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Michael Bublè cantava in sottofondo, le luci dell'albero di Natale si spegnevano e si riaccendevano alternando luci fredde a luci calde, facendo brillare le palline rosse appese alla fine dei rami; l'odore della cena era rimasto nell'aria, sebbene fossero già arrivati al dolce, così come l'odore del muschio che tanto amava Jimin si diffondeva dal piccolo presepe sul tavolino del soggiorno. Il camino era spento, perché chiuso da anni, ma il signor Park lo aveva riempito di ciocchi di legno e aveva appeso al bordo sopra di esso tante piccole stelline di vetro, appese da fili quasi invisibili, tanto da sembrare che galleggiassero nell'aria magicamente.

I visi di Jimin e dei genitori erano allegri, rossicci per il vino bevuto durante la cena, mentre ricordavano dell'anno precedente, quando sua sorella aveva trovato sotto l'albero la macchina karaoke che tanto aveva desiderato, ma che pensava di non ricevere per il costo troppo alto: «E poi tua sorella ha voluto a tutti i costi cantare alle due di notte quella canzone che gli piaceva tanto.» disse la madre portandosi subito dopo un cucchiaio di budino alle labbra, pulendosele gentilmente con il tovagliolo.

Jimin batté le mani entusiasta, buttò la testa all'indietro ridendo: «E sono arrivati i vicini a dirci di smetterla, ma alla fine sono rimasti a cantare pure loro! È stato qualcosa di assurdo».

Il padre diede un sorso alla sua flûte in plastica, finendo lo spumante rimasto nel bicchiere: «Il signor Lee era completamente ubriaco, ha cominciato a fare quel balletto.» provò ad imitarlo in modo goffo, forse per la prima volta dopo un anno, complice l'alcool in corpo, facendo scoppiare a ridere ancor di più gli altri presenti al tavolo.

Jimin si asciugò le lacrime agli occhi, la donna si fece pensierosa: «Chissà come staranno ora alla capitale.» si chiede sospirando «Speriamo stiano bene, erano tanto brave persone».

«Staranno benissimo in mezzo allo smog, mamma.» scherzò Jimin facendole un sorriso «Se vuoi domani provo a cercarli su facebook,» arricciò il naso e si passò una mano tra i capelli, «mi sembrano i classici tipi da facebook».

La donna si alzò e annuì verso il figlio: «Magari, vorrei proprio vedere il loro figlioletto com'è cresciuto.» cominciò a prendere le tazzine in cui avevano mangiato il dolce, ormai vuote, poggiandole una sopra l'altro «Crescono così in fretta a quell'età».

Jimin si alzò subito dopo la donna: «Ti aiuto, mamma.» ma la donna gli fece segno di sedersi.

«Li appoggio solo sul tavolo, li laviamo domani, ora ci facciamo una partita a carte e decidiamo chi fa il caffè.» si avvicinò al ventenne e gli fece una carezza «Come da tradizione».

Jimin sorrise, contento del fatto che tutto stesse andando come sempre, ogni cosa, sebbene la sorella non fosse presente. Era stata una piacevole serata, erano già le undici di sera e sapeva che non sarebbe stata la stessa cosa, ma forse poteva essere ugualmente bella. Forse avrebbe comunque significato qualcosa e, forse, sarebbe comunque stata un regalo e un ricordo importante.

«E il nostro balletto di Natale?» chiese il padre, ancora seduto, mentre versava il poco spumante rimasto nella bottiglia nei bicchieri di plastica, cercando di farli pieni uguali.

Jimin si morse il labbro inferiore, arricciò il naso: «Beh, lo abbiamo sempre fatto insieme a Yeji...» fece spallucce, si rimise seduto «Possiamo farlo domani mattina, quando apriremo i regali».

Il padre annuì: «Sarà strano non aprirli alla mezzanotte.» ridacchiò, guardando la moglie tornare con un mazzo di carte «Jimin vuole aspettare domani ad aprire i regali, ci credi?»

La donna si sedette al suo posto, ridendo: «Quando eri piccolo ti preparavi con il regalo più grande davanti e un orologio. Appena scattava la mezzanotte cominciavi a scartarlo!»

Jimin provò a difendersi, ma il padre lo bloccò alzando la mano: «Vogliamo dimenticarci di quell'anno in cui il regalo era così grande che non riuscì a resistere e volle aprirlo cinque minuti prima?»

Il ventenne mimò un'espressione dispiaciuta, triste e sconsolata: «Ricordo anche che quel pacco era vuoto e ci rimasi proprio di merda.» sua madre e suo padre scoppiarono a ridere annuendo «Che genitori senza cuore».

Suo padre si portò la flûte alle labbra: «Stava per mettersi a piangere, io stavo morendo dal ridere».

La donna poggiò una mano su quella del marito e lo guardò complice, in modo dolce: «Ma com'era felice quando ha visto cosa gli avevamo regalato?» si girò verso il figlio «Te lo ricordi?»

Jimin annuì e tornò a sorridere, leggermente malinconico: «Certo, ci avevate regalato Macchietta.» ricordò il piccolo gatto che sua sorella aveva voluto chiamare così, sebbene il fratello aveva lottato con tutte le sue forze per dargli il nome di un supereroe, cosa del tutto inutile, dato che alla fine l'aveva avuta vinta lei.

«Pace all'anima sua.» disse la donna con un sospiro.

Si fece tutto silenzioso, l'unico a parlare fu Michael Bublè, a voce bassa, mentre loro tre rimasero a fissare un punto, perdendosi qualche istante in vecchi ricordi tristi e felici, insieme.

«Dai, mamma.» disse improvvisamente il figlio, facendo tornare i genitori al presente «Fai tu carte».

Il resto dell'ora lo passarono a giocare, a prendersi in giro, a ridere, a barare uno contro l'altro facendosi beccare apposta, per ridere e, alla fine, al padre toccò fare il caffè, tornando in men che non si dica con un vassoio natalizio, tre tazzine e tre cioccolatini sul piattino.

Bevvero il loro caffè, accesero la televisione qualche minuto prima della mezzanotte per sentire il conto alla rovescia di improbabili personaggi della tv ad uno dei tanti show televisivi serali, chiedendosi ad alta voce se non avessero una famiglia con il quale passare quella sera, se fosse pre-registrato o se, semplicemente, li pagassero così tanto da preferire passare lì il Natale.

Arrivò il momento, si riempirono di nuovo i bicchieri, li alzarono alla mezzanotte e fecero un brindisi a testa, bevendo poi tutto d'un sorso e passando agli abbracci e ai baci, augurandosi un felice Natale, augurandosi di continuare a passarne tanti altri assieme.

Il padre si avvicinò ai divani, prese la vecchia chitarra che aveva appoggiato sulla poltrona e ci si sedette al suo posto, la accordò e, dopo aver spento la televisione, suonò per una buona mezz'ora. I tre continuarono ad ascoltare musica, a cantare a voce bassa, a sorridere e ridere, finché ad una cert'ora, non decisero di andare a dormire, senza aspettare il ritorno di Yeji.

«Lasciamo accese le luci dell'albero, mamma.» chiese Jimin abbracciandola «Così quando Yeji tornerà lo vedrà». La donna annuì dolcemente, gli diede la buonanotte e salì al piano superiore con il marito. Jimin rimase qualche minuto ancora nella stanza, osservando il tavolo sporco; decise di sparecchiare, togliendo gli ultimi bicchieri, bottiglie, e racchiudendo in un bozzolo le briciole nella tovaglia, portando tutto in cucina. Prese un bicchiere e un piattino; riempì il primo di latte, il secondo di biscotti, poi tornò in salotto, li appoggiò al comodino vicino all'albero di Natale, facendo posto allo spuntino notturno per Babbo Natale mettendo al limite del legno il telefono fisso.

«Così è perfetto.» probabilmente se li sarebbe mangiati Yeji, ma andava bene così.

Jimin spense le luci, osservò il buio per qualche istante, finché le luci dell'albero si riaccesero lentamente, illuminando la stanza in modo romantico; sorrise: «Buon Natale». Jimin salì le scale e raggiunse la propria stanza.

Il giovane uomo si mise il pigiama natalizio, pieno di piccoli bastoncini di zucchero disegnati, si andò a lavare i denti, tornò al suo letto e si infilò sotto le coperte.

Jimin chiuse gli occhi, provò ad addormentarsi, ma il suo pensiero andò a Yeji, si chiede quando sarebbe tornata, se si stava divertendo, se si ricordava di quando erano piccoli e dei loro natali in famiglia; si sentì triste al pensare a lei, al fatto che potesse dimenticare.

Jimin rimase semplicemente sul letto, fissando il soffitto, pensando al passato e guardando le luci dei fari delle macchine illuminare il lampadario appena. Rimase attento ad ascoltare i rumori, sperò di sentire la porta d'ingresso aprirsi per poterle fare gli auguri prima di addormentarsi, per poterle chiedere scusa per essersi arrabbiato e non averle augurato una buona serata.

Poi, improvvisamente, un rumore lo mise sull'attenti: veniva sicuramente dal piano di sotto, ma non era la porta d'ingresso ed era sicuro non averla sentita aprire. Pensò potesse essere suo padre, sceso a mangiare i biscotti, o sua madre, ricordatesi di aver lasciato il tavolo in disordine. Non aveva capito che rumore fosse, ma poteva essere qualsiasi cosa.

Jimin rimase comunque in ascolto, ora assolutamente sveglio, mentre chiedeva al suo cuore di calmarsi, di battere un po' meno forte, allarmato anch'esso dal rumore.

Un secondo suono provenne dal piano di sotto, un rumore di passi lenti, furtivi. Jimin si mise seduto, subito, ma rimase lucido; non accese la luce, si tolse le coperte di dosso e appoggiò i piedi al pavimento, alzandosi in modo silenzioso. Camminò fino alla porta, poggiò la mano sulla maniglia e la aprì lentamente, facendo attenzione a far piano, a non fare un solo rumore. Appena fu libera, aprì la porta e uscì in corridoio, trattenendo il respiro. Non sentiva più nessun rumore, troppo quello dell'incessante battere del suo cuore impaurito.

Jimin camminò lentamente verso la camera dei suoi, la trovò aperta come al solito, osservò entrambe le figure dei genitori addormentate, sotto le coperte. Il suo cuore batté ancora più forte. Jimin fece un profondo respiro, chiuse gli occhi, provò a calmarsi.

Cominciò a camminare per il corridoio, arrivò alle scale, cominciò a scendere piano, poggiando i piedi nudi sul marmo, ringraziando il fato che non fossero di legno scricchiolante. Quando arrivò alla fine rimase nascosto dietro il muro, poggiando la schiena ad esso. Sperò con tutto sé stesso di aver sentito male, di essersi fatto condizionare dai film horror o dai telegiornali che avevano, per giorni, ricordato di stare attenti ai ladri delle vacanze.

Jimin deglutì piano, sentì la bocca secca, ebbe paura di dover tossire da un momento all'altro; rimase in attesa, ascoltando, sperano di non sentir nulla.

Le luci dell'albero si riflettevano azzurre sul muro davanti a lui, deboli, poi si spensero, tutto si fece buio.

Una voce mai sentita prima bisbigliò piano: «Vaffanculo ste lucine, come si fanno ad accendere fisse?»

Jimin si sentì morire di paura, sentì il corpo tremare, così come i denti. La prima cosa che gli venne in mente di fare fu risalire piano e prendere il proprio telefono, chiamare la polizia, attendere silenziosamente, magari chiudendosi in bagno. Scappare era sicuramente la cosa che avrebbe fatto se avesse vissuto da solo, ma lui non viveva da solo.

Si immaginò risalire e, proprio mentre arrivava al proprio telefono, sentire la porta di porta di casa aprirsi; si immaginò Yeji tornare nel momento meno opportuno, trovarsi davanti un ladro, magari armato. Si immaginò le cose più brutte e Jimin non poteva permettersele.

La luce si riaccese, il caldo giallo illuminò il muro, la voce grugnì decisamente soddisfatta, ma Jimin sapeva che avrebbe avuto solo qualche secondo di tempo: cominciò a contare.

Sette. Sei. Cinque. Quattro. Tre.

Si staccò dal muro, si mise in posizione, fece un profondo respiro.

Due. Uno.

Le luci si spensero. «Che due coglioni sto cazzo di albero». Servì solo quella voce bassa e profonda, infastidita, a dargli il via; Jimin camminò in punta di piedi, uscendo allo scoperto solo per entrare in cucina, la porta spalancata come sempre non lo obbligò neanche a far piano nell'aprirla. Nel buio si avvicinò a memoria al bancone della cucina, appoggiò le mani sul primo cassetto, si abbassò al secondo, arrivò al terzo. Fece un sospiro. Lo tirò verso di sé lentamente, come mai aveva fatto prima, cercando di non far toccare tra loro i mestoli, sperando che non facesse un sol rumore. Non ci riuscì, il rumore ci fu e, per un solo istante, Jimin credette di essere già morto, ma fu tanto veloce e basso, il rintoccar del mestolo di ferro con la frusta, che lo sconosciuto nell'altra stanza non lo sentì.

Le mani tremanti di Jimin tastarono delicatamente i vari utensili finché non trovarono il duro legno di un mattarello.

La luce, improvvisamente, però, si riaccese. Jimin non aveva fatto bene i conti.

Quando un accenno di azzurro brillante colpì il muro davanti a lui fu veloce, il ventenne, a chinarsi e a gattonare silenzioso dietro il tavolo. Rimase in silenzio, sentì un rumore di carta, il tintinnio delle palline sull'albero, come se qualcuno ne avesse mosso i rami senza volerlo, sentì masticare.

«Buoni». Jimin quasi fu tentato di ringraziarlo, lo fece comunque a mente e si diede dell'idiota da solo un secondo dopo.

Aspettò, sperò con tutto sé stesso che lo sconosciuto non si dirigesse verso la cucina, non ora che era scoperto, a terra, senza il mattarello, ancora nel cassetto. Rimase ad aspettare finché il buio non tornò a riempire la stanza.

Jimin si alzò velocemente, tornò al cassetto, prese il mattarello in modo preciso, i rintocchi di ferro si sentirono appena, lasciò il cassetto aperto e, nel buio si incamminò lento verso il soggiorno. I piedi venivano appoggiati a terra con cura, del tutto, evitando di camminare sulle punte, evitando di poter cadere per un qualsiasi passo falso. Nel buio vide qualcosa muoversi, qualcosa abbassarsi. Nel buio si avvicinò verso l'albero.

Le luci si riaccesero, tutto si riempì di caldo giallo.

Jimin osservò la schiena dello sconosciuto, chinato a terra, ai piedi del loro albero di Natale, vestito di rosso e di bianco. I capelli biondo chiaro risplendevano alle luci natalizie.

Jimin sollevò il mattarello, lo portò fin sopra la spalla, fece un profondo respiro, poi chiese: «Chi sei?»

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