Capitolo Uno

Odore di magia

I vestiti di Maed puzzavano di magia, troppo. Temette che quella volta l'avrebbero acciuffata, dopo più di un anno trascorso a saltare da un tetto all'altro. Ignorava la posizione attuale dei suoi due inseguitori, né conosceva i loro volti. Tuttavia, l'odorosa scia che si era lasciata alle spalle non sarebbe sfuggita a nessuno, nemmeno alle narici del nobile più assuefatto. Si era spinta una sola volta in quelle stanze, prima di quel giorno, e aveva dimenticato che lì l'aria fosse così pregna d'incantesimo.

Si fermò un attimo, nascondendosi dietro allo spiovente di un tetto della città media. Quel tetto della città media. Chiuse gli occhi e si asciugò il sudore sulla fronte. L'aria era calda: Gamon - il pianeta verde - a quell'ora del giorno scagliava i suoi raggi dritti sulle strade e sui tetti di Asdenar.

Maed si annusò il colletto della camicia e arricciò il naso. Doveva svestirsi. Non poteva continuare a giocare in quel modo, doveva diventare invisibile. O meglio, inodore. Si tolse le scarpe di pelle e le appoggiò al suo fianco. Lottò con la sua gonna di seta blu. Poi decise di strapparla, lanciando un'imprecazione agli dei. Oh, poveri Astrali. Dannati, perché non avevano donato la magia direttamente a lei? A coprirla rimasero la biancheria intima e un paio di lunghe e irritanti calze trasparenti. Si sfilò anche quelle, poi si mise a gattonare sulla terracotta scottante del tetto, in cerca di una tegola. Di quella tegola. Il triangolo. Lo stesso triangolo che aveva tatuato sull'avambraccio destro. Lo trovò. Una manciata di righe scolpite sulla terracotta formavano l'illusione più bastarda che avesse mai visto nella sua intera vita. Scostò la tegola segnata dal quell'illogico disegno tridimensionale e sotto di essa si gonfiarono verso l'alto dei pezzi di comoda stoffa, desiderosi di essere indossati. Profumati di sudore e salsedine. Incrostati di sale, colmi di granelli di sabbia. Sotto di essi, un paio di scarpe di corda. Rimanendo nascosta dietro la sommità incandescente dell'abitazione si rivestì. Trasferì la refurtiva da una tasca della gonna ad una del nuovo vestito. Poi si appiattì sul fianco del tetto e prese un respiro profondo.

Aguzzò l'udito e cercò di ignorare lo stridulo richiamo dei gabbiani e gli schiamazzi dei bambini. Colse un urlo nell'aria, alla sua destra. «Quel bastardo!» Forse, però, ignoravano che si trattasse di una ragazza. Maed si affacciò nella direzione dell'improperio, scavalcando di pochi centimetri lo spigolo col suo sguardo. Ottimo. Strisciò nel verso opposto. Si fermò. Lanciò un'occhiata agli stracci odorosi di magia che aveva sparso attorno a sé. Un peccato dimenticarli al sole e alla mercé dei pellicani. Li afferrò e continuò la sua fuga.

Lo scricchiolare delle tegole sotto i piedi, il traballare della caviglia all'atterraggio su un nuovo tetto, l'aria che le scompigliava i capelli, che le pungevano gli occhi. Goduria.

Ridusse in altri pezzi gli indumenti che aveva indossato quella mattina alla Villa. Finirono in aria, svolazzanti, incagliandosi sui segnavento, infilandosi nei camini. Deviò più volte la sua corsa, lanciando in aria altri pezzi di stoffa impregnati di penetrante puzzo magico. Ricamò una zigzagante pista di caccia sopra le abitazioni di Asdenar. Ogni tanto si voltava e si guardava le spalle, per controllare che i due nobili non la stessero seguendo. Poi alzava gli occhi al cielo, e controllava invece la discesa di Gamon, attenta a non farlo avvicinare troppo all'orizzonte azzurro che scintillava sotto di lei.

L'intera città in quei momenti era unicamente sua. Erano suoi i tetti rossi, le strade bianche e grigie, gli stormi di gabbiani e il placido e vasto oceano. Era suo anche il Faro sulla punta del promontorio. E la curvatura di Tumenor, magnifica da quelle altezze.

Asdenar si estendeva quasi tutta davanti a lei. Una volta era appartenuta agli Astrali. Quando se ne erano andati migliaia di anni prima, però, e l'avevano lasciata agli umani, era consistita in appena quattro case e un pontile. Poi esplose. Esplose e le sue fondamenta saltarono in aria, da un giorno all'altro. Lo stesso giorno in cui la magia iniziò a regnare sul piccolo Tumenor. Ora, invece, i vicoli si districavano e s'intrecciavano tra loro come radici, innumerevoli, tagliandosi a vicenda, cambiando direzione ogni cento metri. Le abitazioni avevano dato forma alle vie, che negli anni si erano arrampicate su per il pendio scosceso in una corsa disordinata e sfrenata. Non c'era ordine, né razionalità. Oltre ad essere esplosa Asdenar, era esplosa anche la civiltà.

Maed si ritrovò le mani vuote. Frenò e si accucciò, slittando pericolosamente con le mani e con i piedi. Osservò tra le sue dita gli ultimi brandelli della gonna che sua madre Yanesin le aveva regalato qualche settimana prima. La camicia, invece - una camicia verde a fiori rossi - doveva essere finita in una stradina, tra il fango. Poco importava. Troppo odore, meglio tra le mani dei nobili.

Non li vedeva, ed era un brutto segno. Sarebbero potuti spuntare davanti a lei da un momento all'altro, magari fluttuando in aria, facendo capolino con la testa dalla grondaia, pronti ad afferrarle il piede e trascinarla verso il basso. Non potevano davvero catturarla, no. Rappresentava qualcosa di speciale per gli scienziati della combriccola del Faro. L'aspettavano. Andelus l'aspettava prima del tramonto di Gamon con la refurtiva della settimana. Lanciò un'altra occhiata al cielo e riprese la corsa.

Il cozzare delle tegole sotto la sua corsa allo spiccare del salto, le gambe nel vuoto, il vicolo scuro e stretto che sfrecciava sotto di lei, nascosto dai suoi capelli ramati e volteggianti. Chiuse gli occhi e assaggiò il vento, pregustando l'atterraggio. La caviglia che...

Un dolore lacerante.

Si portò le dita al tendine ancora prima di riaprire gli occhi. Quando lo fece, si accorse di cadere, strisciando con la guancia sul tetto frastagliato. Strinse i denti. Così forte, rischiando di farli saltare in aria. Sempre più forte, come se potesse in qualche modo aiutarla a fermare la caduta. Sentì il vuoto attorno alle sue gambe e le sue mani istintivamente scattarono verso l'alto, aggrappandosi disperate ad un appiglio. Mascella e mandibola sussultarono una contro l'altra per l'urto, e quattro delle sue dita persero la presa. Vide i tendini del suo avambraccio tendersi. Vide il suo tatuaggio striato di vene e punteggiato di gocce di sudore. Soffiò e si morse il labbro, poi chinò il capo e intravide, nello stesso vicolo buio che aveva tentato di saltare, un bambino con un gabbiano appollaiato sulle dita della mano. Stava a testa in su, a bocca aperta. Nel frattempo, Maed avvertì i muscoli attorno alla sua caviglia liquefarsi piano piano dal dolore. E passavano i secondi.

Udì rumore di passi sui tetti e cocci che si frantumavano.

«L'ho visto cadere» urlò qualcuno sopra di lei, col fiatone.

«Sicuro?» domandò un'altra voce.

«Sicurissimo» disse una terza persona. «Ma si riferiva a te.»

Un guaito accompagnò uno svolazzare di vesti e un tonfo. Un nobile era crollato proprio accanto a lei. Il bambino si dileguò e il gabbiano latrò e fuggì, sbattendo le ali.

«Vedi nel futuro.» Ancora quella terza voce.

Maed udì dei gemiti, delle manate, altre cocci rompersi, e quella volta lo vide, un altro nobile che crollava dal tetto. Il rumore che fece quando cadde sul suo compagno fu preceduto dallo stridulo raschiare delle sue unghie sui mattoni dell'abitazione. Alcune strisce sottili di sangue blu rigarono il rosso del muro.

«Dammi la mano.» Tadon si protendeva verso il basso, spingendosi verso il braccio penzolante di Maed. «Su, datti una mossa.» Un graffio gli solcava la guancia e gli tagliava il naso in due.

Gli porse la mano e lui la tirò su. Rise, mentre lei riprendeva fiato e osservava in basso i due nobili accatastati uno sull'altro, avvolti dalle loro lunghe vesti azzurre e violette. Immobili, escrementi di gabbiano che striavano le loro maniche.

«A quanto pare non hanno spaventato solo il bambino» disse Tadon, sghignazzando.

Maed si costrinse a ridere, constatando di essere al sicuro, ormai. Fece una smorfia, non appena osò spostare il piede.

«Conciata così non andrai lontano.»

Maed guardò in cielo, il pianeta verde che continuava la sua corsa verso il mare. Poi torse la schiena e osservò la Villa. Infine toccò al Faro, imponente sul limitare delle acque. Lei si trovava esattamente a metà strada, nella città media. Ma la caviglia sembrò sussurrarle di non fidarsi degli occhi. La distanza si prospettava molta di più.

«Guarda com'è gonfia, ormai.» Tadon sedette a gambe incrociate accanto a lei e si protese per osservare meglio. «Non ce la farai mai a tornare a casa in tempo.»

«Basta, Tadon. Stai zitto, ti prego.»

«Scherzi?»

«No. Andrò al Faro e poi tornerò a casa.»

Tadon trattenne una risata. «Ma smettila. Ti porterò al Faro e stanotte dormirai lì. E per tutte le notti da oggi.»

«Vuoi che mia madre venga a cercarmi là, magari mentre state ideando qualcosa di folle per far saltare in aria le loro belle ville sulle colline?»

«Non lo stai dicendo davvero.» Tadon inarcò le sopracciglia e le diede una spintarella sulla spalla. «Prima che quei due si risveglino, andiamo via. Andelus ti aspetta. Devi finirla di fare l'indecisa e far finta di essere una brava figliola di famiglia.»

Tadon si alzò, ma Maed gli afferrò il polpaccio. «A differenza tua, almeno, posso scegliere. Scienza, magia, possono essere entrambe mie. Tu sei limitato, Tadon.»

«Ah, finalmente ti faranno iniziare l'addestramento?» domandò, scrollando svogliato la gamba. «Dopo mesi si sono decisi.»

«No, non ancora.»

«Ah, bella scelta che hai, allora. Ti invidio, dannati gli Astrali...» disse, fingendosi serio.

Maed gli affondò le unghie nella carne e strinse più che poteva. Continuò finché non vide il sangue zampillargli dal polpaccio e sporcarle le dita. Troppo persa nel stritolare il muscolo di Tadon, non si accorse che lui l'afferrò dalle ascelle e la sollevò da terra. Lei gemette, quando la caviglia incominciò a penzolarle nel vuoto. Dopodiché si trovò sulle sue spalle, sdraiata sulla sua schiena e a testa in giù, costretta ad osservare il tetto scivolare sotto i suoi occhi, mentre dondolava a ritmo con la camminata di Tadon. Tentò di spingersi ancora più in basso per afferrargli nuovamente le gambe e tentare di sfuggirgli, ma fu lui ad agguantarle il piede sano e a tirarla dalla sua parte.

«Se non mi metti giù, non ruberò più nulla per te.»

Lui non rispose e l'appoggiò di nuovo a terra, mentre si girava a guardarla. Cercò con un piede un appiglio per scendere dall'abitazione e si calò di qualche centimetro, finché il suo sorriso non fu all'altezza degli occhi di Maed. «Ecco fatto, cara.» Poi aspettò, a braccia conserte.

Maed spinse con le mani per sollevarsi da terra, ma la caviglia la sgridò, pulsando di dolore. Si abbandonò stremata sul pendio del tetto e chiuse gli occhi, imprecando nuovamente. Attese che Tadon la riacciuffasse. Invece sentì una delle sua mani armeggiare con la sua gamba sinistra. Aprì gli occhi e vide che aveva estirpato una tegola dal tetto e gliela aveva appoggiata sul polpaccio. Strappò un lembo di stoffa dai suoi pantaloni e lo usò per fasciargliela insieme al piede e alla caviglia. Poi l'afferrò di nuovo da sotto le braccia e se la portò con sé.

Sobbalzava. Una volta tornati a livello delle strade, l'unica cosa che poteva vedere erano i piedi di Tadon che spiccavano grandi balzi, spingendo sulla pietra, atterrando sulla pietra. Ogni tanto sollevava lo sguardo e vedeva la discesa - una ripida salita, dal suo punto di vista - costeggiata da case e botteghe, che sfrecciavano accanto a loro. Talvolta arrestavano la loro disperata discesa per le vie di Asdenar, magari giunti in prossimità di un incrocio tra due stradine, in attesa che un carro transitasse, anch'esso impegnato in una corsa sfrenata verso il basso, spinto unicamente dalla forza di gravità.

La gravità. Maed si portò la mano chiusa a pugno sulla guancia, e sbadigliò. Come diamine poteva essere possibile una cosa del genere? Era l'ennesima volta che se lo domandava. Non aveva senso. Loro cadevano. Tutti cadevano: umani, mele, pioggia, stelle. Anche gli Astrali stessi erano caduti una volta, direttamente dal cielo. Eppure non c'era nulla che li trascinasse verso il basso. O forse gli Astrali non erano veramente scomparsi da Tumenor e invece si erano nascosti sotto la superficie della città, usando la loro magia per attrarli verso il basso? Roteò gli occhi, stupendosi della stupidità della sua stessa ipotesi. Se avesse continuato così, non sarebbe mai entrata nella combriccola degli scienziati. Tadon le aveva detto che si trattava di scienza. Pure il vecchio Cavalluccio glielo aveva ripetuto. Ma perché? Perché cadevano?

Si fermarono ancora. «Sei stranamente silenziosa. Tutto bene, Maed?» chiese Tadon.

«Sì, idiota. Sto solo pensando a come scappare da te.»

Un altro carro sferragliò verso il porto, portandosi appresso qualche vagone. Non li vide, ma sentì il cigolare delle ruote e il legno tremante a contatto con la pietra. Era facile per loro scendere. Non tutti coloro che possedevano un carro, però, potevano permettersi uno o due cavalli per poterli riportare in cima, a fine giornata. Non tutti potevano vincere la gravità. Era troppo potente.

Quando Tadon fu di nuovo pronto a riprendere la sua corsa, Maed ebbe un'idea. Aspettò che fosse nuovamente in piena corsa per poter mettere in atto il suo piano. Pensò anche che avrebbe fatto meglio a sfilare dalla tasca la boccetta che aveva rubato, per evitare che si potesse frantumare durante la caduta. Poi, fu pronta. Così, dal nulla, flesse il ginocchio e sollevò la gamba sinistra, quella che aveva rischiato di perdere un piede poco prima. E il cui polpaccio era ben fasciato da un durissima tegola di terracotta. Il rumore che fece infrangendosi su quella che probabilmente era la fronte di Tadon si confuse insieme al suo guaito. «Maed!»

Approfittò della situazione per scivolare sulla sua schiena, mentre Tadon era chino in avanti. Lui fu troppo distratto ad afferrarsi la faccia e non riuscì a riacchiapparla di nuovo.

Era libera.

Si lasciò trasportare dalla gravità. Forse nessuno sarebbe riuscito a vincerla, ma almeno lei aveva trovato un modo per sfruttarla. Rotolò sulla pietra, e cercò di non fare caso alle sue costole che sobbalzavano. Dai legamenti della sua caviglia ogni tanto saettavano delle scosse doloranti, su per il polpaccio, ma la fasciatura che gli aveva procurato Tadon conteneva egregiamente i sussulti. La strada si mescolò col cielo, prima grigia, poi azzurra. Colpì una gamba, e sentì anche qualcuno lamentarsi. Probabilmente fece cadere qualcosa, perché da quel momento in poi la sua discesa fu accompagnata anche da qualche frutto rotolante.

«Ferma ragazzina.» Delle braccia l'avvolsero, frenandola di botto e ponendo fine al divertimento. Maed si mise seduta, e il mondo iniziò ad ondeggiare davanti a lei, come ubriaco. Si concentrò sull'uomo che l'aveva bloccata. «Dobbiamo spostarci» disse. Aveva una barba giallastra ed era pelato, alcune macchie scure sul capo.

L'uomo l'aiutò a rialzarsi, ma non appena lei dovette appoggiarsi sul piede sinistro, crollò nuovamente a terra. «Dannazione» disse lui, e la prese in braccio.

Notò la folla addensarsi attorno a lei. Madri tenevano i figli per mano, altri si fecero strada a spintoni. Tutti si stavano spostando ai lati della strada. Non c'era traccia di Tadon.

«Dove mi stai portando?»

«Zitta, ragazzina.» L'uomo s'infilò in un vicolo strettissimo, una striscia sottile tra da due edifici troppo vicini tra loro, che s'immetteva nella strada principale come un estuario. Una delle vie più facili da saltare. L'uomo calvo l'adagiò a terra, accanto ad un cumulo di sottili alghe marroni. «Ora fai silenzio. Guarda pure, se vuoi, ma cuciti la bocca.»

«Che succede?» disse, nascondendo nuovamente la refurtiva in una tasca dei pantaloni.

«Una carrozza di nobili sta risalendo dal porto.»

Altre persone s'intrufolarono nella viuzza immersa nell'oscurità. Una donna tappò la bocca al suo bambino, poi rivolse lo sguardo alla strada.

Eccolo, immancabile. Il flebile odore del porto fu spazzato da una zaffata di penetrante tanfo di magia, che si riversò nella stradina come un'onda. Tutti coloro che si erano nascosti accanto a loro si coprirono i volti tra le dita e chiusero gli occhi. Qualcuno tossì. Il bambino iniziò a frignare. Sua madre lo nascose tra il seno e lo pregò di tacere.

Maed non aveva bisogno di tapparsi il naso, era ben avvezza a quel puzzo. Se non ci eri abituato, avevi la sensazione che qualcuno ti aprisse le narici con delle tenaglie e che scavasse verso l'alto, fino a cavarti via il cervello. Questa era la sensazione che aveva provato la prima volta che si era intrufolata nelle stanze dell'addestramento, da piccola. Lo ricordava bene.

Strisciò sul fondo umido del vicolo, passando sotto le gambe di qualcuno. Lo sferragliare del carro era vicino, chiaro nel silenzio che era calato. Una mano le afferrò il piede sinistro e lei represse un gemito, mordendosi il labbro. Si voltò e vide che l'uomo di prima la stava afferrando. «Ferma, ragazzina» bisbigliò. «Ferma.»

Maed si portò il dito alla bocca. «Shh» fece piano. Poi si arrotolò la manica della maglia e mostrò all'uomo l'avambraccio col tatuaggio. Lui perse la parola, la sua faccia si contrasse. Deglutì a fatica e prese a gattonare all'indietro, verso il fondo della stradina. Maed si voltò, sorridente, e continuò a strisciare, fino a dove incominciava la via principale. Si affacciò dallo spigolo e guardò verso il basso.

Una carrozza, sola, senza vagoni attaccati sul retro, risaliva la strada. Niente la trainava. Nessun cavallo, nessun bue, nemmeno un uomo. C'era solo la carrozza. E la pietra davanti e sotto le sue grandi ruote di legno. Era rivestita interamente di vernice dorata, che rifletteva la luce di Gamon, ormai sulla via del tramonto. Non si muoveva veloce, ma la sua andatura era costante. La puzza di magia raggiunse il suo culmine quando la carrozza spostò l'aria davanti alla faccia di Maed. Lei volse il collo a destra e osservò quella meraviglia scalare il pendio senza alcuna fatica. Eccolo, il motivo. Lei non poteva accontentarsi della sola scienza. La magia la turbava nel profondo, e l'avrebbe fatto finché non l'avesse compresa e manipolata con le sue stesse mani.

La gente si riversò nuovamente nella strada. Alcuni ripresero le loro mansioni, altri s'incamminarono verso il basso, altri verso la città elevata. Altri ancora rimasero al centro, fermi ad osservare quella stranezza su ruote sfidare la forza stessa di Tumenor.

Maed si accorse che un altro carro era stato parcheggiato sul ciglio della via principale, per permettere il passaggio della carrozza dei nobili. Ora il proprietario si accingeva a rimuovere i freni dalle ruote e, con l'aiuto di una signora, riportò il mezzo al centro della strada. Maed si appoggiò alla parete di una bottega e zoppicò verso l'alto, sperando che il carro non riprendesse subito la sua corsa. La donna salì a bordo e l'uomo si avviò a rimuovere anche le corde che ancoravano il carro al muro. Maed accelerò il passo, stringendo i denti ogni volta che il piede sinistro poggiava a terra terra. Si fermo, soffiò, pregando di scacciare via il dolore. L'uomo slegò la prima cima, poi chiamò un passante e gli chiese di fare lo stesso anche con la seconda. Corse verso il carro e con un balzo si aggrappò ad una maniglia sul suo fianco, issandosi e prendendo posto accanto alla donna. Era uno di quei carri per trasportare le merci, con un paio di postazioni scoperte nella parte anteriore, e un grosso cassone sul retro. L'ideale per scroccare un passaggio senza farsi scoprire.

Maed incominciò a saltellare con un piede, mentre si dava delle spinte aiutandosi col muro. Non poteva perdere quel carro, doveva andare al Faro, lasciare la refurtiva e tornare alla Villa. Tutto prima che si facesse buio. Il suo polpaccio incominciò a pulsare, sentì il sangue pompare con violenza. L'uomo si accertò che tutto fosse a posto e diede un segnale all'uomo che lo stava aiutando con le funi. Questi armeggiò con un anello attaccato al muro e disfece un nodo. La corda sussultò e poi si afflosciò. Il carro si lanciò verso il basso.

«Maed!» Tadon si trovava sul tetto di una casa sull'altro lato della strada. La sua faccia era incrostata di sangue. «Cosa vuoi fare?» urlò giungendo le mani a cono. Poi guardò verso il basso, cercando un punto per scendere.

Maed si guardò attorno. Era fregata. Tadon l'avrebbe riafferrata, l'avrebbe portata al Faro e l'avrebbe chiusa là dentro. Ma lei doveva tornare alla Villa, non poteva davvero perdere l'occasione di iniziare l'addestramento. Era stato rinviato fin troppe volte.

Il carro acquistò velocità, le sue ruote che macinavano la pietra. Tadon era voltato di spalle, che si calava frettolosamente utilizzando un tubo di metallo. La strada che li separava si fece d'un tratto molto più stretta. Maed si appiattì contro il muro, con le braccia dietro di lei. E inspirò.

Poi balzò. Si era spinta con la sola gamba destra, più forte che poteva. Protese una mano davanti a sé, e pregò che le sue dita non mancassero la presa. Afferrò un gancio e strinse, le unghie che scavavano nello suo stesso palmo. Il carro la strattonò verso il basso, sentì i suoi addominali stirarsi improvvisamente, i suoi piedi che strisciavano per terra. Ce l'aveva fatta. Si tirò verso l'alto, con entrambe le mani, e aiutandosi col piede destro. Scalò la parete di legno e fece capolino con la testa sul retro del carro, ricoperto da reti per la pesca e sacchi di tela. Si lanciò verso l'interno e sospirò, accasciandosi contro il parapetto. Si appiattì verso il basso, sperando che i due signori non si fossero accorti di nulla. Aspettò qualche secondo, tesa come la corda di un arco.

Una figura su un tetto catturò la sua attenzione. Era ancora Tadon, che correva qualche metro sopra di lei. Saltò. «Cosa hai intenzione di fare, Maed?» urlò, atterrando su un'altra casa.

Maed si limitò a mostrare anche a lui il tatuaggio che aveva sull'avambraccio. Poi sfilò dalla tasca la boccetta colma di liquido bluastro che aveva rubato qualche ora prima. Gli mostrò anche quella.

«O la magia o la scienza, Maed!» sbraitò lui, mentre rallentava, arrendendosi alla velocità del carro.

Maed avrebbe voluto rispondergli a squarciagola, ma i suoi ospitanti si sarebbero accorti della sua presenza abusiva sul retro. Si limitò a sorridere, osservando Tadon farsi piccolo piccolo, sulla cima di un tetto.

Tadon si sbagliava: entrambe potevano essere sue. E le avrebbe dominate. Sia la magia che la scienza.

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