Cap 8: Scar
«Adoro queste giornate...», sospirò Eric al mio fianco, mentre le foglie sugli alberi frusciavano accompagnate da un vento quasi tiepido. L'erba ai nostri piedi si muoveva appena, il sole picchiava sui tronchi d'albero e l'aria profumava d'arance e di quell'odore speciale che emanano i bambini quando vengono cosparsi di crema solare in riva al mare. Una giornata insolitamente calda per essere il ventiquattro marzo, ma ugualmente piacevole. Indossavo una camicetta bianca a maniche lunghe, una gonna a pieghe nera, calzettoni bianchi e scarpe primaverili di cotone e non avevo la pelle d'oca né i brividi: quello sì, che era un record per me!
Eric mi passò accanto, spolverando il tavolo che avevamo istallato in mezzo al CountMetral Park dai fazzoletti utilizzati dalle madri e dai bambini che avevano acquistato un dolce durante la Fiera adibita al solo scopo di raccogliere fondi per le famiglie bisognose. Ogni tre mesi la mia scuola incaricava i venti ragazzi con la media migliore di allestire queste fiere in tre dei cinque parchi della città - luoghi strategici, poiché molto affollati - con l'obiettivo di racimolare un bel gruzzoletto e metterlo nelle mani del preside per dividerlo poi, successivamente, ai ragazzi appartenenti alle famiglie che più ne necessitavano, restando però totalmente nell'anonimato per evitare che i più insensibili li prendessero di mira e li tartassassero, rendendoli vittime del bullismo.
Anche quella volta era toccato a me, poiché grazie al compito di arte la mia media non era scesa nemmeno di mezzo punto. Il mio compagno quella volta era stato Eric Callagan; avevo trovato piacevole la sua compagnia, molto spesso l'avevo osservato mentre serviva i più piccoli e scherzava con loro, per niente a disagio o spaventato.
Forse si sentiva molto più un bambino che un adulto; eravamo incastrati in un'età dove non riesci a comprendere se sei già un uomo o ancora un bimbo, e allora iniziano i complessi, i disordini, i "non mi piaccio", i "mi faccio schifo", i "non servo a niente", i "non farò mai un cazzo di buono nella mia vita"... ma nonostante tutto lui era l'eccezione che non confermava la regola, poiché, all'apparenza, sembrava aver trovato la sua via di mezzo.
Anche in quello, Eric Callagan era decisamente migliore di me.
Avevamo raccolto centotrentotto dollari in tre ore di vendita e sul tavolo c'erano rimaste soltanto una fetta di torta al cioccolato e un muffin alla crema bianca.
Avvolgemmo entrambi i dolci in due tovaglioli puliti e richiudemmo i tavoli di plastica, incastrandoceli sotto braccio.
Sollevai gli occhi al cielo e li chiusi.
«Mmm... me ne starei qui tutto il giorno, sdraiata su una grossa coperta a leggere libri», Eric ridacchiò alle mie spalle e aggiunse.
«Credo che se tu me lo permettessi io ti farei compagnia!», gli lanciai uno sguardo carico di tenerezza e gli sorrisi, come a dire "certo che ti darei il permesso".
Ci dirigemmo verso il pullman parcheggiato ai lati del marciapiede che delimitava il parco e ci caricammo sopra i nostri tavoli e i sacchi neri della spazzatura, andandoci a sedere in fondo.
La cosa positiva di questa vendita di dolciumi era che dopo aver finito non ci toccava né farci una camminata lunga chilometri con i tavoli sottobraccio per raggiungere ognuno le rispettive case né aspettare ore ed ore gli autobus alle fermate per rincasare, perché avevamo a disposizione il bus scolastico che sostava ai lati della strada per tutto il tempo della vendita e dopo non ci toccava altro se non salire, accomodarci e riposarci.
«Vuoi la torta o il muffin?», chiesi ad Eric quando ci sedemmo in fondo all'autobus.
Si accomodò accanto a me e si slacciò i primi due bottoni della camicia azzurra che anche lui - come simbolo di decoro e buona educazione - aveva dovuto indossare durante quelle ore. L'osservai mentre si passava le mani tra i capelli e si spettinava i ciuffi biondi e pensai che fosse molto carino, anche se stanco e un po' accaldato.
«Muffin», rispose, lasciando la torta a me.
Gli sorrisi di nascosto, scartando il mio involucro. Per un attimo mi sentii una bambina anch'io: fu come quando, alle elementari, il bambino a cui piaci ti lascia il pezzo più buono della sua merenda nonostante piaccia anche a lui solo perché tiene a te, ma non trova le parole adatte per dirtelo e allora cerca di dimostrartelo con i piccoli gesti.
Addentai la mia torta e roteai gli occhi.
«Mmm... ma è buonissima! Diamine!», borbottai a bocca piena. «Chi l'ha fatta?».
«L'ho fatta io», ridacchiò.
Lo guardai esterrefatta.
«Non sapevo ti piacesse cucinare! Pensavo fosse stata fatta da qualche altra ragazza del nostro corso!».
Scosse la testa.
«A parte Meg, Sam e Linda, che non hanno voluto assolutamente partecipare, le uniche ragazze che si sono prestate alla preparazione dei dolci sono state Alice, Shane e Dana. Scarlett non si fa vedere in giro da un po'... Ah, e poi tu hai preparato la crostata di mele! Dei ragazzi sono stato l'unico a preparare qualcosa», si grattò la testa imbarazzato ed addentò il suo muffin, nascondendo il viso tra i ciuffi biondi che gli ricadevano morbidi e lisci sulle tempie.
D'istinto gli passai una mano sulla fronte, scostandogli i capelli e sorridendogli.
«E' stato gentile da parte tua», il rossore arrivò a tempo debito, ma potei camuffarlo inventando che fosse colpa del caldo.
Pensai a Scarlett per un attimo: non la vedevo da tre giorni più o meno e ciò mi insospettiva, anche perché durante l'ultima settimana era stata perennemente presente e concentrata, e anche durante l'intervallo se n'era rimasta col naso ficcato su diversi libri di cui non ero riuscita a scorgere la copertina.
Avevo la sensazione che quella ragazza avesse a che fare col mondo di cui mi ero circondata in quell'ultimo periodo, e quindi indirettamente con Mya. Non era facile però confermare una propria ipotesi quando la persona a cui dovresti tirar fuori un bel po' di informazioni decide di giocare al gioco del silenzio.
«C-che fai stasera?», balbettò Eric al mio fianco.
Lo guardai dubbiosa.
«Nulla, credo. Perché?».
«Ah, no, niente... è solo che oggi danno un nuovo film al cinema, hai presente quello con gli zombie? O erano vampiri? Adesso non ricordo, ma sembra figo... Insomma, volevo andare a vederlo però non so», si morse il labbro inferiore.
«Non vuoi andarci da solo?».
Gesticolò cercando di formulare una frase, ma alla fine si arrese e scosse soltanto la testa.
«Credo che potrebbe interessarmi... mi piacerebbe vederlo», gli sorrisi un po' imbarazzata e lui si rianimò, cercando di cogliere subito la palla al balzo.
«Che ne dici di andarci insieme? Potrei... potrei passare a prenderti s-se ti va. Non è un problema! Se tu vuoi naturalmente!».
Ridacchiai.
«Sì, sì, mi va! Che ne dici di passare per l'ultimo spettacolo?».
Fece spallucce ed annuì.
«Nessun problema!».
Il pullman si fermò e l'autista aprì le bussole.
«Sei arrivato a destinazione, Callagan!», urlò. Eric si mise in piedi, s'infilò un tavolo sotto braccio, mi scompigliò i capelli di fretta e corse via giù dall'autobus.
Sorrisi e cercai di rimettere i miei poveri capelli al loro posto, poi finii di mangiucchiare la mia fetta di torta tra un pensiero e l'altro.
Due sere prima, alle tre e un quarto del mattino, il display del mio schermo si era illuminato segnalandomi un nuovo messaggio di testo. Aprendo la casellina di posta mi ero resa conto che si trattava di Mya, ma ciò che mi aveva allarmato di più era il suo contenuto. "Mi manca il respiro", questo diceva. Mi ero messa subito a sedere sul letto e avevo provato a comporre qualche parola di senso compiuto nonostante l'ora e l'imminente spavento, ma mi erano tremate le mani talmente forte che alla fine avevo abbandonato l'idea di scrivere e avevo provato a chiamarla.
Ma ad attendermi avevo trovato il suono metallico della segreteria telefonica che mi avvisava del fatto che il suo cellulare era spento.
Ma allora perché quel messaggio? Da dov'era partito, se il suo telefono era spento?
Ero rimasta un'ora buona sveglia, aspettando un altro possibile messaggio senza avere il coraggio di addormentarmi, schiaffeggiandomi quasi per restare sveglia. Ma dopo un'ora, all'ennesimo tentativo di chiamata, il suo telefono non aveva dato segni di vita e allora avevo ceduto al sonno e mi ero addormentata.
Non ero ancora riuscita a spiegarmi quel messaggio e non capivo perché in quei tre giorni non mi avesse minimamente cercata, invitata, stuzzicata, chiamata... Era come se non fossi esistita e ciò mi intristiva e mi metteva decisamente di malumore, nonostante la bellissima giornata.
Perché, poi? Di malumore senza un motivo giusto, visto che mi intristivo a causa di una ragazza che stava tentando semplicemente di aiutarmi a scoprirmi senza secondi fini e combattendo, nel frattempo, una sua battaglia nei confronti dell'amore.
Sospirai.
«Telesco, devi scendere!», urlò l'autista, avvisandomi prima di fermarsi definitivamente accanto alla fermata dello scuola-bus del mio quartiere.
Afferrai la mia borsa e lasciai in custodia l'altro tavolo, poi passai accanto all'autista e lo salutai cordialmente.
Decisamente, stavo facendo degli enormi passi avanti se riuscivo a tirare fuori le parole di bocca ad uno come Eric Callagan per invitarmi ad uscire. I miei stupidi blocchi mentali si stavano diramando come accadeva con la nebbia e pian piano stavo riuscendo a scorgere ciò che c'era oltre, zona a me sconosciuta fino a quel momento.
Passeggiai lungo il marciapiede, sollevandomi la camicia ad altezza gomito e sbottonando anche io i primi due bottoni del colletto per cercare di rinfrescare un po' la pelle.
Improvvisamente nell'aria si addensò un intenso odore di sciroppo d'acero e wuffle, il quale mi trascinò quasi contro la mia razionalità in sua direzione esattamente come accade nei cartoni animati con gli orsi e il miele.
Avevo appena mangiato un'intera fetta di torta al cioccolato, ma evidentemente tutta quella vendita di dolci e l'impossibilità di mangiarne quanti ne desiderassi avevano scatenato in me una voglia spropositata di zuccheri!
Varcai la soglia dell'American Bar, le mie orecchie incontrarono immediatamente musica swing e rumori tipici del biliardo; l'odore di wuffle si fece così intenso da diventare irresistibile.
Il bancone per i dolci e la tavola calda era stracolmo; ficcai le mani in tasca ed afferrai qualche spicciolo, ordinando una tazza di tea caldo e due wuffle in sciroppo d'acero.
Il ragazzo dietro il bancone - alto, magrissimo, viso scavato, cappellino rosso con visiera e grembiule in tinta - annuì ai miei ordini e mi disse che potevo accomodarmi su uno degli sgabelli alti.
Somigliavano molto a quelli installati nell'androne di Mya.
«Scusi, è occupato?», chiesi al ragazzo seduto alla mia sinistra.
«Se svengo probabilmente sì, visto che ci cadrò di testa».
Mya.
Mi voltai immediatamente per cercare delle conferme e la vidi, proprio lei, avvolta in un impermeabile nero, una mano sulla fronte, i capelli sfatti, le occhiaie violacee e sette bicchierini da shortino di fronte a sé... tutti vuoti.
Il ragazzo dietro il bancone le portò l'ennesimo e lei lo ringraziò con un gesto appena accennato della mano.
Faticava a tenere gli occhi aperti, faticava perfino a muoverli.
«Mya! Ma che stai facendo?», chiesi allarmata.
Lei mandò giù tutto il contenuto del suo bicchierino, buttando la testa all'indietro, poi strizzò gli occhi e gracchiò:
«Faccio colazione, mi sembra ovvio».
«Con la tequila?!».
«Niente di meglio per iniziare una giornata», biascicò.
«Al mio paese la colazione si fa con latte e biscotti!», la rimproverai.
Fischiò.
«Uh, trasgressiva, oggi hai preso del tea caldo e dei wuffle. Non ti senti eccitata? Devo segnarmi questa data sul calendario...», mi puntò l'indice contro e mi guardò strizzando un occhio, poi poggiò la mano a palmo aperto sulla fronte e rimase a guardarmi ad occhi semi chiusi.
Sembrava ubriaca, e pure tanto...
«Che succede?», le chiesi, ignorando il ragazzo e il piatto che mi aveva appena posizionato davanti.
Fece spallucce.
«Una ragazza non è libera di devastarsi quando le va?».
Era questo che stava facendo? Si stava facendo del male... e perché?
«Dico sul serio, Mya», la guardai severa, poi mi voltai verso il ragazzo dietro il bancone e con un gesto deciso gli feci capire che non doveva più portarle da bere nemmeno se glielo avesse ordinato, e che poteva portare via tutti quei bicchierini sporchi.
Afferrai il mio piatto con i wuffle e glielo misi davanti.
«Ora mangi qualcosa, bevi questa tazza di tea caldo e metabolizzi tutta la merda che hai ingerito, altrimenti ti ritroverai a vomitare gli occhi in mezzo a qualche cespuglio tra mezz'ora. Ed è soltanto mezzogiorno», le feci notare, inflessibile.
Storse il naso e la bocca e allontanò delicatamente il piatto, senza forze.
«Non mi va...».
Le spinsi di nuovo il dolce sotto il naso.
«Te lo imbocco io, se necessario. Ma devi mangiare».
Ridacchiò e poggiò tutto il palmo della mano sul proprio viso, nascondendo parte della bocca, degli occhi e del naso.
«Mmm... Potrebbe essere interessante, io faccio il paziente e tu l'infermiera che è venuta ad aiutarmi».
«Mya, smettila!», soffiai, guardandomi intorno e sperando che nessuno l'avesse sentita, imbarazzata e rossa in viso.
Tagliuzzai i wuffle in piccoli quadratini con l'ausilio della forchetta, poi glieli avvicinai alle labbra.
«Apri la bocca».
«Non lo voglio...».
«Non hai possibilità di scelta, devi mangiare se vuoi che il cibo assorba l'alcol e il tuo corpo ne risenta il meno possibile».
«Chi ti ha detto che voglio che il mio corpo ne risenta il meno possibile?», deglutì e tornò ad appoggiare solo la fronte contro la mano.
Battei le palpebre e l'osservai: sembrava sconvolta, non l'avevo mai e dico mai vista in quello stato prima d'allora. Le sue difese erano collassate, sia quelle mentali che quelle fisiche. Sembrava avere freddo nonostante fuori ci fossero quasi venticinque gradi centigradi, ed ecco il perché dell'impermeabile, e pareva che non fosse preoccupata di dire qualcosa di compromettente come invece sembrava essere di solito.
Le spinsi la forchetta sulle labbra finché non le aprì, storcendo il naso.
Stette in silenzio per tutto il tempo con lo sguardo fisso sulle bottiglie dei liquori oltre il bancone, gli occhi vitrei e il respiro irregolare, spezzettato, agitato.
Sembrava sul punto di collassare anche emotivamente.
«Ci sono io, Mya», le sussurrai accanto, preoccupata. Le presi una mano tra le mie - era bollente, cosa molto strana vista la sua perenne frescura - e lei strinse le labbra e deglutii, abbassando lo sguardo.
Quando lo rialzò ebbi l'impressione di poter vedere chiaramente delle lacrime ritirarsi, la poca razionalità restatole le stava ordinando di non cedere nemmeno quella volta e lei la stava ascoltando, ma io potevo vedere chiaramente attraverso quegli occhi che se solo si fosse lasciata andare avrebbe pianto fino a non avere più fiato nei polmoni.
Le passai la tazza col tea caldo e lei bevve, a piccoli sorsi, fino a non lasciarne nemmeno un po' nella tazza.
Le imboccai pian piano tutti gli altri pezzi di wuffle, scrutandola.
Ad un certo punto, però, si voltò verso di me e mi diede una rapida occhiata, poi sorrise e si passò una mano tra i capelli scompigliati.
«Come mai questa divisa da scolaretta per bene?», arrossii infilzando un altro pezzo del dolce e porgendoglielo, concentrandomi - sebbene non fosse poi proprio un bel modo di distrarsi - sulle sue labbra che si poggiavano sulla forchetta ed accoglievano la colazione.
«Ho partecipato ad una fiera di beneficenza, oggi», risposi seria. Lei annuì sempre col sorriso sulle labbra.
«Ti ho mai detto che la tua innocenza è davvero davvero sexy?», biascicò, ingoiando subito dopo.
Le preparai un altro pezzo di dolce e cercai di non arrossire, ma con scarso risultato.
«S-sì, credo di sì, ma non ha importanza adesso».
«Come vuoi», fece spallucce e masticò l'ultimo pezzo del dolcetto.
Spinsi la tazza e il piattino lungo il bancone e il barman intuì che poteva riprenderseli.
Saltai giù dallo sgabello.
«Andiamo, su».
«Dove andiamo?», si lamentò, incrociando le braccia sul bancone e poggiandoci sopra la testa. Roteai gli occhi e la tirai leggermente per l'impermeabile.
Tutto ciò che ottenni fu un altro lamento.
«A fare quattro passi, hai bisogno di un po' d'aria».
Si raddrizzò e mi sorrise maliziosa.
«Potresti farmi la respirazione bocca a bocca», ridacchiò ed io mi feci ricadere un ciuffo di capelli davanti agli occhi, cercando di nascondermi.
Ancorai meglio la mia presa sul suo braccio e la spinsi giù dallo sgabello, posai gli spiccioli sul bancone e la trascinai verso l'uscita.
La cosa positiva era che riusciva a camminare, sebbene qualche volta barcollasse.
Non appena fu fuori strinse gli occhi, perché la troppa luce le feriva la vista.
«Ti fa male la testa?», nel momento stesso in cui le feci la domanda mi resi conto di quanto potesse essere stupido come quesito.
Lei annuì e si ficcò le mani nelle tasche dell'impermeabile.
«E' successo qualcosa? Ti hanno licenziata? Tuo fratello? I tuoi genitori?», ipotizzai.
Continuò a camminare in silenzio, scalciando i sassolini presenti sul viale. Non potevo vedere ciò che le frullava nel cervello, ma a giudicare dal suo silenzio e dal modo in cui teneva le sopracciglia perennemente aggrottate doveva esserci un bel casino lì dentro.
«Molto peggio...», soffiò.
Le lanciai uno sguardo interrogativo e allarmato.
C'erano cose ben peggiori di ciò che le avevo elencato, questo era certo, ma ero più che sicura che poche cose avevano la reale capacità di sconvolgere una come Mya Atson.
E chissà perché la prima cosa che mi venne in mente fu il pensiero della morte di qualcuno.
Le misi un braccio intorno al suo, così da sorreggerla sia fisicamente che psicologicamente.
«Me ne vuoi parlare?», le chiesi cordialmente, svoltando per un'altra via in fondo alla quale avremmo trovato casa mia.
Non sapevo perché la stessi portando lì e perché in quelle condizioni, visto che probabilmente avrei trovato mia madre in casa la quale avrebbe potuto dare di matto e ordinarmi di riportarla indietro e di incontrarci solo quando sarebbe stata più sobria, ma in quel momento, se il mio istinto mi stava trascinando lungo quella via, evidentemente era perché era giusto così.
«Si è aperto l'armadio», dichiarò, poi mi lanciò un'occhiata preoccupata ed annuì seria.
Stava dando i numeri.
«Non c'è nessun armadio qui, Mya. Di cosa stai parlando?».
«Il mio armadio», sussurrò.
Corrucciai la fronte, confusa.
«Che intendi dire? Okay, ho capito, il tuo armadio si è aperto», cercai di assecondarla così da poterne ricavare qualcosa. «Ma non devi preoccuparti, sai? Probabilmente hai lasciato tu le ante aperte, non appena tornerai a casa e starai meglio le richiuderai», la rassicurai, sorridendole, ma lei si fermò all'improvviso e si voltò verso di me.
«Io non avrei mai lasciato l'armadio aperto... L'ho sempre richiuso perché altrimenti lui sarebbe uscito fuori».
Okay, adesso non la seguivo più davvero. Lui? Lui chi?
Scossi la testa.
«Tu non capisci», riprese a camminare da sola ed io dovetti inseguirla per poter tenere il suo passo.
Intravidi casa mia e la sospinsi in quella direzione, finché non valicammo il giardino e fummo davanti alla porta.
«Perché siamo a casa tua, Nana?», chiese confusa, passandosi una mano sulla fronte.
«E' il primo posto che mi è venuto in mente pensando a dove potessi farti stare meglio», suonai il campanello ed attesi che qualcuno venisse ad aprirmi, ma nessuno venne.
Poggiai l'orecchio contro la porta di legno pitturata di bianco, ma dall'interno non provenne alcun rumore e nessuno si accinse ad aprirmi; capii di essere sola solo quando, al secondo tentativo, tutto continuò a tacere, ragion per cui infilai una mano dentro il vaso in terracotta posto alla mia sinistra, tirai fuori le chiavi d'emergenza ed aprii io stessa la porta.
La richiusi alle nostre spalle, le posai le mani sulle braccia e le sfilai l'impermeabile.
«Hai freddo? Vuoi che accenda un po' il camino?».
Io stavo per crepare di caldo, ma lei sembrava stare tutt'altro che bene.
«In realtà ho bisogno di fare una doccia», chiarì.
Arrossii leggermente e mi sentii stupida l'istante dopo.
Posizionai due ceppi grossi al centro del camino, diedi fuoco ad un giornale di carta e lasciai che il fuoco prendesse spazio tra i tronchetti, poi le feci cenno di seguirmi.
Le girava forte la testa, non riusciva nemmeno a salire le scale da sola...
L'accompagnai fino al bagno e la feci sedere sul coperchio della tazza.
«Vado a prenderti della roba pulita», dichiarai.
«Tutto, ma non quell'ape che saltella sui capezzoli».
Roteai gli occhi e, mio malgrado, sorrisi.
«Prenderò il reggiseno più grande che ho», la rassicurai, sapendo perfettamente di essere molto più minuta di lei anche in quel senso.
Mi rintanai in camera mia, tirai via il cassetto della biancheria intima dai binari, scartai ciò che mi sembrava meno appropriato e alla fine scelsi un reggiseno nero - una seconda abbondante che, ad ogni modo, le sarebbe sempre andata stretta, ma meglio di niente - e un paio di mutandine dello stesso colore. Rimisi il cassetto al suo posto, aprii l'armadio in cerca di qualcosa di comodo, tirai via da una gruccia una T-shirt grigia e infine scelsi un paio di pantaloncini bianchi e delle calzette dello stesso colore. Portai tutto in bagno, ma quando entrai i suoi jeans erano sul pavimento, l'impermeabile a cavallo del lavandino e lei era intenta a togliersi la maglietta.
Non appena se la sfilò mi resi conto di essere di fronte ad una Mya semi-nuda per la prima volta, ma la cosa che mi sconvolse di più è che... apprezzavo da impazzire ciò che stavo vedendo.
Le guance mi si tinsero di rosso, i miei occhi vacillarono veloci dalla pelle perfettamente liscia e levigata del ventre a quella soda e rotonda dei seni, ben incastrati dentro un reggiseno a fascia.
La pelle era così chiara da sembrare trasparente, un rosa talmente pallido da essere bianco, le gambe apparivano lisce e perfette, senza alcun difetto.
La cosa che però mi fece totalmente impazzire fu quella spruzzata di lentiggini più o meno scure sulle spalle, le quali si protendevano anche più in basso ma in minor consistenza e in egual modo anche sul naso e sulle guance.
Sembrava piccola, indifesa, morbida, profumata, dolce...
Chissà che sapore ha la sua pelle...
Scossi la testa rapidamente e nel farlo mi resi conto di un dettaglio che fino a quel momento mi era sfuggito, il quale mi distrasse rapidamente dai miei precedenti pensieri: la spalla destra sfoggiava un tratto di pelle cicatrizzato, più lucido ed irregolare, quasi esposto.
D'istinto allungai una mano.
«Non toccarla!», urlò, spingendosi indietro col bacino lungo la tazza e incrociando le gambe al petto, nascondendo il viso dietro le ginocchia.
Posai tutta la roba pulita su una mensola, raccolsi le sue cose e le posizionai in un angolo, poi tornai da lei e le toccai la nuca con delicatezza, confusa e mortificata.
«Scusami, non volevo ferirti. E' solo che tu non parli mai di chi sei davvero e a volte compio lo stupido errore di cercare di capirlo da sola...», la sfiorai lungo l'attaccatura dei capelli e lei sospirò. «Perché te ne stai sempre in silenzio e perché quando parli ti limiti a fare del sarcasmo senza mai svelare veramente qualcosa di ciò che sei», pensai ad alta voce, fissando la parete alle sue spalle.
Che fosse ubriaca era ovvio, la Mya sobria che avevo conosciuto io non avrebbe mai ammesso di aver bisogno di qualcosa, nemmeno se si fosse trattato di una doccia come in quel caso, e non si sarebbe lasciata vedere di certo mezza nuda dalla sottoscritta.
Inoltre, in qualsiasi caso, anche in punto di morte, Mya non si sarebbe mai mostrata fragile e debole al mio cospetto come in quel preciso istante.
Restava la solita ragazza alta e slanciata, intelligente e arguta, stronza e un po' acida... Ma improvvisamente tutto ciò che avevo appreso su di lei aveva assunto una luce diversa, fu come se per la prima volta avessi intravisto un barlume di verità dietro tutti i suoi atteggiamenti e le sue parole.
Lentamente portò di nuovo i piedi sul pavimento e si allungò verso di me, poggiando la testa all'altezza del mio stomaco, poi stese le braccia e le posò ai lati dei miei fianchi, stringendomi a lei.
«Mi manca il respiro», sussurrò con voce strozzata.
Sbarrai gli occhi.
Erano le stesse parole di quel messaggio, quello che non ero riuscita a decifrare, quello che mi aveva tolto ore di sonno senza che riuscissi a capire da dove fosse partito, visto che il suo telefono era risultato spento.
Le posai le mani dietro la testa e la strinsi delicatamente.
E in quel momento pensai che forse quella era la vera Mya. Non quella che faceva tanto l'arrogante, non quella sfacciata, non quella sarcastica, acida, pungente e presuntuosa... ma quella fragile, debole, umana, vulnerabile, forse perfino ferita, ammaccata e sanguinante.
Lì, di fronte a me, quell'abbraccio valeva più di tutte le parole che c'eravamo scambiate fino a quel momento, più di qualsiasi gioco delle "quindici domande", più di qualsiasi tentativo di conoscenza, più di qualsiasi scavo nel passato, più di qualsiasi frase detta a caso o messaggio indiretto.
Quell'abbraccio nascondeva le parole sincere e spezzate che Mya Atson non mi avrebbe mai detto, ma che in quel momento stava cercando di trasmettermi.
Mi vennero gli occhi lucidi per un attimo, ma cercai di stringere le viscere e di non farmi scappare nemmeno un respiro di troppo per non farle capire nulla.
«Non ti può succedere niente, Mya. Ci sono io qui con te, ti proteggo io», le sussurrai.
Mi chinai verso di lei e le baciai la testa, carezzandole sempre le spalle e tenendola stretta a me.
Forse mi aveva mandato quel messaggio ma se n'era pentita, e allora aveva deciso di spegnere il cellulare per farmi credere che fosse stato un errore e che non era stata lei ad inviarlo... Forse aveva avuto bisogno di me, aveva trovato il coraggio di chiedere aiuto, ma subito dopo aveva avuto paura e si era impegnata affinché credessi che in realtà non aveva affatto necessitato della mia presenza o del mio supporto.
«E' uscito dall'armadio», sussurrò nuovamente e in quel momento un singhiozzo le spezzò la voce, congelandomi il sangue nelle vene.
Dio mio... stava piangendo...
Non avrei dovuto sorprendermi, dopotutto era un essere umano anche lei, ma forse la sua impenetrabilità e la sua freddezza mi avevano convinta del fatto che lei era una di quegli insensibili pezzi di ghiaccio che non piangono mai. O almeno, non mi sarei mai aspettata di vederla piangere di fronte a me.
«Chi è uscito dall'armadio?», le chiesi.
Finché non si fosse fatta una doccia e non si sarebbe schiarita le idee non avrebbe smesso nemmeno per un attimo di biascicare pensieri senza senso.
Sapevo cosa dovevo fare, ma non mi ritenevo abbastanza capace da farlo. O perlomeno, abbastanza capace da farlo senza tremare.
Allungai incerta le mani ed afferrai i ganci del suo reggiseno con incertezza.
Mi tenne le mani sui fianchi e allontanò leggermente il viso dalla mia pancia, senza smettere però di lacrimare.
Riuscii a sganciare il primo gancio e le passai i pollici sotto gli zigomi, raccogliendo due lacrime.
«Di che armadio parli?», la interrogai nuovamente, cercando di concentrami maggiormente sul nostro discorso piuttosto che su quello che stavo facendo.
«Il mio armadio... Io l'avevo chiuso, davvero, quando la nostra storia è finita io ho chiuso l'armadio, ma adesso si è riaperto e lui mi vuole mangiare...».
Ansimò, spaventata.
Aggrottai le sopracciglia, realmente scombussolata; riuscii a sganciare anche il secondo gancio e lasciai che il reggiseno cadesse sul pavimento, senza guardarla nemmeno per un attimo. Allungai un braccio verso la vasca da bagno ed azionai il pomello dell'acqua calda, le sollevai il viso con due dita e le carezzai una guancia, sorridendole con dolcezza.
Non riuscivo a guardare in quegli occhi. Era come se si fosse appena tolta la sua maschera giornaliera e mi stesse mostrando ciò che in realtà era costretta a nascondere ogni giorno al di sotto solo per non mostrare quanto fragile e debole fosse.
Era piccola e spaventata. Ed io mi sentivo impotente di fronte a tutto quel dolore.
Si passò una mano sotto gli zigomi e tirò su col naso, guardando altrove come a voler recuperare il contegno perso.
Le accarezzai di nuovo una guancia e lei ci poggiò sopra il viso, chiudendo gli occhi.
Dio...
«Questo discorso non ha senso, Mya... Non c'è nessuno nel tuo armadio che vuole mangiarti», cercai di tranquillizzarla, ma subito un brandello della nostra conversazione avuta durante la notte del rave party a scuola mi tornò in mente.
Può sembrare che non abbia alcun sentimento, ma non è così. Alcune cose mi hanno ferito in passato, e certe volte i mostri che ti tormentano tornano a trovarti, Nana, tutto qui. Adesso dormi.
A volte dobbiamo solo trovare il coraggio di impugnare la spada e di farli a pezzi, Mya. E' complicato, perché nessuno può farlo al posto tuo, ma qualcuno può darti la forza che ti serve quando non vuoi più brandire la tua arma. Buonanotte.
Ecco cosa intendeva.
Qualcosa era tornato dal suo passato e la stava tormentando.
Ed io? Io ero il coraggio che le serviva per brandire la spada e fare a pezzi qualsiasi cosa fosse.
O forse stavo svalvolando? Forse era tutta una mia stupida immaginazione, un viaggio mentale senza senso che avrei fatto meglio a dimenticare in fretta? Eppure Mya non era una che fingeva il dolore, di certo sapeva fingere bene l'allegria - visto come l'avevo conosciuta io e visto cosa in realtà aveva dentro -, ma non il dolore.
Quindi? Era questo che stava cercando di dirmi? Dammi le mani e salvami?
«Chiunque sia uscito fuori dal tuo armadio non importa. Noi lo sconfiggeremo, okay?», cercai il suo sguardo, determinata, e la trovai timorosa. Non m'importava che non si fidasse di me - chi, al suo posto, l'avrebbe fatto? -, a me interessava avere ben chiaro in mente quale sarebbe stato il mio ruolo da quel momento in poi.
Lei annuì appena, poco convinta, ed io la presi per le mani e l'aiutai a rialzarsi.
Sapevo bene che non avrei dovuto farlo, sapevo che era sbagliato e sapevo che sarebbe stato meglio voltarsi, ma guardarla per intero, non appena mi fu davanti, si rivelò inevitabile.
Aveva un seno prosperoso e perfetto, lungi dal mio, le ossa delle clavicole in evidenza, un neo scuro e rotondo accanto al capezzolo destro, i fianchi perfetti e i muscoli dell'addome tesi.
Sospirai, deglutendo.
«Dovresti... dovresti togliere le...», mi grattai la nuca, arrossendo, indicandole con un gesto veloce le mutandine che ancora indossava. «Così posso farti entrare nella vasca e assicurarmi che non scivoli, prima di uscire».
Strinsi gli occhi, dandomi della stupida: restavo lì per vederla entrare, ma non restavo per assicurarmi che non si facesse male o che battesse la testa durante tutta la durata del bagno? Una ragazzina imbarazzata può ragionare davvero coi piedi, certe volte...
Continuai a tenerla per un braccio, mentre lei si sfilava l'ennesimo indumento, tenendo gli occhi talmente chiusi da fare male.
Sentivo le guance in fiamme.
Tirò su col naso e la sentii ridacchiare.
«Quanto sei esagerata...», decretò.
Battei un piede sul pavimento, nervosa, mordendomi il labbro inferiore.
«Finito?».
«Puoi aprirli, gli occhi».
Scossi la testa con energia.
«Finito», soffiò. Aprii gli occhi e mi voltai verso la vasca da bagno, sentendo la pressione sanguigna aumentare, le guance riscaldarsi, il cuore battere più veloce.
Cristo, che bambina stupida!
L'aiutai a sedersi in fondo alla vasca, poi afferrai il diffusore, regolai l'acqua in modo che fosse tiepida e glielo passai.
«Resteresti?», domandò, guardandomi negli occhi con una tenerezza disarmante.
Si strinse le ginocchia al petto, ci appoggiò sopra la testa, si sfilò gli occhiali e chiuse gli occhi.
«Non so se...», lanciai uno sguardo alla porta, poi di nuovo a lei.
«Ti prego. Ho freddo e non so più cosa significhi avere qualcuno che si prenda cura di me da un secolo, ormai...».
Decisamente, Mya non avrebbe mai, mai, mai, nemmeno sotto tortura, ammesso quelle cose.
Deglutii, cercando di cacciare via il nodo che mi si era appena stretto in gola, e mi sedetti sul bordo della vasca, passandole l'acqua sulla testa, tra i capelli.
Le massaggiai lentamente il collo e le spalle, ritrovandomi ad osservare minuziosamente ogni millimetro della sua pelle, le ossa che sporgevano in alcuni punti, le macchioline provocate dal sole, le lentiggini sparse qui e là, i nei scuri, le vene in evidenza sotto l'epidermide quasi trasparente, ogni vertebra esposta, la piega scura e abbondante delle labbra, la linea morbida e rotondeggiante del naso, le ciglia lunghe...
Al tatto la sua pelle era liscia e morbidissima, come quella di una bambina appena nata; le cosparsi la schiena di bagnoschiuma di felce e la insaponai piano piano, cambiando posizione a seconda dei punti che mi interessavano, cercando di essere il più delicata possibile.
Sollevò lo sguardo e puntò i suoi occhi, stranamente più scuri del solito, sui miei, scrutandomi a fondo col viso poggiato contro il palmo di una mano.
«Che... che c'è?».
«Sei bellissima».
Strabuzzai gli occhi.
«E tu davvero tanto ubriaca», le sorrisi, passandole le mani insaponate sul collo.
«Lo penso davvero che sei bellissima», sussurrò, richiudendo gli occhi.
Mi sciacquai le mani, presi le sue e vi lasciai scivolare sopra dell'altro bagnoschiuma.
Molti dicevano che alle parole degli ubriachi puoi sempre credere, perché sono le più sincere... poteva essere davvero così, anche in quel caso?
«Ci pensi tu al resto...?», arrossii e lei rise leggermente, poi cominciò ad insaponarsi chiudendo le mani a coppa sul seno, muovendole in circolo e pressandole lungo tutta la pelle.
Mi voltai dall'altra parte e fissai un punto lungo la porta, cercando di distrarmi dalle sensazioni di imbarazzo e disagio, ma allo stesso tempo di eccitazione e di piacere, che mi stavano attraversando.
«Sono scappata come una codarda, io...», sussurrò all'improvviso.
Non mi voltai poiché sentivo che si stava ancora lavando, ma aggrottai le sopracciglia confusa.
«Che intendi?».
«Sei mesi fa», regolò il pomello dell'acqua calda e si sciacquò.
Mi strinsi le ginocchia al petto, poggiai la schiena contro la vasca da bagno e la testa sulle ginocchia.
In una situazione più "sobria" non avrei potuto approfittare della situazione tartassandola di domande o insistendo su alcuni aspetti della sua vita, anche perché non mi avrebbe permesso di toccare i suoi nervi scoperti; sapevo benissimo, inoltre, che era sbagliato farlo anche in quel momento, visto il suo stato di debolezza, ma una vocina interiore mi suggerì che se non avessi approfittato di quell'attimo per chiederle quante più cose possibili su di lei e su tutto ciò che la riguardava, probabilmente non avrei più avuto nessun'altra possibilità.
«Da cosa sei scappata?», chiesi incerta, con la voce che tremava e il cuore che pompava adrenalina.
Sentivo di starla violando.
«Da lei... Ero arrivata al limite e mi sentivo ferita», si spruzzò dell'altro bagnoschiuma sulle mani. «Io l'amavo, ma non me lo meritavo, giusto?».
«Giusto», annuì solennemente, chiudendo gli occhi. «E dove sei andata?».
Ricominciò ad insaponarsi in silenzio ed io trattenni il fiato per paura che da un momento all'altro la sua parte razionale tornasse a farsi sentire e mi sbattesse fuori dal suo mondo privato.
Dieci, nove, otto, sette, sei...
«Non mi va molto di dirtelo».
Deglutii, arrossendo.
Come volevasi dimostrare.
Brava, Ally, davvero intellingente. Che stupida.
Cercai di respirare nuovamente mentre lei sembrava rilassarsi sotto un nuovo getto d'acqua.
«Non fa niente, Mya. E invece... come mai hai tagliato i ponti con i tuoi genitori?».
Era il mio ultimo tentativo. Se avesse ribadito che non le andava di dirmi nemmeno quello, allora avrei mandato al diavolo il mio stupido piano e me ne sarei stata zitta per il resto del tempo.
Rise, sdraiandosi lungo tutta la vasca da bagno, incrociando le gambe come in posizione fetale e mettendosi le mani di fronte al viso.
Distolsi immediatamente lo sguardo, rossa come un peperone.
«Secondo te perché, Nana?», rise ancora.
«Perché tu sei...».
«Esatto! Perché sono lesbica, perché mi piacciono le donne, perché mi piacciono le tette, le belle gambe e la...!»
«Ehm, qui c'è lo shampoo!», la incalzai velocemente, rimettendomi in ginocchio di scatto e versandole il composto tra i capelli corti, cominciando a massaggiarglieli.
Si rilassò immediatamente, smise di ridere e chiuse gli occhi; ebbi l'impressione di aver appena scoperto la cura a tutti i suoi attacchi isterici, nervosi e rabbiosi.
«Non ti hanno accettata?», azzardai.
Scosse la testa in silenzio.
«Ti hanno fatto del male?», mi preoccupai e inconsciamente le sfiorai con due dita sotto le orecchie.
Sospirò lentamente, poi scosse la testa.
«Non fisicamente».
Annuii e le sciacquai i capelli.
I minuti seguenti passarono nel totale silenzio: passai un accappatoio a Mya, lei ci si avvolse e si strinse le braccia al petto, sedendosi nuovamente sulla tazza.
Le passai un'asciugamano con cui si avvolse la testa e un'altra con cui pensò al resto del corpo, le mostrai i vestiti che avevo scelto e che avrebbe dovuto indossare, mi assicurai di avere tutto sotto controllo e poi scesi al piano inferiore.
Una fame incredibile si stava impossessando della bocca del mio stomaco e dovevo per forza soddisfarla, altrimenti mi si sarebbe scavata un'enorme voragine nel petto, me lo sentivo.
Tirai fuori dal frigorifero i cartoni di pizza fredda rimasti dalla sera precedente e li ficcai dentro il microonde, impostando il calore al massimo; scelsi una tovaglia da tavolo dal secondo cassetto in basso, afferrai due bicchieri e due piattini di plastica e m'infilai sottobraccio una bottiglia d'acqua naturale, poi risalii il primo piano fino ad arrivare in camera mia.
Sistemai tutto sul mio letto ed accesi la tv, controllando che tutto fosse al suo posto. Sbirciai Mya per assicurarmi che stesse bene e la vidi intenta a centrare con la gamba sinistra la parte della tuta riservata a quest'ultima, così mi diressi di nuovo al piano di sotto, tirai fuori le pizze dal microonde e le portai in camera mia, sistemando i cartoni sul letto.
Pochi secondi dopo Mya fece capolino in camera con i capelli corti quasi del tutto asciutti e lo sguardo un po' smarrito. Si sedette sul bordo del letto, quasi timidamente, ma dopo un po' cominciò a mettersi comoda fino ad acciambellarsi al centro.
Borbottò qualcosa, il nome di un programma di cui non riuscii a cogliere nessuna lettera visto come ingurgitò la prima fetta di pizza senza nemmeno attendere che io le mostrassi i condimenti o mi sedessi con lei.
Ingoiò, sorridendo.
«Glee», pronunciò.
Feci un po' di zapping da un canale all'altro fino a trovare il programma che lei desiderava, e quando saltellò sul sedere un paio di volte facendo dei gesti strani sul posto mi resi conto di averlo finalmente trovato.
Mi sedetti accanto a lei e tirai fuori la pizza dal secondo cartone; mi passò una mano sulle spalle e mi strinse leggermente a sé, poi mi poggiò le labbra tra i capelli, mi diede un piccolo bacio che mi fece arrossire non poco e sussurrò: «Grazie, piccola».
~∞~ Mya Pov. ~∞~
Le sbronze, quelle brutte, non passano né con i wuffle, né con le docce, né con quattro ore piene di sonno. Mi ero addormentata sul letto di Ally dopo aver mangiato almeno una pizza intera e metà della sua e lei mi aveva semplicemente lasciata dormire. Ero più che sicura di aver russato, di aver scalciato e di aver fatto la lotta coi canguri australiani, viste le condizioni del suo letto al mio risveglio.
Ally aveva insistito per accompagnarmi fino a casa, poiché era convinta che fossi ancora ubriaca esattamente tanto quanto il mattino, ma sebbene cercai di dimostrarle che stessi molto meglio non ci fu comunque verso di convincerla a restare a casa.
Mi rassicurò sui miei vestiti, dicendomi che li avrebbe lavati lei e che me li avrebbe ritornati, ma asserendo ciò il rossore sulle guance la tradì ed io capii immediatamente che più che per gentilezza stava facendo ciò solo per assicurarsi che ci saremmo riviste.
Mossa astuta, se non fosse stata così timida. Avevo fatto finta di niente e avevo solo annuito.
Avevamo aspettato insieme l'autobus ed io mi ero persa ad ascoltarla canticchiare: aveva una voce così sottile e squillante che ogni nota le uscisse di bocca appariva corretta e pulita.
Chiamò un amico ed annullò la loro uscita serale, senza ascoltare me che la pregavo di andare a divertirsi e di lasciarmi tornare a casa da sola: cocciuta come un mulo.
Tutto il tragitto fu più o meno rilassante, il conducente dell'autobus aveva messo su una canzoncina leggera che per un attimo rischiò di farmi addormentare di nuovo contro il finestrino; Ally di tanto in tanto mi aveva lanciato qualche occhiata preoccupata, ma poi, in assenza di miei attacchi isterici, si era calmata godendosi il viaggio.
Non mi ero entusiasmata granché all'idea che tornasse a casa di nuovo in autobus da sola, ma aveva insistito così tanto che persuaderla era stato impossibile, e alla fine l'aveva avuta vinta.
«Sai, Mya, qualsiasi cosa ti sia successa in passato è passato, lo dice la stessa parola», aveva detto e poi mi aveva poggiato una mano sulla coscia, per rassicurarmi, ma senza volerlo mi aveva riportato in testa mille pensieri che fino a quel momento ero riuscita a lasciar fuori. Avevo guardato fuori dal finestrino in silenzio e, non appena era toccato a me scendere, le avevo baciato la fronte con delicatezza e le avevo semplicemente detto: «Sì, ma ci vuole un po' prima che il passato diventi, effettivamente, passato. Buonanotte, Nana e grazie di non avermi lasciata a crepare in quel bar», poi avevo sorriso ed ero andata via, imitandole con le mani un gesto più che eloquente il quale voleva dire tieni gli occhi ben aperti e stai attenta.
Mi aveva sorriso, aveva annuito appena e si era mordicchiata il labbro inferiore con dolcezza e leggero imbarazzo.
Adoravo quella ragazzina, era una bambina tanto quanto era donna.
Fingere che andasse tutto bene, fino a quel momento, mi era riuscito benissimo, ma non appena varcai la soglia del mio appartamento il mio sorriso falso si spense e il mal di testa che avevo ignorato fino a quel momento cominciò a pompare contro le tempie.
Sistemai camera mia per bene, azionai una delle stufette componibili in un angolo della stanza, accesi la tv, misi il telefono a caricare e sistemai le coperte per bene, pronte ad accogliermi.
Mi diressi in cucina per prendere una bottiglia d'acqua fresca, ma non appena aprii lo sportello del frigorifero qualcuno suonò alla mia porta.
Aggrottai le sopracciglia, confusa: forse era Ally, magari era scesa dall'autobus perché non se la sentiva di lasciarmi nemmeno dormire da sola, forse aveva intenzione di restare a casa mia perché aveva paura che avrei potuto combinare qualche pasticcio.
Mi diressi a passo di formica verso il portone, il campanello suonò un altra volta nel frattempo, e quando urlai un "arrivo!" e feci scattare la serratura, tirando la grossa porta verso di me, il viso che i miei occhi registrarono non fu quello di Ally né della vicina, né di John né di nessun altro. Perché lì, di fronte a me, con gli occhi troppo cerchiati di nero e i capelli allacciati alla bell'e meglio sotto la nuca, c'era Scarlett Manson.
Il cuore mi balzò dritto in gola ed ebbi la terribile sensazione di star per vomitare lì ai suoi piedi. Fu come se qualcuno mi avesse infilato una mano nelle budella e si stesse divertendo ad intrecciare il tubo dell'intestino.
Deglutii, cercando di trattenere il senso di nausea; mi poggiai allo stipite della porta, tolsi il tappo alla bottiglia d'acqua e bevvi un sorso senza staccare gli occhi dai suoi, dopodiché tornai a reprimere il mal di testa e ad indossare il mio falso sorriso.
«A cosa devo questo onore?», la squadrai, cercando di restare impassibile.
Indossava un paio di scarpe di pezza bucherellate, delle calze di spugna fino a metà coscia e dei pantaloncini fluo sotto un'enorme felpa rossa. Non è che se ne intendesse molto di colori, e nemmeno di come accoppiarli.
Eppure era sempre lei, la solita ragazza dalla faccia arrabbiata col mondo e dal sorriso spento ma temerario di cui ero stata innamorata tempo fa.
Mi sorrise e mi poggiò una mano sullo stomaco, spingendomi dentro l'appartamento, dando un calcio col tacco della scarpa alla porta e schiacciandola verso la serratura.
Fu come se quel qualcuno tanto felice di giocare con le mie budella avesse appena tagliato un pezzo di me e l'avesse ricucito all'incontrario.
Quella mano, anche attraverso la maglia, fu come un'ustione di terzo grado sulla pelle, bruciava come le fiamme dell'inferno... E non perché la desiderassi, ma perché mi faceva terribilmente male vederla lì, osservare ogni tratto di lei e ricordarmi in un nano secondo milioni di cose diverse, e pensare, al contempo, di averla persa per sempre.
Per colpa sua, ovviamente, ma era pur sempre stata una storia importante per me.
«Come te la passi, Mi-mi?».
Mi-mi... Da quanto tempo non sentivo quel soprannome.
Sapevo che non aveva scherzato quando, due sere prima, mi aveva chiamato alle cinque e un quarto del mattino per dirmi: "Ti ho trovata e tornerò da te", ma speravo vivamente che si riferisse unicamente al mio numero telefonico e non al mio indirizzo.
Avevo passato in modo pessimo i due giorni successivi, il primo standomene rintanata tutto il tempo sotto le coperte per paura che, uscendo di casa, avrei potuto incontrarla ad ogni angolo, e il secondo, cioè quel giorno, a bere alcol fino al ritardo mentale.
La paura che potesse ripresentarsi nella mia vita senza il mio permesso aveva completamente atrofizzato la mia capacità di reagire e di essere razionale e quello era il risultato finale.
Ora quella paura si era trasformata in concretezza, e per quanto ero debole sentivo che sarei potuta scoppiare a piangere da un momento all'altro.
Il mio armadio si era davvero, davvero aperto.
«Meglio, da quando te ne sei andata», risposi improvvisamente, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Aprì il mio frigo e tirò fuori una birra, la stappò col manico di una forchetta e lanciò il tappo dentro il lavello.
Mi rivolse uno sguardo a metà tra il ferito, l'arrabbiato e lo strafottente e mi sorrise, la luce fioca proveniente dal frigorifero le illuminò metà viso rendendola ancora più inquietante.
«Ne sono sicura, ti starai scopando tutta la città».
Ridacchiai amaramente.
«Oh, sì, tu sì che mi conosci bene», annuii e le diedi le spalle, dirigendomi verso camera mia.
Feci un enorme sospiro mentre lei non poteva osservarmi in viso e cercai di mantenere la calma, ma il battito del mio cuore mi tradiva.
La sentii bere ed avanzare lentamente verso la mia stessa direzione.
«Tanto bene da riuscire a scovare il tuo nascondiglio», bevve di nuovo e mi superò velocemente, infilandosi in camera mia.
Mi stavo innervosendo: non ero al massimo delle mie forze, sudavo freddo, mi doleva la testa e volevo solo andare a dormire. Tutta quella strizza non faceva che aumentare il mio stato di malessere.
«Non mi sono nascosta da nessuna parte, Scar. Si nasconde chi sta scappando da qualcuno o da qualcosa, io non sono scappata via da te. Ho semplicemente deciso che era ora di lasciarti fottere nella tua merda e andare dritta per la mia strada», feci spallucce, mentendo in parte, e l'adrenalina mi si pompò su per le vene.
Si sedette sul mio letto e sorseggiò la sua birra, roteando gli occhi come annoiata. Io me ne rimasi appoggiata alla porta, ben lontana da lei, riflettendo sulla mia effettiva fuga sei mesi prima.
«E qual è la tua strada, mmm? Fartela con una diciassettenne perché ti ricorda il rapporto che avevi con questa, di diciassettenne?», si indicò, sollevando un sopracciglio.
«Il mondo non ruota intorno a te», sputai velenosa. «E poi non me la faccio con nessuno. Non lascerò mai che qualcun'altro mi fotta come hai fatto tu».
«Oh, sì, amavo fotterti».
Si morse il labbro inferiore ed io mi strinsi nelle spalle, guardando altrove e abbassando lo sguardo.
Perché non reagivo?! Perché cazzo non reagivo?! Perché me ne stavo lì, appoggiata alla porta, con lo sguardo basso, lo stomaco in subbuglio, i ricordi nella testa e un lieve rossore sulle guance?! Che mi prendeva, diamine?!
In assenza di mie reazioni si rimise in piedi, poggiò la bottiglia di vetro sulla tv e venne verso di me a passi lenti e decisi.
«Nessuno scappa via da me se io non dico che può farlo. Nessuno mi lascia, al massimo sono io a lasciare gli altri», preannunciò, posandomi due dita sotto il mento e guardandomi dritta negli occhi.
Un incendio nello stomaco...
«Sono curiosa di sapere come hai fatto a scoprire dove abitavo e come hai fatto a conoscere il mio numero di telefono», assottigliai gli occhi e feci un passo indietro, scuotendo un attimo la testa ed allontanando le sue dita.
«Ho rubato il tuo numero dalla tasca dei jeans di quella sfigata di Ally. Per quanto riguarda l'indirizzo, mi è bastato pedinare sempre lei per arrivare a te e a quest'appartamento. Niente di più facile, se sai giocare bene le tue carte».
Si sfilò velocemente la felpa e la gettò sul pavimento, mostrando il seno rotondo e morbido che conoscevo alla perfezione senza veli.
Distolsi lo sguardo e feci un altro passo indietro, pronta a scappare, ma lei mi afferrò per la maglia e mi spinse sul materasso, facendomi battere violentemente la testa.
Sentii formicolare alle tempie e il battito del mio cuore accelerò.
«Non fare la stupida», gracchiai. Mi misi a sedere e feci per rialzarmi, ma lei mi afferrò le braccia e me le sbatté ai lati del viso, mettendosi a cavalcioni su di me.
No... Non volevo, non volevo, non volevo...
M'infilò una mano tra i capelli e li tirò leggermente verso l'alto.
«Non mi ami più, Mi-mi?», chiese, la voce melensa e insopportabilmente zuccherata.
Strinsi le labbra ad una linea retta e la guardai dritta negli occhi.
Mi girava terribilmente la testa...
«No». E sapevo di essere sincera.
L'unica cosa che ancora intercorreva tra di noi, probabilmente, era l'attrazione fisica, poiché per me era sempre stata una ragazza stupenda, indipendentemente dal suo carattere e da come si era trasformata, e lo era anche in quel momento.
Ma la odiavo, la odiavo per quello che mi aveva fatto passare, la odiavo perché mi aveva fatto del male e non ero riuscita ad allontanarmi prima di farmi spezzare il cuore davvero, la odiavo perché era stata il mio primo vero amore e mi aveva bruciata, scombussolata, uccisa e lasciata vuota, come un guscio d'uovo sul bancone da cucina.
«Neanche un po'? Non è rimasto nemmeno un po' d'amore nel tuo cuore per la "piccola dagli occhi arrabbiati"?».
E la odiavo anche per quello: perché sapeva qual'erano i miei punti deboli e affondava le dita nelle mie ferite sperando di strapparmi via i nervi dalla carne.
Con un gesto velocissimo - o forse fu lento, ma in quel momento non ebbi i riflessi abbastanza pronti e svegli per fermarla - mi sfilò la tuta dalle gambe e cominciò a muovere lentamente il suo Monte di Venere sul mio.
«No!», urlai quasi, lo stomaco in fiamme.
Diedi una spinta potente coi reni e riuscii a mettermi seduta, ma lei approfittò della piccola distanza che si venne a creare tra i nostri corpi per passare una mano dentro la mia biancheria e cominciare a sfiorarmi il clitoride.
Sobbalzai e cercai di allontanarla da me, spingendola via, ma mi piantò le mani sulle spalle e mi fece sbattere nuovamente contro il materasso, bloccandomi completamente sotto il suo peso.
«Togliti di dosso! Non scoperò con te, Scarlett, non puoi costringermi! Smettila!», mi sentivo così piccola e indifesa, così spaventata e vulnerabile.
Ero sempre stata quella forte e indistruttibile, quella che sottomette ma non si fa sottomettere, e in quel momento invece stavo subendo quasi con violenza qualcosa che avevo pregato non riaccadesse mai più, ma che in cuor mio temevo perché Scarlett era cambiata, non era più la ragazzina rabbia e lacrime di cui mi ero innamorata, quella che non avrebbe mai fatto una cosa del genere: lei, pur di averla vinta, avrebbe fatto qualsiasi cosa.
La sentii affondare un dito dentro di me e d'istinto aprii le gambe, cercando sollievo.
«Troppo tardi», mi soffiò all'orecchio, poi mi strappò la maglietta alla base del seno, mi artigliò le coppe e cominciò a baciare e leccare ogni millimetro della mia pelle e dei capezzoli, facendomi rabbrividire.
«Non... Io non...», balbettai, allungando il collo verso l'alto.
«Ssh, come i vecchi tempi», mormorò, continuando a torturarmi la pelle.
Sentii le sue dita aumentare la velocità del movimento e mi resi conto di essermi bagnata per chissà quale stupido, malsano e ingiusto motivo. Affondò due dita e cominciò a penetrarmi così velocemente da lasciarmi senza fiato.
Strinsi le mani sulle lenzuola, poi tra i suoi capelli, tenendole la testa ferma sul mio seno, e cominciai a piangere.
A piangere, mentre Scarlett mi scopava come i vecchi tempi.
A piangere, perché sapevo che tutto ciò era sbagliato, ma sentire il suo corpo e le sue mani su di me mi era mancato così tanto che solo in quel momento il vuoto che aveva lasciato dentro di me si stava colmando.
A piangere, perché non volevo che mi toccasse, non volevo nemmeno che mi guardasse, eppure stavo cedendo alla familiarità del suo calore... e sapevo che tra pochi minuti si sarebbe alzata, si sarebbe rivestita e se ne sarebbe andata.
E infine, a piangere, perché mi sentivo violata e non avevo la forza di reagire con una forza tale da impedirle di continuare a fare ciò che voleva col mio corpo.
Mi morse lentamente i capezzoli, costringendomi a gemere, poi cominciò a sfiorarmi il clitoride in circolo così veloce da sentirmi vicina ad un punto di non ritorno.
Mi guardò negli occhi umidi e mi baciò con passione e foga, un bacio intimo e totalmente inaspettato che fece sussultare il mio cuore; in quel momento, in quel bacio, vidi racchiusi i nostri due anni d'amore, vidi racchiusa tutta la dolcezza che ormai era assente in lei, e non appena li riaprì e puntò il suo sguardo sul mio scorsi anche un'altra cosa: la vecchia Scarlett, la mia vecchia Scarlett.
E mi aggrappai alle lenzuola, gemendo disperatamente e venendole sulle dita, con le lacrime agli occhi e il viso sconvolto.
Ansimai, in cerca di ossigeno, mentre con una mano mi sfiorava la fronte e il viso, e con l'altra rallentava il suo ritmo.
«Brava», sussurrò, baciandomi all'angolo della bocca.
Tirò fuori la mano dalle mie mutandine e scivolò giù dal letto, rimettendosi la felpa che aveva lasciato cadere sul pavimento.
La gola mi si strinse e mi sentii investita da un'ondata di gelo.
Mi misi a sedere e strisciai fino alla testiera del letto, incrociando le braccia al petto e abbracciandomi con entrambe le mani.
Un singhiozzo mi scosse lo sterno, violento: mi sentivo così vuota, apatica, fredda e sola che avrei potuto morire in quel preciso istante e non avrei rimpianto la vita per nulla al mondo.
Afferrò il suo cellulare da una delle tasche della felpa e compose un messaggio di testo, poi sorrise e rivolse lo schermo verso di me:
Ehi, Ally! Ricordi la ragazza che ha fatto da barista e da DJ all'occupazione? Ci sono andata a letto stasera! E' stato fantastico! Ricorda che nessuno può dirti cosa puoi o cosa non puoi fare, la vita è tua e devi godertela come meglio credi! Io l'ho fatto. ;) Domani ti racconterò tutti i dettagli, non vedo l'ora, sono così eccitata!
«Questo è il mio addio per te, Mi-mi. Tu mi hai dato il tuo sei mesi fa, ma io dovevo per forza salutarti dignitosamente. Nessun rancore, giusto? D'altronde, una relazione come la nostra doveva essere conclusa necessariamente con un po' di fuochi d'artificio», ammiccò ed afferrò la sua birra da sopra il televisore, sorseggiandola.
«Grazie per la birra tesoro, ci si vede in giro», ridacchiò e si diresse verso la porta d'entrata, sbattendola rumorosamente.
Trattenni il respiro finché non udii più alcun rumore, né i suoi passi giù per le scale, né le sirene delle volanti in lontananza, né il motore in funzione di un auto.
Trattenni il respiro finché il dolore lacerante che avevo dentro, e che lei aveva appena moltiplicato, non mi s'infranse nel petto e mi fece scoppiare in lacrime.
I singhiozzi mi scossero la schiena e lo stomaco, vomitai l'anima due volte di seguito e continuai a piangere sulla tazza del water per le due ore successive.
Mi svuotai completamente di tutto, eppure mi sentivo vuota già da prima che il senso di nausea prendesse il controllo su di me.
Stupida, che stupida testa di cazzo ero stata...
L'unica cosa che mi scosse e mi risvegliò fu l'avviso acustico di un nuovo messaggio: quando verificai il mittente in cuor mio sapevo già di chi si trattava, ma mi meravigliai di un suo messaggio a quell'ora tarda della notte.
So che tra di noi non c'era niente... Insomma, tu eri libera di fare ciò che volevi, ma... Penso che mi capirai se vorrò tagliare i ponti con te e con tutta la nostra frequentazione. Io non sono una da una botta e via, Mya. Non sono per le relazioni aperte, e, se non sempre, oggi credo di averti dimostrato quanto tengo a te. Ti sono stata accanto, ti ho accudito, ho rischiato pure di farmi scoprire dai miei e me ne sono fregata di mandare all'aria la mia serata. Perché tu eri più importante. Ma qualcosa stasera mi ha sconquassato lo stomaco. Perdonami, ma le cose stanno così... Auguri con Scarlett, spero che tu possa volerle bene più di quanto ne abbia voluto a me in questo poco tempo. Buonanotte, buon proseguimento di vita.
Avevo appena detto addio definitivamente al mio passato e, grazie a lei, anche al mio futuro.
ANGOLO AUTRICE:
Scusate il nuovo ritardo, ma ormai sapete perché mi ritrovo costretta ad aggiornare tardi e quindi non sto qui a spiegarvi. Volevo solo precisare delle cose: Dana, Shane ed Alice sono i miei personaggi preferiti di The L Word, e ho voluto utilizzare i loro nomi per dargli un piccolo tributo. A volte i personaggi di un telefilm non ti lasciano un cazzo, altre volte invece ti mettono sottosopra il cervello e questo è stato uno di quei casi, per me, quindi ho voluto condividerlo con voi.
- Per quanto riguarda "l'armadio" di cui parla Mya, spero per tutti che sia chiaro il suo discorso, ma se così non è chiarisco io: il "lui" di cui parla non è altro che il suo incubo personale, cioè Scarlett, e lei si riduce in quello stato pietoso a causa delle chiamate notturne che Scarlett le inoltra per metterle paura e minacciarla quasi.
Ad un certo punto del capitolo dice di aver chiuso l'armadio dopo la fine della loro relazione perché pensava di essersene liberata per sempre e di poter andare avanti con la sua vita, una volta andatosene dal loro appartamento, ma la consapevolezza effettiva di non poterlo fare la uccide e la porta a devastarsi per la paura e il dolore.
Spero di aver chiarito per tutti, adesso :D
- Un'altra chicca sta nella nome Scar: scar significa "ferita" in inglese, e credo che non ci sia nome migliore per una come Scarlett, dopo tutto quello che ha provocato nella vita di Mya. Il nome del capitolo si riferisce sia al suo nome che alla traduzione inglese del termine. :)
- "Dammi le mani e salvami", anche qui traduzione di "Give me your hands and save me" che è il titolo stesso della storia. MA ATTENZIONE: questa frase non è riferita soltanto a Mya, non pensate che tutta la storia ruoti solo su di lei. Più avanti andrà la storia e più vi renderete conto che l'attenzione verrà spostata su Ally.
Per quanto riguarda la parte finale del capitolo: SO CHE ALCUNI DI VOI SARANNO SENSIBILI A QUESTA COSA PIU' DI ALTRI, se avete dei commenti negativi, se volete dirmi che avete provato delle sensazioni brutte leggendo, se non vi è piaciuto quello che avete letto... siete liberi/e di dirmelo. Vi chiedo solo di avere rispetto per questa parte del capitolo perché è veramente tanto delicata per me, e l'ho scritta con le lacrime agli occhi, quindi vi prego di USARE TATTO per qualsiasi cosa vogliate dire.
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