Cap 19: Time passes quickly
Svegliarmi di nuovo ogni mattina col suono trapanante della sveglia nelle orecchie non fu affatto una cosa divertente. Lo scoprii già a cominciare dal primo giorno, quando il cinguettare degli uccellini fu improvvisamente sostituito. Se l'istituzione scolastica si fosse per un solo attimo fermata a chiedersi il perché di tanto stress tra gli studenti, analizzando i milioni di motivi per i quali un adolescente in confusione ormonale, fisica e psicologica avrebbe potuto esserlo, sono sicura che avrebbe trovato in cima all'elenco di tutte le opzioni plausibili l'orario scolastico: decisamente, si iniziava troppo presto. Se solo avessi avuto la possibilità di mettere piede a scuola ogni mattina alle nove, anziché dovermi svegliare alle sette meno un quarto per essere lì in tempo per le otto e dieci, molta stanchezza, sonnolenza, nervosismo e ansia da prestazione sarebbero sicuramente scomparsi. Avrei avuto più tempo per rilassarmi sotto la doccia e magari per ripassare le materie necessarie a superare una brutta verifica. Invece? Eravamo tutti nella merda. Non ci bastava il bullismo, i disordini alimentari, l'acne, il desiderio di emergere e quello opposto di nascondersi, le caste sociali create dagli stessi studenti e tutto lo schifo che veniva a seguire, perfino le ore in meno di sonno!
Sospirai davanti al cornetto caldo che mia madre mi aveva posato sul tavolo accanto ad una tazza di latte caldo. Perché ci metteva ancora le cannucce colorate dentro? Non bevevo il latte con la cannuccia da quando avevo dieci anni. Sospirai ancora: quella donna non avrebbe mai accettato che stavo crescendo e che giorno dopo giorno cambiavo un pezzo del mio passato con una mia azione presente.
«Si ricomincia, eh?», gracchiò lei con la voce ancora impastata di sonno. Le sue mani vagarono dentro il frigorifero in cerca del succo d'arancia, e quando lo trovò se ne versò un po' in un bicchiere di vetro, rimettendo il brik al suo posto.
Scossi la testa, addentando pigramente la sfoglia dolce della brioche, giusto per non restare a stomaco vuoto. E non risposi.
«Sbrigati a mangiare, non puoi arrivare tardi il primo giorno. Ti ho preparato la camicetta rosa sul divano e...»
«Non metterò quella camicetta, ho già scelto cosa voglio indossare», le feci notare, irritandomi. Mi sceglieva anche i vestiti adesso? Cos'è, ero talmente malata di omosessualità da dover necessariamente aver bisogno della mamma? Ero regredita allo stato brado, avevo di nuovo cinque anni e non sapevo più allacciarmi le scarpe? Cristo, non avevo nessun deficit.
«Ma hai sempre indossato quella camicetta ogni primo giorno di scuola, da quando frequenti il liceo... Pensavo volessi farlo anche quest'anno».
Scossi la testa, allontanando sia il latte che il cornetto. Volevo vomitare l'unico boccone che avevo piluccato.
«Le cose cambiano», mi allontanai dal tavolo e strappai la camicia dal bracciolo del divano, appallottolandola nella mia mano e riportandola in camera mia.
Mi richiusi la porta alle spalle, sperando di non sentirla urlare né parlare né sussurrare. Volevo che stesse zitta, che non mi rivolgesse più la parola se non per dirmi: "Ho sbagliato, questa è la tua vita: vivila al meglio e goditi ciò che ha da offrirti, che a me piaccia o meno. Non sono affari miei". Ma sapevo perfettamente che ciò non sarebbe mai accaduto.
Mi tolsi il pigiama, lanciandolo sul letto, guardando il mio corpo seminudo allo specchio. Mi sfiorai la pancia, le cosce, la curva delle clavicole: ero una ragazza nuova. Mi sentivo così diversa rispetto al passato... Non sarei stata più la solita stupida, accondiscendente, che acconsente sempre a tutto tranne che a rendersi felice. Avrei detto no, se mi si fosse presentata l'occasione. Avrei riflettuto sulle cose. Avrei smesso di pensare prima agli altri e poi a me stessa, perché ero stanca di ferire me pur di non ferire chi mi circondava.
Basta così.
Quello era il mio anno. Mi mancavano due mesi alla libertà e volevo essere una persona nuova, a cominciare dal mio ultimo primo giorno di scuola.
Afferrai una maglia blu scuro da una gruccia, indossai un paio di jeans di cotone bianco ed infilai dei sandali di paglia coordinati.
Mi pettinai davanti allo specchio, mi colorai le labbra con del lucidalabbra rosa scuro ed afferrai il mio zaino in pelle marrone, scendendo di fretta le scale.
Chi l'avrebbe mai detto che in così poco tempo avrei trovato ciò che mi piaceva da quell'armadio pieno zeppo di cose che non ero mai riuscita a vedermi addosso?
Non volevo puntare il dito contro qualcun altro quando la colpa principale di ogni mia sega mentale era, appunto, la mia, ma... Riflettendoci, in passato avevo sempre chiesto consiglio a mia madre su qualsiasi cosa, a cominciare dall'abbigliamento, ed era sempre stata lei ad avere il giudizio finale su camicie e pantaloni, quindi probabilmente le mie crisi in merito a quest'argomento derivavano in primo luogo dalla paura di non piacerle mai, di fare sempre scelte sbagliate a cominciare dalle cose più banali, e ciò mi aveva portato a non accettare niente né di me né di ciò che possedevo.
Che fosse arrivato il tempo dell'accettazione? Se ciò implicava sentirsi improvvisamente tanto liberi quanto adulti, beh... allora sì, era decisamente arrivato il tempo dell'accettazione.
Mi diressi all'auto e mi chiusi dentro, attendendo mia madre.
Niente autobus per la malata d'omosessualità, avrebbe potuto evadere dalla prigione ed essere un pericolo per tutte le altre donne etero, possibili vittime della suddetta!
Ma vaffanculo.
Non ci mise molto, ma per tutto il tragitto non fece altro che guardare la strada al di là del parabrezza e ostentare il suo silenzio offeso. Poteva offendersi quanto le pareva, prima si rendeva conto che non ero più la ragazzina insicura del passato meglio era.
Il cielo era plumbeo, zeppo di pioggia che presto non sarebbe più riuscito a contenere; speravo piovesse talmente tanto forte da bloccarci tutti dentro l'edificio scolastico, così non avrei dovuto tornare dentro quella gabbia d'oro.
I cancelli rossi e scoloriti del parcheggio ci accolsero, ma preferii scendere dall'auto prima che mia madre riuscisse a trovare parcheggio. Si fermò e mi permise di saltare giù.
«Io e tuo padre abbiamo deciso di passare dalla chiesa, presto o tardi. Non abbiamo ancora deciso quando. Ti consiglierei di esserci, è tempo di confessioni», ordinò, prima di afferrare il mio sportello e sbatterlo con veemenza contro il telaio dell'auto.
Fece marcia indietro così velocemente da non darmi nemmeno il tempo di rispondere.
Cosa?!
Confessioni?
No, no, no, non volevo confessarmi, non volevo andare in chiesa, non volevo parlare di me con degli uomini di chiesa bigotti e dalla mente chiusa, non volevo!
Ma non c'era un modo di fermare la disperazione che si stava impossessando di me. M'intrufolai, incespicando, dentro l'edificio scolastico e trascorsi la giornata tentando di non pensare alla sua voce fastidiosa che parlava di cose che sarei stata costretta a fare presto.
~∞~
«Entra lì dentro e parla con Gesù Cristo», m'intimò mia madre all'orecchio, spingendomi verso il confessionale, mentre lei e mio padre s'impegnavano in una preghiera senza fine seduti al capezzale di Dio.
Roteai gli occhi.
Due settimane esatte dal mio primo giorno di scuola, dal suo ennesimo tentativo di comandarmi a bacchetta, ecco che si era finalmente decisa a trascinarmi nel Luogo Sacro contro la mia volontà.
«C'è Padre Anselmo lì dentro, non Gesù Cristo, ed è per giunta spagnolo quindi non so quanto capirebbe di ciò che gli direi», mormorai in tono piatto, beccandomi una gomitata e un'occhiataccia.
«Abbi rispetto e vai da lui. Ne hai più bisogno tu di chiunque altro, in questo momento», sputò, un'enorme vena le si gonfiò all'altezza del collo.
Scossi la testa disgustata: davvero mi stava obbligando?
«Non ho niente da dirgli, e sono sicura di essere l'ultima persona che dovrebbe espiare i suoi peccati, qui».
Coraggio, Ally. Pugno duro, fatti valere.
«Ally, non te lo ripeterò un'altra volta. Va' lì dentro e confessati. Purificati da tutte le cose orribili di cui ti sei circondata e chiedi perdono».
Cose orribili? Chiedere perdono? Ma chiedere perdono per cosa? Per essermi innamorata di una donna?! Ricordavo che Dio avesse detto di amare il nostro prossimo, ma non mi sembrava di aver letto che ciò era esteso solo chi era del sesso opposto al proprio.
Alla fine portai le chiappe verso il confessionale, perché non mi andava proprio di sentire mia madre farneticare sugli ipotetici peccati che avevo commesso senza che io, però, ne ricordassi alcuno.
Lanciai un'occhiata alle mie spalle, ma anche nella preghiera lei riusciva a tenere un occhio abbastanza aperto da controllarmi, quindi strinse le labbra e sollevò le sopracciglia a mo' di avvertimento, spronandomi ulteriormente ad entrare nel confessionale.
Sospirai e mi feci coraggio: poteva essere così terribile?
Il confessionale puzzava di sudore e legno marcio, immaginavo le tarme far festa tra le travi antiche. Uno sgabello mezzo rotto serviva a me per accomodarmi, mentre a separare me dal mio espiatore vi era solo una ringhiera di ferro lavorato seguito da una tela grigia.
«Padre perdonami, perché ho peccato», mormorai, rendendomi conto d'avere una voce completamente asettica.
«Che Gesù Cristo sia con te, con i tuoi pensieri e con le tue parole, figliola».
Sospirai.
Cosa dovevo dirgli? Provai improvvisamente due tipi di imbarazzo: uno riguardava il solo pensiero di dover dire ad un estraneo ciò che avevo fatto, pensato o detto ad una donna che amavo con tutta me stessa, e l'altro riguardava il primo, perché mi vergognavo profondamente del fatto che m'imbarazzassi ad essere semplicemente ciò che ero.
Ma dovevo ammetterlo: ritirare la testa dentro il guscio mi faceva sentire molto più al sicuro che tirarla fuori davanti al "nemico". Come biasimarmi?
«Non sono qui per giudicarti, querida», mormorò nella sua perfetta inflessione spagnola ed io sospirai nuovamente.
Come no. Poteva essere un "Padre" quanto voleva, ma era sempre umano: il giudizio si sarebbe formato nella sua mente comunque.
«Ho baciato una donna», sussurrai tutto d'un fiato, col cuore che improvvisamente galoppava più veloce.
Non rispose.
Giudizio, giudizio, giudizio...
Beh, ormai ero in ballo, no? Tanto valeva ballare.
«Mi sono innamorata di lei, le ho dato tutto il mio amore e tutta me stessa. Mi sono concessa».
Mi tremavano le mani. L'imbarazzo stava scomparendo, ma qualcos'altro si stava impossessando di me: la rabbia.
«Quanti anni hai, querida?», ebbi l'impressione che stavolta il suo tono di voce fosse più dolce, quasi melenso.
La sensazione di rabbia crebbe. Sospettavo che da un momento all'altro si sarebbe messo a farmi la predica sui miei errori, giustificandoli con tenerezza solo perché ero una stupida diciassettenne – quasi diciottenne – con gli ormoni in subbuglio. Sì, credevo sarebbe stato l'ennesimo a chiamare il mio amore "una fase di passaggio", e che il suo volto si sarebbe aggiunto alla lunga lista di quelli che giocavano nella squadra di mia madre.
«Diciassette», risposi semplicemente.
Potevo sentire il suo respiro pesante dall'altra parte del confessionale, immaginare il suo pancione sollevarsi e abbassarsi lentamente, la sua fronte spaziosa corrucciarsi per il disappunto.
«Hai fatto pensieri impuri su questa chica?».
Aggrottai le sopracciglia.
Cosa si intendeva per pensieri impuri? Voleva sapere se avevo pensato a lei nuda, magari? O voleva sapere se l'avevo pensata e basta? Perché ero più che sicura che anche solo pensare di poter amare una donna fosse, per la Chiesa, un pensiero impuro.
«Cosa vuole sapere, Padre?».
«Sei tu che devi parlare con Dio, querida, non io».
Roteai gli occhi. Gli bastava chiamarmi "querida" ancora un'altra volta, e sarei scappata via di lì urlando.
«Beh, ho pensato a lei in diversi modi. Ho avuto paura di lei all'inizio perché mi faceva provare delle sensazioni piacevoli, ma che razionalmente condannavo come ingiuste e immorali. Poi col tempo ho pensato che non c'era nulla di male a voler bene ad una donna, ad amarla così come la amo io, e quindi sì, ho cominciato a fare dei pensieri impuri su di lei. Volevo baciarla, volevo toccarle i capelli con tenerezza come fa un uomo con la sua donna dopo averla posseduta. Volevo il suo profumo addosso, volevo assaggiare la sua pelle, volevo che fosse mia. E l'ho avuta per giorni interi, mesi interi, facendomi apprendere in poco tempo cosa vuol dire essere felici. E mi chiedo, Padre, perché tutti questi pensieri devono essere definiti "impuri". Mi chiedo perché devo restare qui ad espiare le mie colpe, quando la mia unica colpa, se così può essere definita, è quella di amare qualcuno».
«Non credere di avere una colpa solo perché ami una donna. Anche molti ragazzi che amano le loro ragazze vengono qui a confessarsi perché hanno fatto dei pensieri impuri su di loro. E' giusto parlare con Dio di questo», cercò di essere quanto più chiaro possibile e di non farsi scappare nemmeno una parola in spagnolo, ma avrei preferito di gran lunga che parlasse nella sua lingua d'origine in modo da non farmi capire niente, piuttosto che ascoltare quell'incoerenza.
Mi scappò una risata amara: incrociai le braccia al petto.
«Loro vengono qui a parlare delle loro donne, ma lei non li tratta come se il loro affetto nei riguardi di queste ragazze sia solo una fase. Definisce i loro atti carnali "peccato" solo perché così devono essere chiamati, ma il loro peccato non è uguale al mio, eppure il mio amore è identico. Perché io vengo condannata e loro no, però? Cos'hanno i loro pensieri impuri in meno dei miei? Cos'ha il mio peccato in più del loro?», mormorai, eppure il suono delle mie domande sembrò trapanare la parete che ci divideva fino a trivellare il cranio del prete. Il silenzio che seguì mi fece comprendere che neanche lui sapeva come rispondermi e che, in fondo, avevo ragione.
«Il loro peccato vale quanto il tuo».
Sorrisi, di nuovo amaramente.
«No, non è vero. Loro sono pur sempre considerati "normali". Cedono alla tentazione e colgono la mela dall'albero, ma sanno sempre come fare per rimetterla al suo posto come se non si fossero mai sporcati le mani col suo succo. Sono attratti gli uni dagli altri, creati per procreare e per questo giustificati. Ma io? Io per la Chiesa sono un abominio. Il mio rapporto con una donna non è finalizzato alla procreazione; i miei pensieri impuri sono più impuri di quelli che un'altra donna può rivolgere ad un uomo e il mio peccato è sicuramente più peccaminoso. Se io cogliessi la mela dall'albero il suo succo mi rimarrebbe comunque incastrato tra le dita, appiccicato alla pelle, non importa quanto proverei a levarlo via. Perché agli occhi di tutti le mie azioni, i miei pensieri e le mie parole sarebbero più eclatanti di qualsiasi altra azione, pensiero o parola, solo perché sono così come sono».
«No es la verdad. E ora prega Dio affinché ti perdoni, così che io possa assolvere i miei compiti e portargli la tua parola».
Non aveva ascoltato neanche una sillaba di ciò che gli avevo detto, e se l'aveva fatto aveva deciso di ignorare ogni cosa. Questo non fece altro che far aumentare la mia rabbia; odiavo non essere ascoltata, odiavo quando i miei pensieri venivano calpestati, quando ciò che dicevo non veniva preso in considerazione. Non avevo mai avuto la forza di lottare per ciò in cui credevo, di solito lasciavo vincere la parola degli altri perché non avevo lo spirito guerrigliero che serviva per farsi valere, ma ultimamente avevo capito che se volevo sopravvivere in quel mondo di lupi pronti a sbranarti anche solo con gli occhi dovevo tirare fuori le armi. E le mie armi sarebbero state le mie parole, le mie convinzioni. Dovevo farmi valere anche solo per un semplice sì o per un semplice no.
In quel momento però, più di ogni altro, desideravo esprimermi e sputare fuori tutta la rabbia che si era accumulata dentro di me come panna montata.
«Sa che c'è? Non devo pregare nessun Dio, perché non c'è nulla da perdonare. Io non ho commesso alcun peccato, il peccato è stato parlare a qualcuno profondamente limitato da convinzioni religiose di sentimenti ed esperienze che vanno al di là di queste stesse, e quindi fuori dalla sua portata! Mi dispiace, Padre Anselmo, è stato un errore parlare con lei», esclamai, la bile in bocca.
Mi rimisi in piedi, pronta ad andare via, ma la sua voce mi richiamò.
«So che è dura, querida, ma dovrai confrontarti con Gesù Cristo un giorno, e se oggi non parli con me affinché io possa riferirgli la tua parola, in futuro lui non ti accoglierà a braccia aperte».
Oh, bene. Eravamo arrivati agli avvertimenti, dunque? Alle minacce? Cosa voleva dire con questo, che dovevo avere paura e che facevo meglio a sedermi, ad espiare tutte le mie ipotetiche colpe fino a che non mi sarei convinta che essere etero a tutti i costi era la cosa migliore?
Non mi piacevano le etichette. Non mi piaceva pormi limiti. Non mi piaceva Padre Anselmo, non mi piaceva quel confessionale puzzolente e non mi piaceva quella chiesa.
E mi aveva appena chiamato di nuovo "querida"!
«Grazie della sua disponibilità, ma lei, come mia madre, non potrà mai capirmi. Amare non è peccato. Peccato è negare d'amare».
E corsi via.
~∞~
Tre settimane dopo la finta confessione – che, perdonandomi il gioco di parole, non venne mai confessata a mia madre – , fui letteralmente costretta a girovagare come una senzatetto in cerca d'asilo per tutte le boutique della città, alla ricerca di un abito che potesse piacermi in vista del mio diciottesimo compleanno.
Perché costretta? Perché mancava ancora un mese, e benché per queste cose il tempo richiesto affinché tutto quadrasse era di gran lunga maggiore rispetto alle solite festicciole organizzate in giardino, scegliere il mio abito un mese prima non mi andava proprio a genio. Sarebbe stata l'ultima volta in cui i miei genitori avrebbero sborsato del denaro per me: volevo scegliere ciò che mi piaceva di più anche se ciò valeva a dire prosciugare interamente i loro soldi fino agli ultimi spiccioli. Mi rendevo conto che era più una vendetta, una ripicca per avermi fatto del male, ma stranamente, vista la mia natura puramente benevola, ciò non mi dispiaceva. Per una volta una cattiveria non mi lasciava la bile in bocca.
Ciò che me la lasciava decisamente era vedere mia madre che fantasticava con la commessa su quanto sarei stata bella, perfetta, smagliante, straordinaria, fiabesca, assolutamente perfetta, ecc, ecc, ecc... A ripetizione.
Potevo benissimo leggere un chiaro: "ma quando sloggia, questa?", negli occhi infastiditi, ma tirati a forza in un sorriso falso, della ragazza dietro il bancone.
Il pomeriggio era decisamente freddo, fuori l'aria sferzava contro il viso non appena cacciavi il naso fuori, e pareva che mille spilli ti pungessero la faccia quando andavi contro vento. Pensai a Mya e mi persi guardando fuori dalle grandi vetrate perfettamente lucide: che cosa starà facendo? Mi pensa? Programma il futuro? E se invece, durante questi mesi di lontananza, ha deciso di andare avanti? Se Scarlett la riconquista?
Non la sentivo da settimane, non eravamo riuscite a vederci e il suo supporto mi mancava immensamente, così come mi mancava lei indipendentemente da qualsiasi cosa avrebbe potuto darmi per farmi stare meglio. Perché non sei con me?
«Oh, anche tu qui!».
Una voce fastidiosamente familiare alle mie spalle mi fece trasalire. Mi voltai leggermente, rigida come uno stecco di legno col torcicollo, e solo quando notai la faccia di Lidia i miei sospetti si fondarono costringendomi ad un sorriso di circostanza.
«Ciao, Lidia...».
Era con sua madre, portava enormi orecchini pacchiani pieni di pendoli e brillanti, aveva i capelli freschi di taglio e un Eau de cologne profondamente irritante.
Sospirai e cercai di trattenere quanta più aria possibile senza inspirare, così da non dover assimilare ancora quello schifo.
La madre di Lidia sorrise alla mia ed entrambe si fermarono a parlare in un angolo, confrontando due abiti corti.
«Che ci fai in questo reparto?», chiese poi, notando il mio silenzio.
Feci spallucce.
«Quello che ci fai tu, immagino... Devo acquistare il mio abito per la festa dei diciotto anni».
Lidia finse di ridere, una risata così forzata e stridula che perfino la commessa, impegnata nel suo lavoro, smise un attimo di sistemare le spalline ai manichini e si fermò a guardarla, scioccata.
«E come ci sei finita nel reparto delle donne?», si portò una mano alla bocca, chiudendola a coppa davanti alle labbra come a volermi confidare un segreto che, in realtà, sputò a voce troppo alta. «I vestiti da uomo sono dall'altra parte della sala, cara. Le lesbiche dovrebbero dare un'occhiata in quella zona lì, sono sicura che ti sentirai più a tuo agio in camicia e cravatta, che in tacchi e bustino!», mi fece l'occhiolino, provocando un tornado con quelle ciglia finte e lunghe più dell'arcata sopraccigliare.
Lasciai andare l'aria solo per trattenerne ancora di più, ma stavolta la causa non fu l'acqua di colonia di Lidia, ma il timore che mia madre avesse potuto ascoltare quella conversazione.
E, ahimè, fu così.
Lanciò uno sguardo mortificato alla madre della Serpe, posò il vestito che aveva custodito in grembo per tutto il tempo nonostante le avessi detto che non era di mio gradimento, mi si avvicinò con estrema calma, si guardò intorno come un nemico pronto a scappare dal fuoco, dopodiché mi afferrò per il giubbotto e mi strattonò fuori dal negozio, trattandomi come un cane.
«Sali in macchina», ordinò.
Ansimai, in preda al panico: il fiato si condensò nell'aria, gli spilli d'acqua mi si conficcarono nelle guance.
Le ubbidii mentre lei prendeva posto dal lato del guidatore; diede vita al motore, innescò la marcia e partì, lasciandosi le boutique del centro città alle spalle e dirigendosi in paese.
«Dove andiamo?», gracchiai, accorgendomi di tremare.
«Dove non sanno quanto sei marcia».
Ahia.
Deglutii lo stesso veleno che mi aveva regalato con quelle parole cariche d'odio, che mi si andò a condensare al centro del petto.
Abbassai lo sguardo.
«Mamma, Lidia mi odia, dice quelle cose solo perché...».
«Come diavolo fa a saperlo?! Chi altro lo sa, eh?! Ma cosa diavolo credi che sia, un gioco? Qui c'è in ballo la tua vita, e tu hai deciso di sputtanarla come meglio sai fare, Ally!», urlò, battendo furiosamente le mani sul volante. Mi faceva paura quando perdeva il controllo in quel modo, non riusciva più a controllare le sue reazioni. «Cosa hai fatto? L'hai baciata per strada? Dove siete state? Chi altro vi ha viste, e a chi hai raccontato tutta questa storia...sporca?!», indugiò, per poi terminare ferendomi ancora.
Cominciavo a credere che, come gli scoiattoli conservassero il cibo in sacche nascoste dentro le guance, anche lei le possedesse ma solo per marinarci dentro il suo veleno.
«Non l'ho baciata da nessuna parte, non ci ha viste nessuno, e nessuno sa niente!», arrossii. Odiavo quando mi domandava i particolari o voleva semplicemente parlare dell'argomento. Mi sentivo come se ficcasse una mano dentro la mia privacy e ne tirasse fuori il braccio imbrattato dei miei segreti.
Accostò immediatamente, le ruote fischiarono sull'asfalto e un auto, alle nostre spalle, piantò le mani sul clacson così a lungo che, nonostante la lontananza, continuammo a sentirlo.
Si slacciò la cintura con una furia implacabile negli occhi, poi si protese verso di me e mi riservò una sonora sberla in pieno viso.
Stordita e per niente preparata, me ne rimasi immobile attendendo che lo stordimento e il bruciore andassero via.
Con la coda dell'occhio la vidi tornare al suo posto, sistemarsi i capelli dietro le orecchie e cercare di prendere un respiro profondo nonostante le mani tremanti e le guance arrossate.
La mia, quella destra, cominciava a diventare rosso fuoco. Abbassai il finestrino quel tanto che bastava affinché l'aria congelata mi rinfrescasse la pelle bollente e ringraziai, per la prima volta in quella mattina fredda, che il vento fosse così gelido come in quel momento.
«Spero che questo sia servito a svegliarti. So che mi odi, ma proprio perché mi odi so che sto facendo il genitore nella maniera corretta. Tutto ciò che faccio, lo faccio per il tuo bene. Non sai a cosa stai andando incontro, ma io sì, Ally», innescò la marcia nuovamente e ripartì, alla volta del paese, mentre il mio cervello, confuso e stanco, si domandava il perché di quello schiaffo gratuito.
E non trovava risposta.
Ero diventata uno sfogo contro la rabbia ormai, un sacco da boxe da prendere a schiaffi quando si voleva. Non avevo nemmeno la forza di reagire, ormai...
«Anche picchiarmi è per il mio bene?».
«Molto più di tutto il resto».
Sorrisi amaramente e mi massaggiai la guancia, che al minimo movimento adesso tirava.
«Non l'accetterai mai, eh?».
Era la prima volta che tiravo fuori il coraggio di chiederglielo, il coraggio necessario ad un piccolo confronto. Rise isterica come se gli avessi raccontato qualcosa di imbarazzante, di fuori luogo.
«Non c'è niente da accettare. Guarirai da questa... cosa. Ritornerai ad essere mia figlia».
«Ad ubbidire, a mettere i vestitini colorati, a fare sì con la testa, a non contraddirti mai, a tornare a casa in orario e a fare tutte quelle cose da vergine casa e chiesa», conclusi, incurante del fatto che avrebbe potuto dedicarmi un altro sonoro ceffone.
Ma nonostante ciò quelle parole arrivarono familiari ai miei pensieri, e ancora più familiari alle mie orecchie una volta esclamate... Chi mi aveva definita così? Scavai tra i miei ricordi, tornando a giorni e a mesi passati, momenti in cui ero stata un'altra ragazza, impacciata, timida, triste... Prima di incontrare quella testa rasata e quegli occhi brillanti, quel sorriso storto e quelle labbra ciliegia...
Mya. Lei mi aveva definita così, la prima volta. Non aveva la benché minima idea di chi fossi, eppure mi aveva già inquadrata... Sorrisi di nascosto, mia madre continuò a parlare ma non l'ascoltai più.
Era facile così, se mi concentravo su pensieri belli, su Mya, sulle sue battutacce...
«... chi altro hai intenzione di invitare?».
«Mmm?»
«Ti ho chiesto chi altro hai intenzione di invitare alla festa, oltre i familiari», roteò gli occhi e svoltò per una strada larga dove gli alberi sembravano sempre più alti man mano che si susseguivano sui marciapiedi chiari.
«Ah... Beh, io... Shane, Alice e Dana...», silenzio improvviso. Mya... Avrei tanto voluto che venisse anche lei, che trovasse una scusa, un modo per esserci. Ma era materialmente impossibile, immaginavo già le forme cautelari che mia madre avrebbe adottato per quella sera ed ero la prima a non volere che si avvicinasse neanche al locale.
Lei scosse la testa come a voler dire: "e poi?".
«Beh? Nessun altro?».
«No, credo...».
«Che ne dici di quel bravo ragazzo con cui sei uscita? I suoi genitori sembrano gente benestante, dalla buona morale... Ti servirebbe uno come lui, per rimetterti sulla giusta carreggiata», sospirò. «Invitarlo al tuo compleanno potrebbe essere un gesto carino per fargli capire quanto ci tieni».
Lacrime di sgomento mi riempirono improvvisamente gli occhi: cominciava a mancarmi il fiato... Non ci bastavano le botte, adesso pure questo...
«Micheal?! Ma io non ci tengo! Non voglio che venga!».
M'ignorò.
«Tuo padre chiese la mia mano proprio il giorno dei miei diciotto anni, sai?».
«PERCHE' MI IGNORI?!».
«E quel biondino? Si chiamava Eric? Carino anche lui».
«Dio mio...», mi presi la testa tra le mani e mi chinai sulle ginocchia, come a volermi proteggere da tutte quelle parole affilate che rischiavano quasi di uccidermi. «Perché mi stai facendo questo?».
«Fare cosa? Stiamo semplicemente parlando, Ally».
Mi tappai le orecchie e smisi di ascoltarla, focalizzandomi su altro.
Occhi azzurri...
Capelli corti...
Seni morbidi...
Bel sorriso...
Battutacce...
Mya...
Un respiro, due respiri...
Potevo sopravvivere. Dovevo sopravvivere.
La macchina arrestò il suo cammino improvvisamente; scesi e mi diressi in negozio da sola, senza aspettare che lei mi seguisse.
Passò un eternità prima di trovare ciò che più mi piaceva, prima che mia madre smettesse di mettermi in grembo vestiti che non mi aggradavano nemmeno un po', di cui non mi andava a genio neanche un bottone. Mi obbligò a provare un vestito bianco corto al ginocchio, con cui mi sentii una sposa moderna fuori tema; un altro viola, satinato, troppo lungo per essere indossato anche con i tacchi; uno turchese pieno di tulle con il quale, guardandomi allo specchio, non potei fare a meno di paragonarmi alla fata turchina; infine, volle a tutti costi infilarmi addosso un tubino stretto fino alle ginocchia rosa confetto, senza spalline e di velo, con cui mi sentii un neonato troppo cresciuto appena vestito dalle infermiere, e infilato dentro la copertina.
Si mostrò insoddisfatta, frustrata da tutti i miei rifiuti, tanto da sedersi su uno dei tanti divanetti a due posti del locale e rifiutarsi di proseguire ancora con me la ricerca.
Obiettivo raggiunto.
Era proprio ciò che desideravo, che si levasse dalle scatole e mi lasciasse fare. Volevo scegliere almeno quello, volevo a tutti costi scegliere io il mio vestito senza sentire nemmeno una parola da parte sua, né un parere, né seguire uno stupidissimo consiglio.
Frugai tra tutti gli stand e le grucce, spulciai tra i manichini e gli abiti fuori collezione, finché proprio tra quest'ultimi non trovai una abito che mi catturò totalmente. Riconoscevo il tessuto come taffetà, di un blu notte dalle sfumature che variavano, a seconda della luce, dal viola scuro al viola chiaro. La scollatura era a cuore, ma due spalline larghe coprivano le spalle; il seno era decorato da pietre preziose, il ricamo del busto un po' arricciato, e infine la gonna, stretta fino alle ginocchia, si apriva improvvisamente in un finale "a sirena" che mi copriva appena le caviglie lasciando libera visione delle scarpe. Mi sembrava uno di quegli abiti antichi, per niente attuali, ma per questo ai miei occhi appariva speciale, sicuramente diverso da qualsiasi altro vestito. Ero più che convinta che nessun'altra ragazza avrebbe mai scelto un modello simile, perché tutte puntavano su qualcosa di principesco, di estremamente pacchiano, che non faceva per me. Proprio per questo, fin dalla prima occhiata, capii che quell'abito doveva essere mio.
Senza chiamare mia madre corsi nei camerini a provarlo, e quando la commessa mi aiutò a chiudere la zip tra le scapole mi resi conto di quanto bella fossi e mi sentii speciale. Mi calzava a pennello, neanche fosse stato cucito apposta per me; cadeva morbido sui fianchi, ma aderiva al punto tale da evidenziare tutte le mie curve, curve che solitamente non mi piaceva mettere in mostra o "calcare" con abiti troppo attillati.
Sembravo più donna del solito.
Mi toccai il viso con le dita, come se non credessi che dentro quel modello così speciale e bello potessi esserci davvero io.
«Lo prendo», sussurrai semplicemente, un sorriso incantato sul viso.
La commessa, senza una parola di più, andò a preparare la scatola.
~∞~ Mya's Pov. ~∞~
Centosettanta dollari.
Non era stata una spesa eccessiva, ma per il nostro futuro avrei fatto questo e molto altro.
Un passo alla volta, questo era certo, ma dovevo cominciare a muovere i piedi se volevo tagliare la linea del traguardo. Sapevo che trascinare un'altra persona con me, una persona che aveva sofferto e stava ancora soffrendo, era più complicato che camminare da sola, visto che in solitudine avrei potuto benissimo perfino correre. Ma, a conti fatti, se non avessi avuto una persona da trascinare, da salvare, probabilmente non avrei neanche mosso i primi passi. Non avrei camminato, tantomeno corso. La mia vita sarebbe scorsa regolarmente, nessun batticuore, nessun'avventura. Nessun amore.
Invece io ce l'avevo, un amore, uno davvero bello. Di quelli che ti levavano la vita come te la tolgono e non mi lamentavo, perché nel complesso era l'unica cosa per cui valesse ancora la pena vivere.
Centosettanta dollari.
Kansas City.
Sapevo che sarebbe stato difficile, ma avevo già un lavoro assicurato. Fortunatamente gli affari avevano ripreso ad ingranare e John aveva ultimamente esteso la sua cerchia di contatti, fino a trovare un accordo con un uomo del Maryland che possedeva un grosso edificio al centro di Kansas City con cui avrebbe potuto fare una fortuna, se solo avesse investito in un locale simile a quello che aveva affittato qui a Boston.
L'affitto era un po' salato, ma John aveva voluto buttarsi comunque.
"Ti spedisco laggiù", aveva detto. "Mi serve che tu gestisca i miei affari lontano da questa città, e sei l'unica di cui mi fido. Pronta a fare le valige?".
Io ero pronta. Doveva solo darmi un altro mese, un altro fottutissimo mese e saremmo state pronte.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top