Cap 17: Hypocrisy
La tavola apparecchiata al mio cospetto mi avrebbe sicuramente messo l'acquolina in bocca se solo di fronte a me fossero stati seduti amici e parenti sinceri, di quelli che ti amano per ciò che sei e non vogliono cambiare nulla del tuo carattere né del tuo aspetto. Mi avrebbe fatto sorridere, sfregare le mani sotto il mento e preparare il tovagliolo sulle gambe, come fanno le giovani donne al primo appuntamento con un ragazzo solo per farsi vedere educate e per evitare di sbrodolarsi come bambine goffe.
Ma davanti a me non sedeva una zia divertente, un cugino complice o una madre di quelle che possono essere anche le tue migliori amiche. Di fronte a me, in quel ristorantino di provincia dalle luci soffuse e dalle tovaglie color rosso sangue, sedevano due genitori omofobi, un'altra coppia di genitori e un ragazzo snob con la puzza sotto al naso, silenzioso e attento.
Mia madre chiacchierava con la signora Katy di quanto mio padre non sapesse giocare per niente a golf e di come io, da bambina, sapessi impugnare una mazza quasi meglio di lui. Entrambe ridevano e si coprivano la bocca col tovagliolo di stoffa color avana, macchiandolo di rossetto scuro.
Il padre del ragazzo che mi sedeva di fronte e il mio, invece, borbottavano qualcosa a proposito di motori e gare automobilistiche, nomi sconosciuti o troppo complessi da ricordare per poterne riportare una traccia logica.
Io, muta al mio posto, avevo scelto come unico oggetto d'interesse le venature lucide che i capelli di quel pezzo di legno dalle sembianze umane avevano assunto a causa di tutto il gel che probabilmente aveva utilizzato per tenerli al suo posto, lisci, ordinati e assolutamente attaccati alla cute.
Sembravano fili di plastica doppi e duri, tanto che lo immaginai correre, saltare, fare capriole e sudare senza che una di quelle singole ciocche avesse la forza di spostarsi di mezzo millimetro.
Si sistemò gli occhiali quadrati sul naso dritto e perfetto, battendo le ciglia un po' troppo lunghe dietro le lenti.
Portava una cravatta lilla dai disegni viola e una camicia bianca immacolata, la pelle era troppo chiara per i miei gusti e stringeva le labbra talmente tanto che a volte il loro colore naturale veniva sostituito dal bianco della tensione muscolare.
Deglutii e abbassai lo sguardo sul mio piatto ancora pieno di pasticcio di patate e carne arrosto.
«Ally è passata all'ultimo anno con il massimo dei voti, sa? Ma d'altronde non è una sorpresa... Solitamente i suoi voti oscillano tra il dieci e il dieci e lode!», mia madre ridacchiò e Katy sorrise, sollevando gli occhi in mia direzione con sorpresa. Infilzò l'ultima patata presente sul suo piatto e la masticò per bene, riflettendo su qualcosa che poi espletò così:
«Non studierai troppo, vero signorina?», il tono era dubbioso. Si chiedeva se avevo una vita sociale o meno.
Scossi la testa, muovendo la forchetta in mezzo al pasticcio.
«Studio quanto basta», feci spallucce ed abbozzai un sorriso tirato.
Vidi mia madre lanciare uno sguardo in direzione di Michael, ma non trovò alcun tipo di apprezzamento e perciò roteò leggermente gli occhi, guardandomi male.
Il suo sguardo voleva dire: "non stai facendo abbastanza. Se pensi di far colpo su un bravo ragazzo giocando col cibo e coi monosillabi, sei fuori strada!".
Ma lei non capiva.
Non capiva che non me ne importava niente di quel ragazzo, men che meno della sua aria da figlio di papà.
Era tutta un'ipocrisia, lei che fingeva di avere una famiglia felice quando il primo disastro in cima alla piramide non ero io, ma il rapporto instabile che ormai aveva con mio padre, perennemente fuori per lavoro e quindi assente.
Ma poi, era vero che stava fuori per lavoro? Lei non sapeva nemmeno quello, non sapeva neanche se il cuore di mio padre era ancora suo, eppure si ostinava a voler giocare alla bella famigliola allegra. Ostentava un buon rapporto con me, invece mi odiava dal profondo di se stessa e se avesse potuto scambiarmi con un'altra ragazza come si scambia un maglione di una misura con uno di un'altra l'avrebbe fatto.
E quei due fantocci, poi? Chi erano? Non erano amici di famiglia, non li avevo mai visti, ed ero più che certa che non si trattasse nemmeno di colleghi di mio padre. Avevano l'aria di persone ricche e straricche con la possibilità economica di comprare al figlio l'ammissione in una delle più prestigiose università, facendogli saltare tranquillamente il passaggio della domanda d'ammissione. A quelli i soldi non mancavano e mi chiedevo da dove fossero venuti fuori, e soprattutto il perché. Erano lì per fare un favore a mio padre? Erano in debito con lui? O forse li aveva pagati affinché suo figlio provasse a farmi tornare ad essere una "persona normale"?
Era tutta un'ipocrisia, una orribile, vomitevole ipocrisia.
Mi venne la nausea.
Spinsi la sedia all'indietro e posai il mio tovagliolo accanto al piatto, mettendomi una mano davanti alla bocca.
«Torno subito», bofonchiai, dando le spalle al tavolo e correndo verso la toilette.
Incespicai in due tavoli, svoltai un angolo coperto da una tendina di perline preziose e ringraziai il cielo per l'assenza di fila di fronte alla porta.
Mi spinsi dentro e richiusi la porta alla bell'e meglio alle mie spalle, poi mi gettai in ginocchio di fronte alla tazza e rigurgitai anche l'anima.
Mi asciugai le labbra con un po' di carta igienica e scalciai lentamente fino ad accasciarmi ai piedi del lavandino, spingendomi le ginocchia al petto.
Non volevo tornare di là, in mezzo a tutte quelle bugie, a quelle facce che sorridevano per finta e a quegli occhi che invece dicevano quello che le labbra non avevano il coraggio di ammettere. Erano tutti dei bugiardi, calcolatori e attori. Fingevano di essere chi non erano e raccontavano di sport, di auto, di persone e di cose che non conoscevano.
Io ero me stessa, ed era per questo che non venivo accettata. Erano talmente abituati a vivere nelle loro meschine falsità, che la sincerità e l'onestà di qualcuno gli sembrava uno schiaffo in pieno viso.
Anche io dovevo nascondermi! Anche io dovevo fingere di conoscere il golf, parlare dell'università che avevo intenzione di frequentare, chiacchierare di quanto amavo e onoravo i miei genitori! E siccome non lo avevo fatto, siccome non volevo assolutamente comportarmi come loro, ma anzi volevo semplicemente esternare ciò che ero davvero, questo veniva scambiato come un'offesa e per questo dovevo nascondermi!
Mai!
Mai avrei fatto il loro gioco marcio!
Lo stomaco mi si contorse in un piccolo singhiozzo, che mi fece salire le lacrime agli occhi. Tutti si aspettavano qualcosa da me ed io, dal canto mio, volevo agire in modo totalmente differente rispetto alla volontà altrui.
Raccolsi il poco coraggio rimastomi e mi rimisi in piedi, barcollando fino al lavandino. Mi sciacquai mani e viso, mi asciugai con un foglio di carta morbida ed uscii fuori dal bagno.
«Ehi!», Michael mi venne quasi addosso, urtandomi con un braccio. Era la prima volta che sentivo la sua voce e potevo benissimo dire fin da quel primo momento di non volerla più sentire. Troppo nasale, fastidiosa.
«Scusami, non ti avevo visto...».
«Stai bene?», domandò, un sopracciglio alzato e le spalle troppo erette.
«Sì, è tutto okay», mentii.
Mi squadrò, poco convinto.
«I nostri genitori vanno via, comunque. Ci lasciano un po' da soli, dicono. Ci vediamo al tavolo».
E così, sotto il mio sguardo allibito, scomparve dentro il bagno degli uomini.
~∞~ Mya's Pov ~∞~
Non l'avrei retta una serata come quella. Troppi ragazzini da tenere a bada, troppi galletti a cui chiedere la carta d'identità e troppe aspiranti prostitute da tenere alla larga dagli alcolici.
Serata liceale in onore del rientro dalle vacanze estive. Fortunatamente John aveva evitato gli schiumogeni e aveva predisposto un orario di chiusura locale, altrimenti avrei dato forfait e sarei scappata via, su un'isola sperduta. Ad essere onesti, però, non avevo la forza di raffreddare quegli adolescenti dalle teste calde nemmeno per quelle poche ore prestabilite. Me ne sarei stata seduta comodamente in camera mia a scervellarmi su come riprendermi l'unica persona che, dopo l'inferno, era riuscita a farmi sorridere, piuttosto che urlare a destra e a manca: "quanti anni hai? No, non puoi bere!".«Mya! Fai attenzione a quel gruppetto di ragazzini in fondo alla sala, cercano di fregare i membri dello staff da ore!», mi avvertì John, urlando talmente forte da sovrastare la musica, una vena bluastra gonfia in mezzo alla fronte madida e un vassoio d'alluminio sull'avambraccio, quattro bicchieri stracolmi di soda e limone.Mi voltai in sua direzione con lo sguardo perso e la bocca quasi dischiusa, come una stralunata. In effetti era così che mi sentivo... tutta quella musica, poi, non faceva altro che confondermi maggiormente i pensieri che cozzavano tra di loro sbatacchiando contro le pareti del mio povero cervello.Sbuffai, guardando di fronte a me.Una quindicenne – non poteva avere più di quindici anni – con un top nero e pantaloncini a vita alta mi squadrava neanche fossi un fenomeno da baraccone.«Volevi ordinare?», le chiesi, rendendomi subito conto di aver parlato troppo piano.Fortunatamente mi lesse il labiale. Si voltò verso le sue amiche – dandomi la possibilità di constatare come la stoffa in eccesso che le copriva fin su l'ombelico avrebbe dovuto piuttosto coprirle il sedere -, fece un gesto frenetico verso di loro, poi asserì: «Vodka alla pesca e due tranci d'arancia», si passò i capelli su una spalla e batté le palpebre un paio di volte, rischiando di creare un vortice a causa delle ciglia finte e del mascara in eccesso.Ma prima di vestirsi, quelle bambine in gonnella, si facevano un giro dentro i rivenditori di roba carnevalesca? Spostò il peso tutto su un fianco e mi guardò dritta negli occhi.«Devi fornirmi la carta d'identità, non posso vendere alcolici ai minori», chiarii, ripetendo quella frase che ormai era diventata uno standard di quella serata peggio dei "ciao" e degli "ehi". Roteò gli occhi ed aprì la sua pochette di raso nero, costellata di pietruzze finte che nonostante tutto riuscivano a luccicare.Cercò a vuoto qualcosa che non poteva mostrarmi, una scusa come un'altra per prendere tempo e mettere in moto il criceto sulla ruota bloccata dentro la scatola cranica: come fare per ottenere l'alcol senza avere l'età sufficiente?«Senti, l'ho lasciata a casa, okay? E' inutile fare questi controlli, i minorenni qui la spuntano comunque, quindi perché far aspettare chi ha diritto al suo drink? Perdete solo clienti, dammi da bere e piantiamola», sbuffò nervosa, chiudendo quella mini busta per la posta.Strinsi il bancone tra le dita, cercando di mantenere la calma.«Senza carta d'identità non posso fare niente. Ora per favore spostati, c'è la fila dietro di te», le feci cenno di fare un passo verso destra e lei allargò le braccia, sconvolta. Si voltò e si mosse verso un'altra ragazza, ma non le prestai attenzione e servii a due diciottenni dietro di lei due alcolici non troppo forti.Sciacquai alcune tazzine e preparai due caffè freddi e una crema di caffè per tre uomini sulla trentina capitati nella serata sbagliata al momento sbagliato, poi un'altra ragazza avanzò lungo la fila e mi porse immediatamente sul bancone la sua carta d'identità, incrociando le braccia al petto con aria di superiorità.La bile mi salì dritta in gola.«Cosa vuoi ordinare?», sospirai, prendendo un bicchiere di plastica trasparente.«Due bicchieri di Vodka liscia», urlò sulla musica.Afferrai di scatto un altro bicchiere e gli preparai di fretta i drink, perché la sua faccia, il suo atteggiamento e il suo modo di parlare mi davano fin troppo sui nervi.Le servii il tutto su un vassoio e glielo passai, vedendola andarsene via soddisfatta.L'osservai per un attimo, colta da un improvviso dubbio, ma i clienti di fronte a me reclamarono ben presto la mia attenzione e dovetti rispondere ai comandi.Preparai altri cinque cocktails analcolici, due caffè, quattro aperitivi completi di patatine, arachidi e olive, un latte macchiato e sette alcolici: nel giro di un'ora e mezza il mio androne era di nuovo vuoto e io potevo posare il culo sul marmo nero ben laccato del bancone.Sospirai, gettandomi una pezza umida sulla spalla.Cosa stava facendo Ally? Con chi stava passando quelle ore?Afferrai il telefono nella speranza vana di trovare un messaggio, una chiamata, una nuova notizia o qualsiasi cosa potesse ricollegarmi a lei, ma non c'era traccia di nulla di tutto ciò.Lanciai quell'aggeggio lontano da me e chiusi gli occhi, massaggiandomi le tempie.Avevo un mal di testa infernale che mi perseguitava giorno e notte, avevo perso la forza di fare qualsiasi cosa e non volevo ficcare il naso nemmeno fuori casa. Se non fosse stato che senza lavoro non avrei avuto di che campare, probabilmente non sarei uscita nemmeno per fare quello.Avevo quasi abbandonato l'università, negli ultimi tre mesi non mi ero data nemmeno un esame e non prendevo un libro in mano da settimane e settimane.Come dovevo fare a riprendermi la mia vita?
«Sei impazzita per caso?!», tuonò una voce che riconobbi immediatamente come quella di John. Arrivò alla carica nella mia direzione, peggio di un fantino a cavallo.
Lo guardai confusa, la fronte aggrottata.
«Che succede?».
«Che succede?! C'è una quindicenne che vomita all'entrata della discoteca e la sua cara amica dice che tu hai venduto loro due bicchieri di Vodka liscia!».
Scandagliai i visi che ricordavo, cercando tra i diversi occhi incrociati quelli di una possibile quindicenne a cui avessi potuto vendere dell'alcol. Poi però mi ricordai: non avevo venduto alcol a nessuna quindicenne, ma avevo venduto due cocktails di Vodka liscia ad una ragazza maggiorenne. Molto probabilmente era l'amica della quindicenne in questione, e un bicchiere era per lei!
Cazzo, ma come avrei potuto mai sospettare una cosa simile?! Forse avevo avuto troppa fretta di levarmela di torno e non avevo fatto caso a ciò che aveva combinato dopo...
Ma io ero una persona sola, non potevo avere duemila paia di occhi e controllare ogni singola cosa! Tantissime persone prendevano più di un cocktails, ma lo prendevano per sé o per una persona altrettanto maggiorenne! Non mi era mai capitato che una sconsiderata facesse bere un'amica quindicenne approfittando della mia ingenuità e della sua condizione di maggiore età per fregarmi!
«Cazzo... Mi dispiace, John, non so come scusarmi davvero... Non potevo immaginare che...».
«Non mi importa un bel niente delle tue scuse, okay Mya? Non posso rischiare di perdere il locale e il lavoro per colpa di un tuo sbaglio! Ti ho raccolta dalla strada quando dormivi col culo per terra perché pensavo avessi del potenziale e perché nessuno merita di vivere come vivevi tu, ma se combini un altro di questi casini giuro che ti risbatto su quel marciapiede! E me ne frego di Ally, me ne frego che te l'abbiano portata via, perché se solo avessi ancora un po' dello spirito che ti brillava negli occhi fino a qualche mese fa avresti già trovato una soluzione per riprenderla con te! Invece stai qui, a sonnecchiare e a far danni lasciando che il resto del mondo ruoti senza che tu sia partecipe, e ti aspetti che la soluzione a tutta questa baraonda ti piova giù dal cielo! Beh, sai che ti dico, signorina? Niente cade dagli alberi! Se la rivuoi indietro ti tocca muovere il culo e rischiare! E ora pulisci quello schifo all'entrata e riga dritto!», urlò tutto d'un fiato.
Mi sentivo interdetta, immobilizzata sul posto, e una serie di sensazioni mi scorrevano dentro come un fiume in piena. Le sue parole mi avevano provocato un senso di rabbia misto a dolore, dispiacere e consapevolezza che all'improvviso mi diede la nausea, costringendomi, non appena se ne fu andato, a sciacquarmi le braccia, il viso e dietro il collo per evitare che il poco che avevo ingerito durante le ultime ore tornasse a galla.
Aveva ragione...
Me ne stavo lì, a guardare lo schermo del cellulare, a contare le ore del giorno in attesa di un sms che non arrivava mai, combinando pasticci e mettendo nei casini gli altri a causa della mia distrazione... Dovevo smetterla.
John non aveva mai alzato la voce con me. Mai, da quando ci conoscevamo, mi aveva rimproverata né ammonita. Mi voleva bene, mi aveva accolto come una sorella minore, una nipote, gli dovevo tutto e lo ripagavo di merda.
Mi bagnai i capelli e chiusi gli occhi.
Se era arrivato a quel punto doveva averne davvero le scatole piene di tutta quella situazione, forse più di me che la vivevo. E per quanto pungesse, il suo discorso era vero e aveva un senso: se rivolevo Ally dovevo fare qualcosa per riprendermela, altrimenti prima o poi sarebbe scomparsa tra le braccia di qualcun altro. Possibilmente un ragazzo, il tipo ideale della sua famiglia e completamente lontano, invece, da lei. Qualcuno che non avrebbe mai amato, ma che avrebbe finalmente fatto felici i suoi genitori.
Un brivido di disgusto mi attraversò la colonna vertebrale.
M'infilai nel retro, afferrai un secchio e lo riempii di acqua bollente e pezze sterilizzate.
Era giunto il momento di ripulirmi dalle ragnatele con cui mi ero chiusa a bozzolo in un angolo della mia vita.
~∞~ Ally's Pov ~∞~
Cristo, il modo di fare di quel ragazzo era tutto fuorché un comportamento socialmente accettabile. Non riuscivo a mantenere per più di dieci secondi lo sguardo su di lui che mi trasmetteva i suoi tic maniacali.
Mangiava un boccone e si ripuliva gli angoli delle labbra.
Ogni volta che mangiava un nuovo boccone.
Ad ogni singola forchettata.
Si schiariva la gola continuamente, e aveva la mania di passarsi la mano sinistra sui capelli affinché questi rimanessero incollati lì dov'erano.
Non tra i capelli, ma su i capelli.
Non capiva che non si sarebbero mossi mai. Una vera tragedia.
Non parlava se non ero io ad aprire un discorso, e nel momento in cui tentavo di farlo terminava l'argomento con una o due parole in croce. Volevo scomparire, scappare via...
«Sono molto stanca...», sussurrai, e mi accorsi di quanta verità ci stesse dietro quella frase.
Ero stanca della serata, di tutta quella situazione assurda, di quel ragazzo-alieno venuto da un altro mondo solo per torturarmi con le sue manie compulsive, di mia madre, di mio padre, della mia casa e della mia vita.
Avrei tanto voluto scappare via urlando...
«Ti riaccompagno a casa? Posso chiamare un taxi e chiedere di Louise, un mio amico. Non ci farebbe pagare niente».
No, niente taxi, niente Louise e niente lui. Volevo stare sola.
Sorrisi forzatamente.
«No, grazie... Preferisco tornare a casa da sola».
Mi guardò perplesso, poi bevve in fretta il resto della sua acqua naturale.
«Tua madre mi ha detto che non puoi tornare a casa da sola».
Bastarda.
Aveva avvertito perfino quello sconosciuto!
Strinsi le mani a pugno sotto la tavola.
Prima che potessi reagire in alcun modo, però, gridolini di gioia si levarono alle mie spalle. Non feci in tempo a voltarmi che due paia di braccia si fiondarono su di me, nascondendomi completamente al mio precedente interlocutore, abbracciandomi così forte da togliermi il fiato.
Conoscevo quei profumi, conoscevo benissimo quelle voci.
Alice e Dana.
Toccai loro le spalle, le braccia, come incredula: non m'importava di avere gli occhi di tutto il ristorante puntati addosso, non m'importava nemmeno di star mettendo in imbarazzo quel demente al mio cospetto, volevo soltanto accertarmi che quelle due non fossero un miraggio.
Le allontanai leggermente, le lacrime agli occhi: due metri più in là, a braccia incrociate, Shane se ne stava in piedi e sorrideva a mezza bocca, scuotendo la testa.
«Sei proprio una testa di cazzo, Dandelia. E' tre mesi che cerchiamo di metterci in contatto con te, mai una volta che tu abbia risposto ad una chiamata o ad un messaggio. Se non fossi così contenta di vederti anch'io, probabilmente ti picchierei».
Trovai la forza di sollevarmi e di muovere alcuni passi in sua direzione e lei mi abbracciò di fretta, lanciandosi in una dimostrazione di affetto alquanto goffa: non era proprio da Shane esporsi così tanto.
La gente ai tavoli farfugliava, alcuni ci fissavano semplicemente in silenzio, cercando di capire di cosa stessimo parlando, altri ancora squadravano Shane cercando di coglierne i tratti e soprattutto la sessualità.
Misi le mani davanti alle labbra e sorrisi.
«Mi dispiace da morire ragazze, sono sincera... Non ho potuto fare nulla per fermare mia madre. Mi ha sequestrato il telefono e anche il computer. Non ho praticamente alcun contatto col mondo esterno se non quando lo decidono loro. Ma sono così felice di vedervi!».
Shane guardò verso il maniaco compulsivo e tirò su col naso, facendo una smorfia schifata che riconobbi come risposta involontaria ad un qualche pensiero.
«Quel damerino incravattato fa parte dei tuoi contatti decisi da loro, per caso?».
Seguii il suo sguardo e sospirai.
«Esatto», assentii.
«Comunque sia, non importa. Abbiamo una sorpresa», trillò Alice, prendendomi le mani tra le sue e stritolandomele.
Erano davvero lì... Le mie amiche erano venute per me. Ma come avevano fatto a sapere dov'ero? Che Mya mi avesse seguita anche quella volta?
«Di cosa si tratta?», tentai, pur sapendo che non avrei cavato un ragno dal buco.
«Se te lo svelassimo non sarebbe una sorpresa!», concluse Dana.
Tipico.
All'improvviso il figlio di papà interruppe i nostri festeggiamenti.
«Scusate, non vorrei disturbarvi, ma si dà il caso che questa sia una cena privata. La gente viene qui per mangiare, non per ascoltare delle pecore belare!», sbatté con fare teatrale il tovagliolo sul tavolo e si aggiustò freneticamente gli occhiali sul naso.
«E tu, quanto tempo ci passi in mezzo alle pecore? Perché a giudicare dal modo in cui sembra ti abbiano leccato i capelli per tutta la circonferenza della scatola cranica, io direi "tanto"! Andiamocene, Ally», concluse Shane.
Avrei tanto voluto darle il cinque!
Il cuore cominciò a pompare più sangue del normale e l'adrenalina prese velocemente la via delle vene.
Stavo per seguirle, felice ed emozionata di sapere cosa mi attendeva, ma il ragazzo chiamò nuovamente la nostra attenzione.
«E' mio compito portare Ally a casa! Sua madre mi ha specificatamente detto che tocca a me...».
«Senti, paghiamo noi il conto, okay? Lasciamo perfino la mancia e ti regaliamo il dolce se tieni il becco chiuso», propose Dana, prendendo il suo portafogli in mano e mostrando delle banconote verde militare tra le dita sottili. Wow, anche lei aveva fatto progressi in quell'ultimo periodo. Sembrava molto più intraprendente del solito!
La caparbietà di Michael scomparve improvvisamente, tutto il suo interesse nei miei confronti scemò fino a scomparire ed io scossi immediatamente la testa, sorridendo amaramente.
Lui, insieme a tutto il resto, era parte dell'ipocrisia: si spacciava per il paladino della giustizia, ma non appena qualcuno gli proponeva un'offerta più allettante la coglieva al volo senza pensarci due volte. Non gliene fregava niente di me. Ero sempre più sicura che l'avessero pagato per riferire loro qualsiasi cosa potesse dargli delle risposte concrete.
Si passò nuovamente il tovagliolo sulle labbra e abbassò lo sguardo sul piatto, fingendo di non conoscerci.
Dana trasse una conferma da quell'atteggiamento: pagò alla cassa, mi afferrò per la mano e mi trascinò fuori mentre Shane ed Alice ci seguivano a ruota.
L'aria fresca della sera sembrava avere un altro odore. Con le mie amiche al fianco tutto profumava di libertà, di vita, una vita che mi avevano completamente negato nell'ultimo periodo.
Risero, facendo tintinnare le chiavi di un auto grigia che non riconobbi assolutamente.
Dana lanciò quest'ultime ad Alice, che le lancio a Shane disattivando l'allarme.
Al mio sguardo perplesso spiegarono: «E' della madre di Shane. A volte la utilizza per venire a scuola quando perde l'autobus. In teoria potrebbe percorrere solo il tragitto di casa, ma... per stasera facciamo un'eccezione! Sali!», ordinarono.
Scossi la testa e senza farmelo ripetere due volte presi posto accanto a Shane, che mise in moto ed aspettò che tutte fossimo sedute al loro posto.
Dopodiché partì e cominciò a correre per le strade della città.
Libertà.
Quell'aria che mi sferzava il viso, l'odore della terra bagnata dagli irrigatori, le cicale con i loro suoni stonati, le finestre delle case ancora illuminate, le piscine nei giardini... Mi parve di attraversare tutta l'estate perduta in pochi minuti.
Ad occhi chiusi, con una mano che penzolava fuori dal finestrino e la musica a volume basso, chiesi alle ragazze: «Allora? Non posso sapere dove stiamo andando?».
«Dai, Shane, non dobbiamo dirle cosa farà, dobbiamo dirle solo da chi la stiamo portando!».
«Ha ragione, Shane... Su, facciamola felice!».
Le ragazze cercarono di convincere la testa dura a vuotare il sacco, e dopo una serie di negazioni da parte sua alla fine acconsentì: «Da chi possiamo portarti, se non da Mya?».
Più che farmi felice, stavano per restituirmi il respiro.
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