Capitolo Trentatré

Bellezza

Un anno e mezzo prima

Da quella volta che Tadon aveva annunciato di voler diventare l'Astro, Ansel non gli aveva più rivolto la parola.

«Coglione!» gli urlò, come prima cosa dopo mesi.

Accompagnò quell'urlo con un denso fiotto di saliva che si perse alle sue spalle, così rabbioso, così concentrato, così determinato su quella singola parola, come se avesse meditato di dirgliela da mesi e non aveva aspettato altro, non ci sarebbe stato miglior momento di quello, di quando l'avrebbe umiliato davanti a tutta la Combriccola.

Tadon solcava il cielo sopra Asdenar, ma non abbastanza velocemente.

Nel giro di pochi minuti, da quando l'aveva superato con il suo Calabrone, Ansel lo staccò di almeno un centinaio di metri, sia in altezza che in lunghezza. Ora che il cielo aveva risucchiato il ronzio di quell'affare rimanevano solo il fruscio del vento, le ali del Nibbio che sussurravano a pochi centimetri dalle sue orecchie, le sue ossa metalliche che si raddrizzavano e gemevano lievemente sotto la pressione dell'aria, e gli schiamazzi della folla, ormai lontana, così lontana che era impossibile capire per chi stessero tifando.

Non sapeva nemmeno se quello che stava facendo aveva un senso. Forse nemmeno Ansel ne aveva la minima idea, forse faceva finta di infischiarsene per farlo sentire peggio, per confonderlo. Sfrecciava sulla sua orrenda creazione come se niente fosse, sperando di scoprire prima della fine quale fosse lo scopo di tutto quello.

Secondo Tadon, Andelus poteva avere almeno una settantina di anni. Prima della partenza, qualcuno lo aveva aiutato a salire sul tetto facendogli da base con le mani, dopodiché, aveva fatto tutto da solo. Le sue braccia erano secche e fibrose, decine di fasci di muscoli e tendini accavallati che partivano dal gomito e finivano nel polso si erano contratti mentre si issava in alto. Si diceva fosse merito della testa. Potevi campare anche quanto i nobili, se non la smettevi di strizzarti il cervello come una spugna. Una volta in piedi, sul tetto dell'abitazione al centro dei due dai quali partivano Tadon e Ansel, diede inizio al suo discorso.

Non era una gara a chi arrivava primo, questo era stato chiaro fin dal primo secondo di volo. O forse stava solo pensando troppo. Forse era una gara a chi arrivava primo.

Mentre l'aria gli fischiava nelle orecchie, Tadon ripassò ogni parola di Andelus. Era un cazzo di indovinello ogni volta che parlava. Cercò poi di concentrarsi sul Nibbio e il presente, ma come una valanga il terrore di essere sconfitto lo assalì. Maed lo avrebbe saputo. Cos'avrebbe pensato di lui? Il suo cuore fece un tuffo alto quanto la distanza tra lui e Asdenar.

"Perché non la solita prova sulla curiosità?" si ricordò di avergli chiesto, a bassa voce, a un certo punto del suo discorso.

Andelus lo aveva guardato sottecchi. "Vedo che capisci tante cose da solo, ragazzo. Perché non provi a capire cosa sta succedendo oggi?" Nella fessura tra le sue palpebre riuscì a vedere la linea azzurra dei suoi occhi. "Non lo voglio sapere adesso. Se l'hai capito, fammelo vedere." Anche lui aveva parlato piano. Si era voltato e aveva ripreso a parlare alla folla.

"Quando il primo dei due riuscirà a toccare la punta del Faro, avremo un vincitore, avremo un nuovo membro della Combriccola."

Tadon non avrebbe dovuto spaventarsi in quel momento, eppure il sorriso bonario sul volto di Andelus e la gola di Ansel che sussultava, e il suo sguardo fiammeggiante, contribuirono a rendere il tutto qualcosa di terrificante. "Stupitemi!"

I secondi successivi erano stati confusi. Tadon era stato distratto dal pulsare delle sue tempie e dalla tempesta di pensieri. Non si era nemmeno accorto che la gara era iniziata e che lui era in volo, mentre sfiorava le tegole dei tetti col ventre, a pochissimi centimetri di distanza. Il Nibbio, quasi dotato di vita propria, all'improvviso gli aveva dato uno strattone, ed entrambi, creatura e creatore, si erano ritrovati a metri e metri di altezza, l'aria che premeva furiosa sotto di loro.

Tadon stava ancora cercando una soluzione, quando si accorse di non aver controllato la posizione di Ansel da qualche minuto. Ormai doveva essere lontano. Lanciò uno sguardo in avanti e, come per miracolo, ormai piccolo come un insetto, vide il suo Calabrone fiondarsi in basso verso il Faro, nero anch'esso come la pece, e dopo appena un secondo scomparire, inghiottito nella sua figura oscura. Un'eclissi.

Aspettò qualche secondo, il collo teso in avanti e gli occhi spalancati. Ma lui non ricomparve. Quando gli occhi incominciarono a bruciargli, li chiuse di colpo e decise che era giunto il momento di concentrarsi sulla gara e solo sulla gara. Lui, il Nibbio e l'aria.

Si accorse solo in quel momento di essere ancora in assetto di partenza. Le ali erano troppo molli, proiettate in alto e incurvate come quelle di un gabbiano che cerca di volare contro vento. Le articolazioni metalliche sopra le spalle cigolavano e urlavano continuamente di dolore. Ecco perché era così lento. I pensieri gli avevano tarpato le ali. Tadon si slegò un braccio e cercò la leva con la mano. La tirò, con dita impacciate, e d'un tratto tutto tornò a essere come doveva essere. Il Nibbio ebbe un sussulto. Il tempo sembrò accelerare, lo lanciò in avanti come un proiettile, e quando Tadon rimise il braccio al suo posto, stretto con le cinghie all'intelaiatura, lui e la sua creazione diventarono un'unica cosa, solida, elegante e maestosa.

Sfrecciavano, tutt'e due.

Ben presto avrebbero raggiunto Ansel e il suo Calabrone. In ancora meno tempo, avrebbero raggiunto il Faro e la gara si sarebbe conclusa. Così poco tempo. Sarebbe stata una passeggiata. Era sempre stata una passeggiata, nella sua mente, fin dal primo giorno in cui aveva saputo che la prova consisteva in quello. Che senso aveva costruire un aggeggio ricoperto di cinghie e catene, con pesanti cilindri d'acciaio, pistoni e ingombranti eliche che spuntavano da ogni angolo, se l'unica cosa da fare era lanciarsi da uno dei tetti più alti di Asdenar e piombare a picco sul Faro?

Tadon e Maed si erano fatti tante di quelle risate.

"E poi, il tuo Nibbio è molto più bello di quella schifezza."

"Ah, l'hai visto?" aveva chiesto Tadon, mentre si sganciava dall'intelaiatura e si avvicinava al bordo del tetto. Era sera, lui aveva appena finito di testare la sua invenzione e all'improvviso era comparsa lei. Mentre si avvicinava alla grondaia per sedersi pensò che gli serviva ancora una cosa per rendere il Nibbio perfetto, un meccanismo che gli consentisse di scalare le correnti calde. Ma come? Tutto si perse nel nulla una volta che si sedette, quando ebbe davanti a sé gli occhi della ragazzina. Si era seduto sul tetto e non aveva smesso di fissarla. Da quella prima volta che si erano parlati, ogni volta che la incontrava per strada, non le toglieva mai lo sguardo dagli occhi. "E comunque la bellezza non mi farà vincere un bel niente" disse, infine.

Lei lo guardava da giù, in piedi, appoggiata con la schiena alla parete di una casa e con le gambe incrociate.

Entrambi sapevano a cosa stavano pensando, ma non ne facevano parola. A quando lei una volta si era messa a fluttuare senza motivo. Non ne parlavano mai. A Tadon bruciava nel petto, non se lo spiegava. Un coltello rovente.

Maed aveva fatto di sì con la testa. "Tu non lo hai visto?"

La volta successiva che si erano incontrati lei lo aveva portato nel magazzino dove Ansel nascondeva il suo obbrobrio. Era scuro, ricoperto di olio e grasso, lucido e disgustoso. Tadon era scoppiato a ridere, così forte che gli aveva fatto male la pancia. Maed lo aveva rimproverato, li avrebbero scoperti subito se non avesse smesso, ma poi era scoppiata a ridere pure lei. "E poi devi sentire che rumore fa, sembra un calabrone."

Maed non c'era stata alla partenza. Un brivido per poco non lo fece distrarre di nuovo ma, questa volta, riuscì a riafferrare la concentrazione al pelo.

Scoprì che se pensava a quel nome, all'Astro, era ancora in grado di pensare mentre volava, senza che i pensieri lo rapissero del tutto. D'altronde, era il motivo per cui aveva deciso di partecipare. Un nome, un nome era la sua ricompensa. Un nome che voleva dire tutto. Lo avrebbero saputo anche fin dentro le ville che era stato nominato un nuovo Scienziato, tutta Asdenar avrebbe saputo che Tadon sarebbe diventato l'Astro. Ogni volta che pensava a quel nome, il cuore gli si stringeva un poco. Astro. Portava con sé così tanta gioia e speranza. E in quel momento determinazione, soprattutto. Ma anche ansia, paura.

In quel momento guardò di sotto e vide Asdenar in tutta la sua interezza. La forma del porto, delle scogliere alle due estremità, delle accecanti spiagge di sale. Il Faro sembrava quasi a portata di mano da quell'altezza. Una grande candela dalla cera nera, e una fiamma blu sulla sommità. Lo fissò per diversi secondi, dalla cima ai piedi. Ansel non si vedeva ancora. Ma era passato qualche minuto e Tadon aveva percorso così tanti metri che quel gioco di prospettiva, l'eclissi, doveva essere già finito. Forse era già arrivato. Aveva toccato la punta del Faro e la gara era finita.

Forse la gara era finita. Perché il cielo era limpido, fatta eccezione per un enorme e gonfio cumulonembo, un'esplosione di bianco sospesa nel nulla. Il cielo era vuoto. Così vuoto, che sarebbe stato impossibile non scorgere il Calabrone librarsi in aria. Non poteva essere stato inghiottito dalla lontananza, perché in realtà la città era quasi finita, e lui sarebbe diventato invisibile solo se si fosse inoltrato in alto mare. Tadon si guardò bene attorno, tendendo il collo in ogni direzione in cerca di un minimo accenno del suo rivale. L'aria che si gettava contro di lui a tutta velocità lo rendeva sordo, e si sentiva le guance intirizzite e paralizzate. Era tagliato da ogni cosa.

Forse era già arrivato per davvero. Forse la gara si era conclusa, perché lui era arrivato, però per qualche strano motivo aveva vinto Tadon e quindi era già diventato l'Astro. Perché l'arrivo segnava solo la fine della gara e non la vittoria, vero? Forse là sotto stavano già festeggiando e lui ancora si librava in cielo come uno scemo.

Ancora pensieri. Eppure, che poteva fare? Sperò che anche Ansel avesse i suoi stessi problemi. Magari era messo anche peggio di lui, e si era nascosto per temporeggiare. Sì, si era nascosto dentro la nuvola e ora volava in cerchi in attesa di un'illuminazione.

Si ritrovò a osservare di nuovo il Faro. Adesso era quasi sotto di lui. L'aria si era fatta calda d'un tratto, tremolava. Per uno strano scherzo atmosferico, anche il Faro si era messo a tremolare. Per un attimo, parve davvero una grande candela che si scioglieva sotto il suo stesso calore.

Tadon entrò nell'ombra della nuvola e istintivamente lanciò lo sguardo verso l'alto, verso l'enorme massa bianca che si librava sopra di lui. D'un tratto, si ridestò come colpito da uno schiaffo. Se non lo faceva ora, non avrebbe potuto farlo più.

Doveva assolutamente raggiungere Ansel e parlargli. Forse lui sapeva qualcosa. Magari lo sapeva ma non gliel'avrebbe mai detto, e allora lui gliel'avrebbe fatto sputare a tutti i costi. O forse non sapeva niente neanche lui, avrebbero parlato e sarebbero giunti a una soluzione. Era anche nel suo interesse. Magari non era nemmeno dentro la nuvola, ma ormai se n'era quasi convinto e niente l'avrebbe distolto. Sembrava l'unica cosa per vincere. E allora doveva essere per forza vera.

La corrente solleticò la pelle di Tadon, e quello fu il momento.

Aria calda.

Sganciò nuovamente il braccio destro dalla cinghia. Tadon, in fase di progetto, aveva pensato a due cordicine di emergenza. Una pendeva dal centro dell'ala sinistra, un sottile filo bianco, ed era quella che gli serviva adesso. L'altra, di colore rosso, pendeva dall'ala destra, e serviva a portare tutto com'era prima. Tadon guardò la prima cordicina per un paio di secondi, fece guizzare lo sguardo di nuovo di fronte a sé e poi verso la nuvola, e infine l'afferrò, mordendosi il labbro. Strappò il filo. Sotto ciascuna ala, come due cassetti, scivolarono verso il basso un paio di appendici. Con uno scatto si assestarono, andando a formare un prolungamento quasi perfetto delle ali principali. Tadon si ricordò che si stava ancora mordendo il labbro, e lo lasciò stare prima che fosse tardi. Si legò di nuovo in fretta e furia e afferrò con tutte le sue forze le maniglie agli estremi dell'intelaiatura.

Il colpo arrivò dal basso, come un calcio invisibile. Di sicuro, se non avesse prestato attenzione, si sarebbe staccato metà bocca da solo. La corrente calda lo avvolse immediatamente, e fu piacevole sentire il freddo allontanarsi dalle punte delle orecchie e degli zigomi. Tadon non si era accorto di aver chiuso gli occhi. Li aprì e la prima cosa che vide fu Asdenar diventare sempre più piccola, sempre più sbiadita. Quasi trasformarsi in acqua. Stava lacrimando. Le lacrime gli bagnarono le guance per qualche secondo, dopodiché si staccarono e restarono sospese in aria un altro po', prima di disintegrarsi in gocce ancora più piccole. Tadon non vedeva niente, ma continuava a salire. Gli occhi gli bruciavano, ma aveva le braccia legate e non poté fare nulla. Allora serrò le palpebre e pensò a quello che era in suo controllo. Scalare il cielo, quello poteva farlo.

Con un colpo di reni, senza vedere nulla, ma sentendo, sentendo il vento correre sulla sua pelle, dentro la sua maglietta, e le spalle e i tricipiti bruciare per lo sforzo, si sbilanciò all'indietro. Il dolore aumentò. La gravità parve invertirsi. Ora il cielo lo chiamava. Dopo qualche secondo i fasci di muscoli smisero di urlare, come sfiniti, assuefatti, e a Tadon parve veramente di cadere verso l'alto. Un pensiero in fondo alla testa gli consigliò di aprire gli occhi e guardare, e lui non poté resistere. Ora non gli bruciavano più. Sentiva le lacrime secche sulle guance, che gli tiravano la pelle. La sua vista era offuscata, buia, disturbata da minuscoli lampi di luce che andavano e venivano, ma così deboli che non riuscivano a illuminare completamente la scena. Provò a inspirare, per cercare di riprendere il controllo, e quando stava per convincersi di aver perso la vista, essa si rischiarò di colpo. Pensò di essere morto, o qualcosa di simile. Forse fu il cielo azzurro al posto dei tetti di Asdenar a dargli il colpo di grazia, la convinzione che stava cadendo nel nulla e non ci sarebbe stata nemmeno una fine, nemmeno un impatto, un addio al mondo. Non fosse stato per l'imbracatura che lo teneva rigido al suo posto, il suo corpo sarebbe esploso in un insieme di spasmi, una di quelle cadute immaginarie dei sogni, ma non successe nulla, e tutta quella tensione si accumulò nei muscoli e cercò di uscire con un grido feroce, dilaniante, col cuore che incominciò a martellare impazzito.

Quando finì di gridare, Tadon si accorse che non stava più cadendo verso il cielo. La corrente calda era scomparsa, lasciando al suo posto una brezza fresca e leggera, che scivolò sul suo corpo come una doccia purificante. Stava planando, come su un fiume invisibile. Davanti a lui c'era solo il cumulonembo, così vasto che non si vedeva altro, un'enorme parete bianca e rigonfia. La distanza che li separava si azzerò in pochi secondi. Quando s'inoltrò nel muro bianco, la prima cosa che udì fu il cessare di ogni suono.

Ansel doveva essere là dentro. O era arrivato al Faro, o era nascosto dentro la nuvola. Quando se la sentì, quando capì che il suo corpo aveva passato la crisi, Tadon si arrischiò un grido. Lo chiamò. L'urlo si spense immediatamente.

Il silenzio era assordante.

La pressione dell'aria era calata sensibilmente, e Tadon se ne accorse perché tutto giungeva alle sue orecchie più ovattato. Paradossalmente, i suoni dentro il suo corpo erano aumentati di volume: il fiato, pesante per l'aria rarefatta, il cuore che si sforzava per pompare più sangue e ossigeno possibili. In quel modo non avrebbe mai udito lo scoppiettare del Calabrone, si sarebbe dovuto affidare solo alla vista.

Si guardò attorno. Si soffermò sulle miriadi di perline d'acqua che si erano accumulate sui peli delle sue braccia e sui tubi dell'intelaiatura che lo circondavano. Alcune gocce correvano sul metallo, quasi facendo a gara tra loro.

Dovette succedere qualcosa all'aria che lo circondava, come se fosse scomparsa all'improvviso, perché tutto il Nibbio sussultò, scrollandosi le gocce di dosso, e Tadon sentì lo stomaco salirgli fino in gola.

«Ehi, c'è un vuoto davanti a te, idiota. Vira a destra.»

Ansel era esattamente sotto di lui.

Tadon si piegò in avanti, scavò la nuvola con le ali e si fiondò all'inseguimento. Ansel era scomparso di nuovo nel giro di pochi secondi. Il vapore acqueo era fitto, si riusciva a vedere solo fino a un paio di metri, e l'acqua che continuava ad accumularsi sulle sue ciglia non lo aiutava affatto.

«Ansel, ascoltami.»

«Che vuoi?» rispose lui, da qualche parte più avanti. Insieme alla sua risposta giunsero gli scoppiettii del motore. Nonostante i suoni fossero meno intensi, alle orecchie di Tadon parve chiaro che il Calabrone di Ansel stesse faticando, dentro la nuvola. Quella sembrava una tosse, più che una chiara scarica di colpi.

Tadon intravide un vortice davanti a lui, milioni di goccioline che si avvitavano in spirali e lasciavano un vuoto dietro di loro. Inclinò le ali in basso, prese una piccola rincorsa e, seguendo quella scia, in breve tempo, si ritrovò accanto al suo rivale.

Ansel non scappava. Era come se l'avesse aspettato da sempre, ma evidentemente non voleva che trasparisse quella verità. Se ne stava con la schiena incurvata, le mani strette sul manubrio, mentre guardava in avanti, concentrato su qualcosa. Ma davanti a lui non c'era nulla, solo una nebbia fitta e vorticante.

«La gara non è come pensiamo che sia» disse Tadon, dopo qualche secondo passato a osservarlo.

Ansel si voltò leggermente e incominciò a guardarlo. Nascosto dietro i suoi occhialoni, era impossibile decifrare la sua reazione. Lo fissò ancora per qualche secondo. Probabilmente si stava chiedendo come mai le ali adesso gli arrivassero fino alle ginocchia, quando prima si erano fermate all'altezza dei fianchi. Ruotò il collo e ritornò a guardare in avanti.

Tadon continuò, visto che lui non dava l'impressione di voler rispondere. «Non vincerà chi toccherà il Faro per primo.»

«Davvero pensi di distrarmi così facilmente?» disse Ansel, sempre evitando di guardarlo. Nel frattempo stava sistemando qualcosa sul suo Calabrone, ruotando una manopola ai suoi piedi.

«Pensa bene a cosa ha detto Andelus prima della partenza. Chi toccherà il Faro segnerà soltanto la fine della gara. Ma lui vuole qualcos'altro. Pensaci. Non si capisce mai un cazzo delle sue prove. Niente è mai chiaro. Cosa vorrà oggi?»

Tadon sbatté le palpebre più volte, per far scivolare via la patina di umidità che gli si era raccolta sugli occhi.

Ansel smise di fare qualsiasi cosa stesse facendo. Stranamente non accelerò, non ritornò in basso, nemmeno parlò.

«Volevo solo dirtelo. Credi quello che vuoi, Ansel, ma non voglio giocare sporco.»

Voglio solo capire cosa vuole.

Viaggiarono così per un minuto intero, e a un certo punto sbucarono fuori dalla nuvola. La prima cosa che attirò l'attenzione di Tadon fu il Faro. Bastava scendere in picchiata, lasciarsi attrarre da Tumenor, correggere un poco la traiettoria, e alla fine sarebbe arrivato per primo.

«Hai ragione, Tadon.» Ansel lo stava guardando. Si era spostato la gli occhialoni sulla fronte e adesso lo fissava, con uno sguardo confuso, accecato dalla troppa luce.

«Cosa?» Tadon strinse le maniglie e si preparò a tuffarsi di nuovo verso la città.

«So cosa vuole Andelus. L'ho capito ora, e appena te lo dirò sarai d'accordo con me.»

«Ma non me lo dirai mai, vero?»

«E che cambia? Anche se tu lo sapessi, sarà poco o nulla quello che potrai cambiare ora. L'invenzione è fatta. La gara sta per finire.» Indossò di nuovo la maschera e sorrise. «Andelus vuole lo stupore. Dimmi che non è vero.»

Certo che era vero. Lo sapevano tutti. Quale miglior modo per vedere chi fosse in grado di stupire di più con una gara sopra i tetti di Asdenar?

«Buona continuazione, Tadon. E grazie.» Ansel ruotò una manopola sul Calabrone e i pistoni si arrestarono. Le eliche continuarono a fendere l'aria per inerzia, ma ben presto non poterono fare più nulla e Ansel e la sua creazione crollarono come un macigno.

Tadon ritirò l'estensione delle ali e si tuffò all'inseguimento.

Chiuse gli occhi, distese le braccia all'indietro, appiattendo le ali contro i suoi fianchi.

Ma cosa stava facendo? Spalancò le palpebre.

Il suo cuore si risvegliò di colpo quando vide i tetti rossi di Asdenar fiondarsi verso di lui. Per qualche secondo rimase congelato nella sua posizione, senza sapere cosa fare.

La gara non era per chi fosse arrivato prima. O forse sì, e Ansel non aveva fatto altro che giocarsi di lui. L'aria incominciò a diventare insopportabile sul volto. Sembrò raggrumarsi in tanti piccoli proiettili che gli bucavano le guance, la fronte e gli occhi. Richiuse le palpebre e la sua mente ebbe la forza di pensare che se fosse rimasto immobile a rimuginare avrebbe aperto un buco dentro una casa, e non se ne sarebbe nemmeno accorto.

Cercò di scostare le ali dal suo corpo, ma il vento che lo avvolgeva gliele tenne attaccate dov'erano. Diede un colpo con le braccia, ma i suoi tricipiti risposero bruciando di dolore. Si sentì come incastrato in mezzo a un vicolo strettissimo, le pareti che però spingevano contro di lui, e più lui cercava di allontanarle più esse lo avrebbero schiacciato. Tutto questo a testa in giù, col vento che ti urla nelle orecchie e Tumenor che sta per accoglierti in un abbraccio mortale.

Urlò a più non posso, le fibre dei suoi muscoli che si laceravano una a una, la testa che gli si annebbiava e tutto che incominciava a sprofondare in un lontano oblio, quasi stesse sfrecciando verso il vuoto e mortale universo piuttosto che cadere, dove non si respirava, dove ci si addormentava e non ci si risvegliava più.

Si accorse d'aver perso conoscenza per un paio di secondi, perché tutto era tornato a urlargli e spingergli addosso come uno schiaffo. Quell'attimo di lucidità inaspettato gli ricordò del laccio di emergenza. Era lì, adi fronte a lui, che pendeva da un tubo di metallo in attesa di essere strappato. Allungò il mento e lo addentò, la saliva che gli bagnava il collo e gli sfrecciava sulla pelle, e tirò cacciando l'urlo più forte che la sua gola potesse produrre.

Le pareti inamovibili che gli avevano bloccato le braccia si fecero liquide, poi evaporavano. Ma in realtà era lui che si era fatto più agile ed era sgusciato dalla trappola. Tadon udì le due estensioni sganciarsi ed essere risucchiate dal cielo. Spalancò le braccia, avvertendo la poltiglia dolorante e scottante nella quale si erano trasformate le sue spalle, una martellata lo colpì al petto e lui si ritrovò disteso in orizzontale. Mascella e mandibola si erano scontrate con così tanta violenza che quasi lui rischiò di perdere qualche dente e di svenire in pieno volo. Tutto era remoto, eppure i cori di esultanza e gli applausi scroscianti lo accarezzarono da sotto. Era come se un pubblico invisibile ma caloroso lo stesse sorreggendo con centinaia di mani e lo stesse portando verso il traguardo.

La punta del Faro, il traguardo, era proprio lì, qualche metro più in basso, ma di fronte a lui. La grande fiamma blu infuriava come sempre. Tadon era stordito, nemmeno sentiva più l'ebrezza del volo, e il Nibbio lo stava riportando a casa come fanno gli amici dopo una sbronza di quelle forti. Non aveva la forza di girarsi a guardare, di vedere se Ansel fosse già arrivato oppure se era rimasto indietro. Voleva solo arrivare a casa.

Forse era lo stato particolare nel quale si trovava la sua mente, forse il fatto che fosse così scombussolata, che due idee che mai si sarebbero sfiorate in una mente sana si toccarono e scattò una scintilla. All'improvviso Tadon iniziò a sentire caldo, a sudare, e sentì il sudore quasi congelare sulla sua pelle, spazzato dal vento. Ebbe un momento di lucidità improvviso, ma più che lucidità sembrava un'improvvisa ventata rovente che gli bruciò ogni angolo della mente lasciando spazio solo a quell'idea, quella scintilla che aveva avuto. Era sola, e sembrava l'unica vera cosa che contasse.

Tadon inclinò le ali, oramai menomate, e si tuffò in picchiata verso il Faro. Il pubblicò urlo, fischiò, batté mani e campane, e forse quello voleva dire che era arrivato per primo. Ma adesso non importava. Contava solamente stupire Andelus, vero Ansel? Scavò a fondo con le ali, più a fondo di quanto dovesse, e in quel momento il pubblico si zittì, e un secondo dopo si risvegliò, ma quelli erano sussurri spaventati, voci confuse. Qualcuno urlò terrorizzato.

Però Tadon ormai aveva scelto. Si isolò dentro di sé, non sentì più nulla. Aveva unicamente il fuoco blu davanti agli occhi, e solo quello esisteva.

Tadon lo sapeva, eppure quando lo attraversò si stupì di quanto fosse inconsistente. Anzi, così inconsistente da essere meno solido dell'aria. Lo fendette con il suono di una lama che cala a vuoto, e solo dopo arrivò il calore. Sui fianchi, sulle gambe. Poco prima di bucare l'acqua del mare ebbe un paio di secondi per osservarsi. Le fiamme blu si sprigionavano dalla stoffa formando le ali più belle che avesse mai visto, e allora seppe di aver vinto.

***

Lo raccolsero direttamente dal mare. Non era annegato, ma c'era voluto poco. La magia delle sue ali di fuoco era finita appena aveva toccato l'acqua, e lui si era trovato incastrato in una gabbia di metallo mentre andava a fondo. Ci mise qualche secondo a capire cosa stava succedendo, ma appena ripreso il controllo della sua mente sfilò le braccia dalle cinghie e si liberò. La pressione dell'acqua lo aiutò a salire a galla senza che nessuno glielo avesse neanche chiesto. Non fu così gentile con quello che rimaneva del Nibbio.

Prese la boccata più rumorosa di sempre, e vide un paio di scienziati galleggiare a qualche metro da lui.

Le sue braccia erano fuori uso. Si stupì che non gli si fossero staccate una volta usciti dall'acqua. I due che lo avevano soccorso lo portarono a braccio e si complimentarono con lui.

«Benvenuto» gli dissero.

La premiazione si tenne sotto il Faro. Dovettero procedere in fila indiana tanta era la gente premuta contro le pareti dei cunicoli.

«Dove andiamo?» chiese Tadon.

Il Temprato bloccò loro la strada. «Dai cazzo, muovetevi. Anzi, datelo a me.» Lo sollevò di pesò, come un sacco di sabbia vuoto per metà.

Tadon gemette quando le spalle gli bruciarono dal dolore.

«Su, su, c'è di peggio» disse l'uomo pelato.

«Dove mi stai portando?»

«Il mio gioiello è appena uscito dal suo bagnetto. Andelus vuole fare la premiazione lì. Vedrai, ha la pelle argentata, lucente come quella di un neonato ma dura come quella di un vecchio.»

La sala era enorme, ma quello che colpì Tadon fu la sua altezza. Dovevano trovarsi molto in profondità, perché il soffitto era lontano e nero come la notte quando non ci sono gli Spiriti. L'immenso cilindro di acciaio svettava in mezzo, la sua punta quasi non si vedeva. Attorno a esso, sulle pareti, decine di balconi si affacciavano verso l'interno, disposti su diversi livelli. Anch'essi erano gremiti di gente. L'intera Combriccola era riunita nelle profondità di Tumenor per la premiazione della gara.

Il Temprato lasciò Tadon alla base del cilindro. Ad aspettarlo, lì sotto, c'erano Ansel, Gravio e Andelus.

«Bene» urlò il capo degli scienziati. «Bene!»

Tutti si zittirono.

«È giunta l'ora della premiazione, una gara così breve, ma così intensa. Sono stati di più i momenti in cui non vi vedevamo, certo, ma è stata comunque una bella gara.» Calò il silenzio e Andelus afferrò le braccia di Tadon e Ansel. La spalla di Tadon s'infiammò di dolore, ma passò ben presto, perché il cuore palpitante rubò tutta l'attenzione del suo corpo. «Non perdiamoci in chiacchiere, siamo qui per proclamare il vincitore, ai piedi della creazione che ci porterà sulle stelle. Ora alzerò il braccio del vincitore, ma vi prego di starvene zitti e immobili fino a quando non avrò finito di parlare.»

Furono i secondi più brutti della vita di Tadon. Sentiva le dita di Andelus sul polso, stringersi, in attesa della verità.

Il cuore si sciolse come cera, e la spalla riprese a urlare come una dannata quando Andelus alzò il braccio di Tadon. Era un dolore magnifico, e lui non ce la fece a trattenersi. Lasciò andare un urlo breve e straziante, ma che sapeva anche di liberazione.

L'intera sala mantenne la promessa, e rimase zitta, immobile.

«Ha vinto Tadon, perché è arrivato primo.»

Come?

«Ma Ansel...»

Tutti i presenti incominciarono a sussurrare, e quello che ne risultò fu il suono più disgustoso che Tadon avesse mai sentito. Un fiato caldo e umido, appiccicato all'orecchio.

«Silenzio!» L'urlo di Andelus riverberò sulla pelle di acciaio del cilindro. Una volta scalata tutta la superficie fino alla sommità, rimase solo l'eco di un tintinnio. «Dicevo, appena ho visto l'invenzione di Ansel ho avuto un'idea grandiosa. Finalmente, ho capito come porteremo questo gioiello tra le stelle.» Mentre la Combriccola non sapeva se urlare o stare in silenzio, Andelus lasciò andare il braccio di Tadon e accarezzò la superficie del cilindro. Con l'altra mano sollevò il braccio di Ansel. «Andremo nello spazio, voleremo!»

Lasciò che le urla si consumassero da sole, e ci volle qualche minuto. Tadon era troppo confuso per muoversi, o per capire. Ormai libero dalla presa di Andelus si lasciò scivolare a terra.

Quando ci fu abbastanza silenzio per parlare, Andelus riprese la parola. «Non abbiamo un nome, però. Non possiamo volare se prima non gli diamo un nome.» Persino i sussurri si consumarono, a questo punto. «Ansel, tu hai qualche idea?»

Ci pensò giusto un paio di secondi. «L'Astro. Penso sia un nome adatto.»

«L'Astro!» urlò Andelus, inarcando il collo.

La folla riprese a gridare. Tutti, stavolta, dal primo all'ultimo, chi a terra e chi sui balconi, iniziarono a battere i piedi, a pestarli sulla terra fino a farla tremare. Le grida si unirono in un coro ritmico, che andava crescendo, e aumentando di frequenza, fino a quando non ritornò a essere una cosa sola, un boato uniforme e assordante. E tremò pure l'Astro, così forte che sembrava stesse decollando proprio in quel momento.

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