza del tesoro. In cima, gli scaffali distrutti e ammassati sul pavimento erano bagnati dalla luce forte di Gamon, ormai alto nel cielo. Potevano essere passate un paio d'ore, e Maed aveva trovato più tesori scientifici di quanti non ne avesse rubati negli ultimi due anni. Mollò la sacca a terra, raccolse il piccolo tubo di lenti che aveva prelevato da un teca di vetro, e si arrampicò sopra una mezza parete. Quello non era di certo il punto più alto della villa, ma da lì si poteva comunque osservare l'intera città.
Maed chiuse un occhio e guardò dentro il tubo. Una crepa solcava l'ultimo disco, e quindi ogni cosa che entrava nella sua visuale sembrava essere tagliata in due da una ferita.
Vide finalmente ciò che Gravio aveva detto a Tadon il giorno prima. Almeno, scorci di quello che aveva raccontato. Riconobbe su un tetto un gruppetto di scienziati, alcuni seduti, altri sdraiati sulle tegole. Probabilmente si stavano riposando. Accanto a loro erano sparpagliate le armi, gli Esplodiferro del Benefattore. Puntò il tubo più avanti, cercando i resti dell'altovia, e i tetti scivolarono nella sua visuale rossi e indistinti. Intercettò uno dei pali spuntare sbilenco da dietro un'abitazione, ma evidentemente quel tubo era troppo debole, per poter svelare ciò che era successo veramente in quella zona. Nessun corpo accasciato fu visibile agli occhi di Maed.
Anche se sapeva che sarebbe stato del tutto inutile, cercò l'orizzonte. Fece scorrere il tubo lungo la linea curva e scintillante del mare, ma ciò che vide furono solamente luccichii e nient'altro.
Le serviva qualcosa di più potente.
Maed si rimise a rovistare tra gli scaffali, le teche e gli armadi, quando si accorse che aveva bisogno di ben altro non appena il suo stomaco le mandò un segnale.
Trascorsero un bel po' di giorni. Di questo Maed era più che sicura, anche se non li avevi contati. Era stata troppo distratta. I pianeti tramontavano e sorgevano come sempre, e nel frattempo lei aveva trovato un posto dove mangiare — una vecchia cucina distrutta e annerita dal fuoco, i cui scaffali erano colmi di carne e pane secchi — e altre stanze piene di tesori. Ogni tanto sentiva qualcuno camminare per i corridoi, due o tre persone al giorno. Erano silenziosi e, se dicevano qualcosa, le loro parole erano affannate. Quando Maed era sicura di essere sola, si recava in cucina e trovava qualcosa di nuovo negli scaffali, più qualche residuo sul tavolo. Si convinse che quei visitatori dovessero essere scienziati che venivano a sfamarsi tra un momento e l'altro della battaglia. I tesori sparsi nelle stanze, però, non li toccavano.
Maed, alla prima comparsa degli Spiriti, aveva già riempito tre sacche. Erano tutte conservate in cima all'Astro, che ormai era la sua casa. Possedeva di tutto. Molti oggetti erano uguali, alcuni rotti, altri semplicemente migliorie di quelli che già possedeva. Eppure non aveva ancora trovato un tubo di lenti che le permettesse di poter studiare Asdenar per intero. Si chiese cosa stesse combinando il Vecchio Cavalluccio, ora più lontano che mai, invisibile sull'orizzonte. Di sicuro anche lui era in pensiero per lei.
Una di quelle notti, qualcuno bussò all'Astro.
Maed.
Maed rispose bussando a sua volta, tre colpi leggeri con le nocche.
Sono Adelin.
Disse che avevano trovato un'altra stanza, e insieme a suo padre stava allestendo l'indispensabile per iniziare l'addestramento. Maed non se n'era dimenticata. Se stava raccogliendo tutti quegli oggetti, un motivo c'era. Scienza e magia. La folgorazione che aveva avuto qualche giorno prima davanti a Tadon, proprio sotto quella piccola volta di acciaio, era lontana, un fulmine ormai freddo, ma aveva lasciato un piccolo calore nel petto di Maed, un calore che lei lo assaporava ogni notte prima di addormentarsi.
Ciao, Adelin, sussurrò all'Astro.
Ciao, Maed. Ci vediamo fra qualche giorno.
Una delle ultime mattine passate alla villa abbandonata, mentre si stava calando giù per avventurarsi alla ricerca di altri tesori, Maed capì che probabilmente non sarebbe mai riuscita a vedere il Cavalluccio da così lontano. Lo capì mentre era appesa alla scala, guardando lungo la cavità dell'Astro, oltre la botola che dava al cilindro inferiore, da cui si intravedeva la botola che stava di sotto e quella che stava sotto ancora. Probabilmente avrebbe avuto bisogno di un tubo di lenti grande come tutto l'Astro. Avrebbe dovuto trovare un modo per portarlo sul tetto della villa, inclinarlo, sostituire a ogni disco di acciaio che si trovava tra un cilindro e l'altro un enorme disco di vetro, e infine sedersi dentro la cupola. Dopodiché, doveva semplicemente guardare. Probabilmente, sarebbe riuscita a vedere le stelle, con uno strumento del genere.
Era un'idea grandiosa. Maed scosse la testa e riprese a scendere.
«Tadon, sei tu là dentro?»
Era la voce affannata di Gravio.
Maed pensò di tapparsi la bocca e stare immobile, ma decise infine di arrampicarsi di nuovo fino alla cupola. Scansò le cianfrusaglie che aveva sparso per terra e si affacciò alla finestra.
«Tadon è partito» disse.
«Maed?» Gravio era piccolo, da quell'altezza. Fece due passi in avanti e si fermò di nuovo. «Che ci fai là dentro? Pensavo... pensavo fossi morta.»
«È passato tanto tempo, può capitare.» Prima che lui rifacesse la domanda, Maed rispose da sola. «Tadon lo sa che sono qui, mi ha detto di tenere d'occhio l'Astro.»
«Ha fatto bene» urlò, piegandosi sulle ginocchia. Stette così qualche secondo, per riprendere fiato. «Be', quando tornerà, digli che l'ho cercato.»
«Mi ha detto che ti aspettava, e mi ha detto che potevi riferire a me quello che volevi dirgli.» Maed afferrò il bordo della finestra scavata nell'acciaio. Lo vedeva, com'era agitato. Gravio fremeva e si notava persino da quell'altezza.
«Ah sì? Be', deve avermi letto nel pensiero, allora.» Si appoggiò una mano sulla fronte e cercò Maed con lo sguardo. «Probabilmente appena torneranno si accorgeranno da soli di che è successo. Io sarò impegnato giù in città, ma se lo vedi digli di cercarmi. Digli che il Benefattore sarà morto, e che potremo finalmente iniziare le danze come si deve.»
Maed rimase in silenzio. La domanda le si arrampicò su per la gola, ma lei deglutì e si limitò ad annuire.
«Sai, gli abbiamo teso una trappola, io e qualcun altro. I nobili lo hanno catturato e fra qualche giorno lui parteciperà alla gara al veleno. Sarà una grande occasione. Sarà grande anche la sua sconfitta.»
Per colpa di quella discussione, e di come si era conclusa, Maed fece fatica ad addormentarsi quella notte. Tutto stava accadendo così rapidamente. In realtà, i giorni trascorsi dentro alla villa erano stati tanti, tutti così uguali e veloci, così tesi, che sembravano essere stati un tutt'uno, un unico giorno scivolato via come se niente fosse.
Quando l'ultima mattina Adelin bussò sull'Astro, e tutto l'acciaio vibrò risvegliandola dal suo sonno, Maed capì che la campana aveva suonato, e lei doveva scendere immediatamente dal cielo e ritornare a toccare terra con i piedi. Poche parole. Domani, ci siamo.
La discesa — l'ultimo giorno di completa libertà — fu rapida, sfiancante e deludente. Maed ebbe fitte allo stomaco, si ritrovò a tremare per il freddo anche se là fuori Gamon si accaniva contro Tumenor. Tutto ciò che nei giorni passati l'aveva tenuta impegnata — cercare tra gli oggetti sparsi per la villa, esplorare i cunicoli polverosi e trovare un tubo di lenti che le permettesse di poter osservare qualsiasi cosa desiderasse — si trasformò in un repellente, qualcosa che al solo pensiero le faceva provare un gusto acido in fondo alla lingua.
Rimase tutto il giorno in cima all'Astro, tra le sue braccia gelide, fino a quando non calò l'oscurità ed ebbe un'altra illuminazione. Questa era più concreta, la poteva toccare, ma ormai era troppo buio per poterla mettere in pratica. Le lenti avevano bisogno della luce. Non dormì nemmeno quella notte. Vide, attraverso la finestra ad anello dell'Astro, i bagliori tenui degli Spiriti sulle pareti della grande stanza di pietra. Era la seconda volta che li vedeva, da quando Tadon era partito, e quello significava che erano trascorsi più di otto giorni.
Il mattino dopo non risentì di alcun tipo di stanchezza. Fu quasi come la prima mattina che si era svegliata in quel luogo. Era presto, l'aria era frizzante, carica di un'energia che Maed poteva sentire nel freddo che le intirizziva le braccia.
La cassetta bianca di suo padre era ricoperta di rugiada e chiusa a chiave con un lucchetto. Maed si guardò intorno, ma sul tetto era ancora l'unica. Tirò un pugno all'anta di legno, vedendo la sua magnifica idea sfumare in un attimo, annebbiata dal dolore sulle nocche. Poteva essere stato così facile?
L'atterraggio fu, per essere più precisi, una vera e propria caduta. Era come se, da un momento all'altro, le si fossero rotte le ali, e gli ultimi metri che li avevano separati da terra schizzarono accanto a lei mentre precipitava, e non mentre fluttuava leggera, come si era aspettata. Le ultime due ore prima che Adelin e suo padre arrivassero a chiamarla che tutto era pronto per l'addestramento furono vuote, fastidiose.
«Andiamo» la chiamò sua sorella. Era in piedi, con un sorriso forzato dalla tensione, in un bellissimo vestito verde scuro. Farnel si arrampicò subito dietro di lei.
Maed, non appena gli occhi di suo padre si incrociarono con i suoi, non poté non chiederglielo. «Papà?»
Lui aggrottò le sopracciglia. «Sì, Maed.»
«Posso guardare dentro il tuo tubo di lenti?»
«Maed, ti prego, questa volta dobbiamo andare.»
«Piccola» disse Farnel, posando una mano sulla spalla di Adel. «Solo cinque minuti. Non farà niente.»
Adelin inspirò e poi annuì. Farnel avanzò sorridente, prese Maed per il braccio e la portò dietro alla cassetta. «Metti il piede qui» disse, indicandogli una tegola con la scarpa. «Bene, ora premi verso il basso.»
Appena Maed fece ciò che gli aveva detto suo padre, sentì un clic leggero sotto di sé. Suo padre la portò indietro afferrandola per le spalle, mentre un tratto di tetto si sollevava di fronte a loro, accompagnato da un soffio, simile a un fischio lento e grave.
Le tegole che fino a un attimo prima erano state saldate con le altre, adesso formavano un piccolo tettuccio sopra uno strumento quasi mostruoso. Un tubo tozzo e articolato, di un metallo scuro e lucido, puntava la sua estremità verso un punto indefinito del cielo.
«Ti spiego come funziona.»
«Credo di saperlo» rispose Maed, tuffandosi immediatamente sopra un piccolo tubicino che spuntava verticale dalla parte posteriore dello strumento. Il Cavalluccio aveva qualcosa di simile, sulla sua zattera, anche se era decisamente più contenuto nelle dimensioni.
La prima cosa che Maed cercò, servendosi di un paio di maniglie sui lati per muovere l'enorme tubo, fu proprio la casa galleggiante del Vecchio. Scivolò sull'orizzonte curvo, chiedendosi se non avesse potuto intravedere anche la nave su cui si trovavano Tadon e Andelus, ma erano trascorsi troppi giorni, ormai, e di sicuro avevano già trovato un'isola libera sulla quale condurre il loro esperimento.
Trovò la zattera poco sotto l'orizzonte, in linea d'aria con il promontorio dove aveva svettato il Faro, una chiazza rossa che si agitava al vento. Girando una manopola, la chiazza si allargò fino ad assumere la forma di un'enorme tela. Ruotando un'altra manopola, l'immagine si fece nitida e mostrò il corpo curvo, secco e scuro del Cavalluccio in piedi sul tetto della sua casa galleggiante. E quella alle sue spalle era veramente un'enorme vela. Maed lo osservò per parecchi secondi, mentre armeggiava con alcune cime e se le avvolgeva attorno al braccio.
Il Vecchio Cavalluccio aveva sempre preferito lasciarsi governare dal mare e dalle sue onde. Troppe cose stavano cambiando, ed erano tutti come schiaffi in faccia a Maed.
«Maed, dobbiamo andare» disse Adelin.
«Sì, arrivo, un'ultima cosa» rispose lei, portando la visuale dall'orizzonte alle ville bianche sulla sinistra. La Villa era la più elevata di tutte. Guardò attraverso le finestre delle stanze, cercando sua madre e sua sorella Tan.
Appena passò con la lente sul balcone della sua stanza ingrandì al massimo la visuale, riuscendo a intrufolarsi al suo interno. Il suo cuore fece un salto, quando riconobbe il suo letto, disfatto, le coperte che erano cadute di lato.
Ormai la figlia adottiva di sua madre l'aveva rimpiazzata in tutto e per tutto. Maed indugiò col tubo puntato lì dentro, sperando di vedere la faccia della sua sostituta. Quando il pensiero che avrebbe davvero potuto vederla sbucare dalla sua stanza armadio — magari mentre indossava uno dei suoi vestiti — si materializzò chiaro nella sua testa, si ritrasse di colpo dal tubo di lenti. Non sapeva se era paura o disgusto.
«Va bene, ora sono pronta» disse, stropicciandosi gli occhi. Adelin, avanzando verso di lei con il braccio teso, ritornò piano a piano a fuoco.
Afferrò la mano di Maed. «Ora non scappi più.»
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