Capitolo Tre
Fiamme silenti
La camera di Maed, per quanto ne sapesse lei, era l'unica a non essere illuminata dalle lampade infuse dai nobili. Non che non le piacessero, il fatto era che non le capiva. Non capiva nemmeno il blocchetto metallico che giaceva sui palmi delle sue mani. Ma quello avrebbe potuto smontarlo — doveva solo capire come —, e sapeva che al suo interno avrebbe trovato qualcos'altro. Quel qualcosa sarebbe scattato o girato su se stesso. E per qualche motivo, avrebbe creato la fiamma e l'avrebbe sospinta su per il cilindro bucherellato. Tutto questo se davvero erano stati gli scienziati a costruirlo. Ma non poteva essere altrimenti. Fuoco rosso, non blu.
Si guardò attorno, assicurandosi che non ci fosse nessuno ad osservarla. Sfiorò la rotellina del Fiammerino. Quel nome le era balzato in mente mentre era stata impegnata ad arrampicarsi su per un muro della Villa. Ogni tesoro che riusciva a rubare agli scienziati doveva avere un nome, secondo lei. Per il Fiammerino non era stato tanto difficile, d'altronde creava fiamme ed era di dimensioni ridotte. Col pollice accarezzò la sua ruvida rotella, e una minuscola scintilla le illuminò le dita, per poi scomparire inghiottita dal buio. Se avesse dato un colpetto ancora più deciso, quella scintilla sarebbe diventata una splendida ed elegante fiamma rossa. Ma Maed temeva che qualcuno la potesse osservare. La camera da letto era soprattutto un rifugio per lei, ma si trovava pur sempre nella dimora di nobili espertissimi nell'uso della magia. E lei non era ancora del tutto certa delle loro capacità.
Mise in tasca il Fiammerino. Con passo felpato si avvicinò alla porta della sua camera e la scostò, affacciandosi sul corridoio per controllare che non ci fosse nessuno. Silenzio. Le lampade appese ai muri non emettevano alcun suono. Fumi vorticavano al loro interno, come spiriti danzanti. Maed si allungò verso l'alto, afferrandone una. Poi rientrò nella stanza e, sollevando la sua nuova lanterna, illuminò davanti a sé, in cerca della cassa che conteneva i suoi tesori. Una brezza fresca scuoteva le tende della finestra da cui si era intrufolata. Per terra, disposti in fila lungo le pareti, dei vasetti di diverse dimensioni ospitavano delle piantine o dei fiori. Il loro odore era decisamente migliore di quello della magia. Appassivano in fretta, e Maed non riusciva a comprenderne il motivo, ma era comunque solita rubare qualcosa di nuovo dal giardino ad ogni Congedo, affinché almeno nella sua camera non ci fosse quell'odioso puzzo magico.
Tenendo la lanterna sollevata, si chinò a terra e gattonò verso la parete di fronte al letto. Spostò i vasi che stavano sopra alla sua cassa e li appoggiò attorno a sé. Poi scavò con le dita in quello con la pianta dai fiori gialli, finché non trovò la chiave, immersa nel terriccio umido. La infilò nella serratura e la fece girare tre volte. Appoggiò la lampada tra le sue gambe e si sedette, poi sollevò il coperchio della cassa.
La luce ne illuminava debolmente l'interno, ma Maed riusciva a scorgere i suoi tesori sul fondo, perfettamente ordinati. Sfilò dalla tasca il Fiammerino, e lo sistemò nello spazio tra quell'oggetto che creava le scosse, come piccoli fulmini — a cui però ancora non aveva trovato un nome appropriato — e il Cercafaro. Quello era il più misterioso. Un dischetto di vetro che conteneva un piccolo ago che ruotava su se stesso. Lo aveva chiamato così perché, in qualsiasi direzione Maed si voltasse, l'ago puntava sempre verso il Faro. Ancora non l'aveva smontato. Avrebbe voluto, così come con il suo nuovo tesoro che generava le fiamme rosse, ma quella sera non aveva proprio tempo. L'ora della cena era vicina, e lei non sarebbe dovuta arrivare in ritardo, perché avrebbe finalmente chiesto dell'addestramento. Doveva essere perfetta, doveva essere convincente, altrimenti non avrebbe mai iniziato l'allenamento per imparare la magia. Solo allora, forse, avrebbe potuto di nuovo riempire la sua stanza con le lanterne colorate e togliere tutti quei vasetti profumati dal pavimento. Da quel giorno, ci avrebbe convissuto con la magia. E col suo odore.
Non poteva presentarsi alla cena con quegli abiti sporchi e appiccicati di sudore. Chiuse la cassa e la coprì di nuovo con i vasetti. Strisciò contro la parete, voltandosi per controllare che fosse ancora sola. Tastò il muro con la mano sinistra, finché non riconobbe una manopola di metallo, che sbucava dal muro. Si appoggiò ad essa e col suo peso fece scorrere una porta. Cigolò, rivelando dietro di sé un'altra oscurità, stretta e profonda. Maed sollevò la lanterna, e la luce verdastra rivelò ai lati della stanza due file di vestiti appesi. Avanzò, osservandoli, mentre prendevano forma davanti ai suoi occhi. Non riusciva a riconoscerne il colore, con quel bagliore sinistro, ma l'importante era scegliere qualcosa che fosse ancora intatto. Sfiorò quello che sembrava un vestito, ma le sue dita s'incagliarono in un enorme strappo all'altezza della vita. Non disponeva nemmeno del tempo — e nemmeno della luce adatta — per scegliere un abbinamento decente, quindi avrebbe optato per qualcosa di unico. Saggiò altri due o tre abiti, finché non ne trovò uno che sembrava fare al caso suo. Nessun taglio, nessuno strappo. Avrebbe dovuto iniziare a sperperare meno vestiti eleganti, durante le scorribande sui tetti. Troppi di essi erano finiti nelle mani sbagliate, o dimenticati in vicoli o tetti troppo vicini al porto.
Qualcosa risuonò dall'altra parte, nella sua camera vera e propria. Maed coprì la lanterna sotto il vestito che aveva recuperato dall'armadio, il tessuto che inghiottiva la luce. Si tappò la bocca, avanzando cauta verso la porta scorrevole che divideva la stanza-armadio da quella dove stava il suo letto. Una figura era seduta sopra di esso, sul bordo. Maed si bloccò. L'ombra era composta, la schiena eretta, la curva dei fianchi appena percettibili nell'oscurità. Immobile.
Maed osò scostare la mano dalla sua bocca. «Mamma?»
L'ombra si chinò, estraendo da dietro le coperte del letto che cadevano sul pavimento un'altra lanterna, di colore giallo.
«Sono Adel.»
Maed rilasciò ogni suo muscolo, poi avanzò di qualche passo. Avvicinò la sua lampada alla faccia di sua sorella.
«Cosa c'è ancora? Sto per arrivare, mi stavo cambiando.»
«Hai per caso intenzione di entrare nella sala dall'entrata principale?»
Maed scrutò i suoi lineamenti, morbidi. La sua pelle rifletteva la luce come cera. «Perché, qual è il problema?»
«Pensavo che dopo mesi a scorrazzare per la città avessi almeno imparato a non destare sospetti.»
«Infatti, non mi ha ancora scoperta nessuno.»
«Tranne me.» Un ghigno le distorse le labbra. Perché quelle poche volte che sorrideva era così sgradevole?
«Shh» fece Maed.
Adel ignorò il suo gesto. «È la prima volta che torni a quest'ora. Non voglio sapere cosa combini là fuori, non lo voglio sapere. Sappi, però, che pure papà si accorgerà di qualcosa di strano, se comparirai d'un tratto dall'entrata principale, con quel buio là fuori. Anche lui si chiederà cosa ci facevi dalla parte della città.»
Maed si svestì, lasciando gli indumenti che aveva indossato ai suoi piedi. «D'accordo, entrerò da dietro.» Armeggiò col nuovo vestito, cercandone l'orlo inferiore. «Chi c'era oggi in giro, alle ville?»
«Danya. Forse anche Wend.»
«Se mamma o Tanesin ti chiedono qualcosa, io ero con loro, oggi.» Si girò, dando la schiena a sua sorella. Infilò il vestito dall'alto, poi aspettò che Adel glielo abbottonasse da dietro. Sentì le sue dita muoversi ordinate, sfiorandole la pelle, e poi disse, ancora: «Dovresti essere sempre così, Adel.»
Nessuna risposta.
Maed si girò, sollevò un'ultima volta la lampada e le illuminò il viso. «Come vuoi... Grazie, comunque. Ci vediamo giù.»
Fece per dirigersi verso la finestra, ma Adelin le afferrò il braccio.
«Ora cosa c'è?» sbottò Maed. «Lasciami andare.»
«Non puoi andare in giro con quella caviglia. Se dovesse dolerti mentre scali il muro, rischieresti di cadere, non arrivando in tempo alla cena. E nemmeno l'addestramento arriverebbe in tempo.»
«E tu come fai a saperlo che mi fa male la caviglia?»
«Credi che non si noti?»
«Ce la faccio lo stesso.» Maed allungò una gamba, ma sua sorella non mollò la presa.
«Sdraiati, cercherò di mettertela a posto.»
«E come, scusami?»
Adel si mise in piedi, si lisciò il vestito e si diresse alla porta. Poi si voltò, prima di uscire. «Non capisco davvero se tu la magia la odi o la vuoi imparare.»
Entrambe, Adel. Probabilmente entrambe.
Poi scomparve nel corridoio, socchiudendo la porta dietro di sé. Maed non capiva. Poteva andare? Doveva muoversi, il tetto della Villa era grande, per attraversarlo tutto avrebbe impiegato altro tempo prezioso. In quei momenti sperava che il vecchio Cavalluccio fosse con lei, con il suo orologio.
Adel tornò qualche secondo dopo, trovando Maed ancora in piedi, pensierosa. In mano aveva una lampada che emanava una soffusa luce viola.
«Sdraiati» disse, mentre si accucciava accanto al letto, e tentava di aprire la lanterna. Si fermò un attimo, scrutando Maed, dal basso. «Dài, veloce.»
«Hai intenzione di usare la magia?»
Adel era troppo indaffarata a svitare il coperchio della lampada, e non rispose, come la maggior parte delle volte in cui riceveva una domanda. Maed si sdraiò sul letto, sbuffando. Si finse disinteressata, ma quando appoggiò la testa sul cuscino, allungò lo sguardo alla sua sinistra, in basso, per vedere cosa stesse combinando sua sorella Adelin.
Tolse il coperchio alla lampada. Maed ne aveva già vista una dall'interno. L'aveva smontata. Ma oltre alle fiamme colorate al suo interno non c'era stato nient'altro da vedere, né da comprendere. Le lingue di fuoco della lanterna eruppero verso l'alto, viola, dritte e composte, come Adelin stessa. Nessun crepitio, nulla. Si portarono appresso una tanfata di magia.
«Come fanno a bruciare?» chiese Maed. «Non c'è nulla dentro.»
Adelin sollevò la lampada e la posò accanto alle gambe di Maed, sul letto. Poi inspirò, gonfiando il petto e chiudendo le palpebre. Si mise in ginocchio, i suoi occhi allo stesso livello del fuoco. E infilò le mani dentro alle fiamme.
Maed sobbalzò, come se fosse stata lei stessa a scottarsi. Adel sfregò le mani, gli occhi serrati, mentre respirava con attenzione.
«Non ti bruci» osservò Maed. Era la prima volta che vedeva qualcuno prepararsi ad un'esecuzione magica da così vicino. Aveva sempre e solo visto gli effetti, tutto ciò che era venuto prima — ciò che lei agognava veramente — le era stato nascosto ogni volta. Che il suo addestramento si stesse davvero avvicinando?
Sua sorella spalancò gli occhi e tirò fuori le mani dal fuoco. Poi fece guizzare lo sguardo verso la caviglia di Maed, ancora fasciata col pezzo di pantalone di Tadon. Disfece la benda. Le sue dita attente finirono in pochi secondi, e di sotto emerse il suo piede gonfio, una macchia giallognola e verdastra sulla caviglia. Maed fece una smorfia, ma Adelin restò impassibile, osservando ciò che aveva sotto gli occhi. Infilò un'ultima volta le mani tra le fiamme viola, e poi strinse la caviglia gonfia.
Maed sentì un brivido salirle su per il polpaccio. Strinse i denti e socchiuse gli occhi. «Piano, Adel.» Le dita di Adelin avvolsero tutto il suo piede, dalle dita fino all'osso della caviglia. Erano gelide, nonostante fossero state immerse nel fuoco vivo. Questo sfidava ogni cosa.
«Adel» disse Maed. Sua sorella continuò a sfiorarle la pelle, mentre lei sentiva qualcosa entrare nella sua cute, come ghiaccio che s'infila nei pori e scende in profondità. «Che fuoco è quello?»
«Tu non lo sai usare.»
«Ma lo saprò usare, vero? Lo userò?» Maed sollevò il capo, cercando gli occhi di Adelin. «Se mi stai facendo vedere questa cosa è perché a breve inizierò l'addestramento.» Suonò più come una domanda, che come un'affermazione.
«Lo sto facendo per salvarti per l'ennesima volta. Se vorrai imparare la magia, dovrai smetterla di scomparire dalla Villa. Capito?» Finalmente la guardò, mentre ritraeva le dita dal piede. Il gelo, però, persistette, sovrapponendosi al dolore bruciante della caviglia. «I nostri genitori stanno rinviando il tuo addestramento da così tanti mesi per quel motivo. Nostra madre non si fida. Se non avessi iniziato a scomparire così di frequente, due anni fa, probabilmente questa caviglia te la saresti curata da sola.»
La scienza sarebbe stata in grado di fare una cosa simile? Per un momento, Maed pensò di aver commesso un grande errore, quel giorno di due anni prima, a seguire Tadon per i tetti. Tutto era iniziato da lì. Dischiuse le labbra, pronta a porre a sua sorella quella domanda, ma si fermò in tempo, accorgendosi che avrebbe solamente peggiorato la situazione.
«Maed, ora vai» disse Adelin, mentre raccoglieva la lampada col fuoco viola e si rialzava in piedi. Si controllò il vestito e lanciò un sguardo alle sue spalle, verso la porta. Poi tornò a guardare Maed. «Prima che guarisca del tutto passerà del tempo. Ogni sera tornerò e lo rifarò. Solamente... non scomparire più, te ne prego. Il tuo sangue è fatto per la magia, Maed. Ricordalo.»
Si diresse verso il corridoio. Giunta alla porta si voltò ancora, per guardare un'ultima volta sua sorella, che si stava mettendo seduta sul bordo del letto. La osservò per qualche secondo, poi scomparì, in uno svolazzare di vesti.
Maed appoggiò il piede sinistro sul tappetto. La scossa di dolore fu un lieve pizzicore, quella volta. Adelin aveva detto che sarebbe passato del tempo, prima che fosse guarita del tutto. Se però quella sera i suoi genitori le avrebbero annunciato la grande notizia — l'imminente inizio dell'addestramento alla magia — avrebbe potuto curarsi da sola, senza più bisogno dell'aiuto di sua sorella, per le sere a venire. O forse quel tipo di pratiche s'imparavano più avanti, dopo mesi di studio? Be', almeno il suo sangue sarebbe diventato subito blu. Finalmente. Cercò il suo tatuaggio sull'avambraccio — il triangolo impossibile — ma era invisibile nell'oscurità della stanza.
Dandosi una spinta con le mani, fu di nuovo in piedi. Prima di uscire dalla finestra, percorrere tutto il tetto e calarsi dall'altra parte della Villa — dove stava l'entrata che dava sul quartiere nobile — voleva controllare un'ultima cosa. Si affacciò dall'uscio della sua camera. Vide sua sorella svoltare un angolo, in fondo al corridoio. Controllò la parete alla sua destra e vide che Adelin aveva rimesso al suo posto la lampada dalle fiamme viola. In punta di piedi, l'afferrò, poi tornò dentro alla sua camera, chiudendosi la porta alle spalle. Si accucciò a terra e svitò il coperchio. Le fiamme balzarono in alto, smettendo di accartocciarsi e mescolarsi su se stesse. Un flebile odore di magia le accarezzò le narici. Maed cercò di ignorarlo, di farlo suo, invece. Poi protese esitante le dita in avanti, chiudendo gli occhi.
Balzò all'indietro, reprimendo un gridolino. Agitò la mano, soffiando sull'indice, ustionatosi a contatto col fuoco viola. No, non si trattava di uno scherzo. Quel fuoco era particolare, e Maed non sapeva davvero usarlo. Temeva, inoltre, che non ci fosse una spiegazione scientifica per esso. Guardò la finestra, pensando a quello che avrebbe dovuto chiedere ai suoi genitori nel giro di qualche minuto. Prese un grosso respiro, poi si rimise in piedi, lasciando per terra le lampade che aveva preso dal corridoio. Pensò di lasciare quella viola scoperchiata, libera di riversare i suoi miasmi nella camera. Si sarebbe dovuta abituare a quell'odore, prima o poi.
Si affacciò dalla finestra, osservando il giardino ai piedi della Villa. Deserto, nessun nobile che avesse potuto notarla. Poi osservò in alto, il muro bianco sopra la sua testa disseminato di buchi e strette fessure. Li aveva scavati Maed. Ce n'erano moltissimi anche di sotto. Quella finestra, per lei, era ormai diventata l'entrata principale, e per usarla aveva dovuto renderla il più accessibile possibile.
Un urlo nel cielo richiamò la sua attenzione. Sembrò un ululato, confuso e lontano. Maed guardò in alto, cercandone con gli occhi la provenienza. Per qualche motivo il suo cuore incominciò ad accelerare il battito, mentre lei non riusciva a scorgere nulla. Qualcuno l'aveva vista? Si protese in avanti, per poter guardare in verticale sotto di sé. Ma non c'era nessuno.
Alzò di nuovo lo sguardo, e un piccolo luccichio apparve e scomparve nell'oscurità, molto in alto. Di nuovo. Stavolta, però, fu più duraturo. Qualcosa sfrecciava nel cielo, verso il tetto della Villa.
La cosa urlò di nuovo. «Uuh-uuh!» Si trattava di un urlo eccitato, una voce maschile. Un fischio lo accompagnava per tutta la durata del volo, come il suono di qualcosa che taglia l'aria.
Poi, quando si fu avvicinato abbastanza, Maed lo vide chiaramente, proprio sopra di sé. Un uomo era disteso in aria, sdraiato nel nulla. Delle grosse ali, simili a quelle di un pipistrello, si aprivano dal retro della sua schiena. Tremavano e sussultavano, ma un'intelaiatura metallica le teneva rigide. Doveva essere stata quella a brillare, poco prima. L'intera figura scomparve dietro allo spigolo del tetto, fendendo l'aria.
Maed non era riuscita a riconoscere l'individuo.
Cercò la prima fessura nel muro, dove avrebbe infilato le dita della mano destra, e appoggiò il piede sano sul davanzale. Doveva muoversi. Doveva arrivare in tempo alla cena. Doveva evitare a tutti i costi quell'uomo che era volato sopra al tetto, perché — ne era sicura — aveva riconosciuto la sua voce.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top