Capitolo 3/3 - Finale

Roma 1428

Torno a Roma dopo molti anni, è impossibile che mi riconoscano; eppure mantengo il volto coperto e mi stringo nel mantello, come se chiedessi alla stoffa di celarmi, di nascondermi agli occhi del peccato nel quale sto per immergermi.
Avvicino la mano alla porta e, prima di entrare, concedo un'ultima occhiata al sole calante: so bene che, varcata la soglia, non posso tornare indietro. Respiro a pieni polmoni, deglutisco a fatica e poi sono dentro. Nella sala, un giovane, biondo, occhi piccoli, sta pulendo le stoviglie. Con passo deciso mi avvicino e lui quasi sobbalza quando gli parlo. «Servo, chiama il tuo padrone».
Si porta le mani ai fianchi e mi scruta a fondo, prima di rispondermi. «Non sono un servo» precisa.
«Come vuoi» taglio corto. «Ma fa ciò che ho chiesto».
Faccio in tempo a vedere le sopracciglia tese e la bocca imbronciata, poi mi da le spalle e si piega alla richiesta. Pochi secondi dopo, stringo la mano untuosa dell'oste.
«L'incontro si farà oggi, a breve».
Lui si limita ad annuire, poi concede una pigra occhiata in sala per controllare il lavoro del suo garzone. Fa scorrere l'indice sul bancone per verificare che non ci sia polvere. Per un attimo, la sua sicurezza mi fa dubitare che abbia capito: possibile che gestisca questi affari con la stessa calma con la quale versa il vino?
Mi accorgo che sono rimasto solo. Scelgo il tavolo più defilato e mi obbligo a calmarmi. Mi distraggo studiando i clienti che poco a poco prendono posto: due mercanti stranieri che gesticolano molto, un armigero con la livrea a scacchi, un giovane frate che fa di conto su un libricino.

Un uomo entra di gran passo, attirando l'attenzione su di sé e ricevendo saluti e attestati di stima. Barba non curata, occhi segnati da violacea stanchezza, vesti di scarsa fattura: Masaccio mi stringe la mano e poi prende posto. «Maestro, un vostro invito mi onora».
«Tommaso, vedo con piacere che il tuo sorriso non ha perso smalto» mi lascio sfuggire, un po' a disagio, perché non so proprio che complimento fargli.
«E come potrei? Sono contento di essere al servizio dell'arte. È ciò che mi realizza».
«Ma non voglio tediarvi» riprende svelto. «Avete parlato di una collaborazione e io sono estremamente lusingato dal fatto che abbiate fatto il mio nome».
Davvero l'ho convinto con una scusa così banale? Eppure pare funzionare perché vedo i suoi occhi fremere, il labbro inferiore tremare, i polpastrelli tamburellare.
Non vedo l'ora che tutto finisca: mi volto verso il locandiere e faccio un leggero cenno con la testa. Lui ricambia e poi scompare nel retrobottega.
«Mi metto al vostro servizio fin da ora» mi dice. «Ho dei disegni che devo migliorare e io voglio solo i vostri consigli. Non mi fido di nessun altro: voi, maestro, siete il mio unico punto di riferimento».
Forse mi sfugge un sorriso, mentre mi fa complimenti che non merito.
«Sono stato troppo poco presso di voi e me ne dispero. Ma voi avevate progetti più ambiziosi: so che siete stato a Beda per studi e che ora lavorate solo su commissione. Ho sempre pensato che con le mie idee e la vostra esperienza saremmo entrati nella storia, rivoluzionando il concetto di disegno, di pittura».
Poi abbassa gli occhi, volge la testa di lato, abbassa la voce. «Voi non potete saperlo, ma quando eravamo a Firenze mi svegliavo all'alba per non rimanere indietro, per essere alla vostra altezza».
A quel punto, rievoco i giorni dei lavori per Carnesecchi. Il suo sorprendente talento mi mise a dura prova, costringendomi a dare sempre il massimo per non perdere il confronto. Solo ora capisco che, sebbene in quelle sale fossi io il maestro, appresi dal mio allievo molto più di quanto insegnai.
«Eppure era sotto i miei occhi fin da subito» sussurro.
«Come dite?»
«Che non siamo mai stati in competizione, Masaccio» e per la prima volta lo chiamo come lo chiamano tutti. Per la prima volta non ho paura di lavorare con lui, perché mi accorgo che non abbiamo mai percorso strade opposte, ma la stessa; e per il bene di entrambi ognuno di noi ha sempre dato il massimo.
Mi alzo velocemente, rovesciando lo sgabello. «Sei pronto? Non vorrai mica tirarti indietro?».
«Mai, se si tratta di voi» mi risponde secco.
«Aspettami qui, voglio mostrarti delle bozze».
Lui mi saluta con un sorriso che non gli ho mai visto: increspa le labbra senza scoprire i denti, socchiude gli occhi. Finalmente sa di avere ciò che più anela: la mia fiducia.
Prima di allontanarmi, però, mi muovo nel locale, cercando l'oste. Mi rivolgo ancora allo stesso ragazzo.
«Chiama il tuo padrone, servo: questa volta è urgente!».
«Non sono servo» mi ripete stancamente, senza guardarmi in faccia. «È fuori: gli serviva una spezia. Ha detto che voi sapevate».
«Allora di' al tuo padrone che l'accordo è saltato. E porta da bere al mio tavolo».
A quel punto sono sull'uscio dove, nella fretta, urto proprio l'oste.
«Signore, ho parlato col vostro servo. Lui sa» mi affretto a dire, senza dargli il tempo di replicare.
Lui rimane un attimo alla porta, confuso; la giara che regge tra le mani per poco non gli cade.
A passo lento, sicuro, raggiunge quello che per me è un domestico.
«Cos'ha comandato mastro Masolino?»
«Ha chiesto da bere al suo tavolo, padre».
«Sapevo che al momento opportuno sarebbe corso via» mi deride, sottovoce.
Poi, un secondo dopo, porge una coppa al ragazzo e si copre la bocca affinché solo il figlio possa ascoltare. «Dopo aver servito il vino, torna a casa e restaci».


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