35. 𝐈𝐥 𝐯𝐢𝐚𝐠𝐠𝐢𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐬𝐭𝐚𝐧𝐜𝐨
THESEUS' POV
Novecentocinquanta giorni. Centotrentasei settimane. Trentadue mesi.
Quasi trentadue mesi da quando te ne sei andata.
La mezzanotte non è ancora scoccata. Londra tace.
E io nel frattempo sono andato avanti. Almeno credo.
Non conosci il vero peso di una cicatrice finché non ti ritrovi a doverlo sostenere, finché questo non ti schiaccia il cuore, o ciò che di esso rimane.
Alcuni pezzi sono da tempo sulla pietra di quel cimitero, seppelliti dalla cenere, bruciati dalle scintille del fuoco. Non credo sarò mai in grado di recuperarli.
Detto tra noi però, non mi sembra opportuno disturbare il loro riposo.
Chiuse il quaderno e afferrò il libro con la copertina rossa che aveva posato accanto al calamaio. S'infilò un cappotto blu - piuttosto elegante ma nel complesso abbastanza anonimo - spense le luci si chiuse la porta alle spalle, immergendosi per le strade di Londra.
C'era un che di poetico nella città al calar del sole, nel cielo che andava scurendosi ad ogni passo, nelle prime stelle che si affacciavano timide sopra i tetti precedendo la luna. Gli era sempre piaciuto passeggiare in quel momento della giornata sospeso tra la luce e il buio, tra il giorno e la notte, vedere le ombre allungarsi sui marciapiedi e le persone affacciate alle finestre che si ritiravano e chiudevano le persiane. Amava soprattutto ascoltare il chiacchiericcio trasformarsi in brusio, seguire con gli occhi la folla di persone che si disperdeva nelle strade secondarie, e godere del silenzio che ne derivava. Era diverso da quello di casa sua. Era un silenzio vivo, meno opprimente, più avvolgente. Quelle passeggiate gli facevano bene, scaldavano il suo animo disavvezzo al romanticismo, e lui di tanto in tanto ne sentiva il bisogno.
Mona Fernsby aveva affittato un appartamento appena fuori uno dei quartieri più importanti della città. Una casa modesta all'ultimo piano di un piccolo palazzo con una bellissima terrazza sul tetto. I condomini e i vicini erano per di più pensionati o in età da riposo, perciò tendevano a uscire di casa solo per necessità e solo con le loro domestiche. Nessuno utilizzava o curava la terrazza, a parte Mona, che l'aveva personalmente risistemata, aggiungendo un piccolo orto dove coltivava piante aromatiche per la cucina, la sua grande passione. In pratica, si poteva affermare che quel posto fosse suo.
Nel risalire i pianerottoli salutò la signora Chester, l'inquilina del secondo piano, che lo squadrava sempre da capo a piedi con un'aria scettica tutte le volte che si incrociavano. Una tipa stramba, la signora Chester. Secondo Mona, non aveva marito né figli e passava il tempo a parlare ai suoi gatti. In ogni caso non era nulla che lo riguardasse, perciò era di poca importanza.
Arrivato di fronte alla porta guardò l'orologio di suo padre. Segnava le sette e trenta. Theseus sperò di non essere arrivato troppo in anticipo. Non gli andava di risultare sgarbato, specialmente perché lui stesso non sopportava le scortesie. Attese qualche minuto prima di bussare, giusto per essere sicuro. La prudenza non era mai troppa.
Mona venne ad aprirgli quasi subito. Non era il tipo di donna che si poteva definire bella a prima vista. Ciò che la rendeva bella sul serio era il suo carattere: generoso, affabile, paziente. Mona aveva il perfetto temperamento della madre, quello che, associato ad una donna, faceva venire un inspiegabile voglia di confessare tutti i propri segreti. Mona non era mai eccessiva, né nei modi di fare, né nel vestire: quella sera indossava una semplice veste da camera a fiori, di un color albicocca pallido, che le schiariva la carnagione.
Appena lo vide, sul suo viso comparve un largo sorriso.
«Theseus, ciao! Non mi aspettavo di vederti da queste parti...»
«Volevo ricambiare la visita. L'ultima volta non ho potuto fermarmi molto a parlare...»
«Sono venuta in un pessimo momento, lo so, mi dispiace. Non pensavo avrebbero tenuto un'assemblea così importante a Londra, saranno anni che in questa casa non entra un quotidiano!» Scherzò, strappandogli una risata. «Dai, vieni dentro e passami il cappotto.»
La seguì all'interno dell'appartamento, un bilocale abbastanza spazioso e molto luminoso. La tappezzeria rifletteva il motivo delle pareti, l'arredamento appariva essenziale ma funzionale. L'orecchio di Theseus fu attirato dalla musica che proveniva da una vecchia radio. Troneggiava sulla cassettiera di legno dell'ingresso insieme ad un'elegante abat-jour che stendeva la sua luce sull'intero salottino. Nel complesso, l'appartamento era un tripudio di colori caldi, rossi e rosa, mai abbinati in modo stravagante ma sempre accostati con raffinatezza. Dava un senso di vivacità ed equilibrio, proprio come Mona.
La donna gli indicò il divano, mentre rovistava tra i mobili della cucina. «Puoi sederti sul divano, fai come se fossi a casa tua», dichiarò. «Posso offrirti qualcosa? Non ho molto, ho le tisane, il té... Forse ho una bottiglia di sidro, da qualche parte...»
«Dell'acqua andrà benissimo, non preoccuparti.»
Vedendola in difficoltà le sorrise, per metterla a proprio agio. Mona non invitava quasi mai ospiti a casa sua. Era una tipa solitaria, al contrario di suo marito, che in vita era stato una persona piuttosto attiva.
«Come sta Charlie?» Le chiese, buttando il discorso sul figlio della coppia. L'unica cosa che sapeva era che doveva avere ormai più di dieci anni.
«Oh, Charles sta benone. Mi scrive da Hogwarts tutte le settimane. Quella sul tavolo è sua.»
Gli passò il bicchiere di acqua e si sedette sulla poltrona, ammiccando con un sorriso alla lettera aperta proprio davanti a lui. «Lo hanno messo in Grifondoro. Tale e quale al suo papà! Glielo dico sempre.»
Mona si lasciò scappare una piccola risata. Doveva essere dura crescere un figlio da soli e sopportare allo stesso tempo l'assenza di chi quel figlio aveva contribuito a metterlo al mondo. A livello emotivo, Mona aveva sempre dimostrato un'enorme forza d'animo. Theseus l'ammirava molto per questo. Aveva sempre creduto di avere tanto da imparare da Mona Fernsby, anche prima di ritrovarsi nella sua medesima condizione.
«Tu invece che mi dici? Come te la passi al Ministero?»
«Ce l'hai una domanda di riserva o sono obbligato a rispondere a questa?»
Mona non replicò, attese che fosse lui a farlo. «Siamo un po' in difficoltà, a dire il vero. Ce la caviamo, per ora, ma non so quanto il sistema reggerà.»
«Stiamo parlando di te o del sistema?»
Theseus incrociò lo sguardo della donna. «Entrambi», dichiarò infine, abbozzando un mesto sorriso.
Calò per un attimo il silenzio. Mona lo scrutava attentamente dalla poltrona. Era in grado di non farlo mai sentire giudicato, bensì compreso e appoggiato.
«Forse dovresti prenderti una pausa» suggerì la donna, rompendo la quiete.
Lui scosse la testa, guardando prima un punto indefinito sul pavimento, poi di nuovo alla padrona di casa. «Mi piacerebbe, ma non è un opzione. Le persone in tempi come questi hanno bisogno di sentirsi al sicuro, e noi Auror dobbiamo essere pronti a proteggerle.»
«Certo, voi proteggete gli altri, ma chi resta a proteggere voi?»
Theseus alzò un sopracciglio, perplesso. Non capiva dove Mona volesse arrivare con le sue osservazioni. «È il nostro lavoro, Mona. Conosciamo i rischi.»
«Lo so, lo so, ed è meraviglioso che tu e i tuoi vogliate trasmettere un messaggio positivo alle persone. Ma nei momenti di difficoltà bisogna anche imparare ad ascoltare se stessi. Prima di chiederti di cosa hanno bisogno le persone, ti sei chiesto quello di cui tu hai bisogno?»
Quella domanda gli arrivò come una secchiata di acqua gelida. La percepì scivolargli addosso, bagnarlo dalla testa ai piedi, penetrare negli anfratti fino al cuore. A volte dimenticava di averne uno. Parlare con il suo cuore non gli era mai risultato facile, e non lo sarebbe mai stato. Ogni volta che tentava di avvicinarsi a lui lo trovava stanco, timido, rinchiuso nel suo piccolo e buio angolino a sinistra del petto. Se ne stava lì, da solo. E batteva ancora, piano piano, cosicché lui lo potesse sentire solo di notte o quando veniva destato da qualcosa: una melodia, una poesia, una risata cristallina.
«Da quando lei è morta» proseguì Mona, «ti sei dedicato anima e corpo al tuo lavoro nella speranza che aiutare le persone potesse farti sentire meglio con te stesso. Hai ascoltato le richieste di tutti quelli che venivano a chiederti aiuto, ignorando quelle dell'unica persona che di questo aiuto necessitava sul serio: Theseus Scamander.»
C'era un metro a separarli, eppure la donna gli parve più vicina che mai allo svelare il contenuto sul fondo del cassetto.
Appoggiò il bicchiere d'acqua sul tavolo dopo aver bevuto un sorso, più per smorzare la tensione che per la sete. La luce tenue delle lampade che illuminavano il suo volto concentrato, il tono pacato e fermo con il quale gli si era rivolta, il fatto che Mona non avesse nominato Leta ma l'avesse evocata in quel modo così subdolo e fine al contempo... Tutte quelle cose insieme avevano scosso qualcosa, giù negli antri più inesplorati della sua anima.
«Questo non è un gioco, Mona. Là fuori ci sono le premesse per far scoppiare un'altra guerra.»
«Credi che io non abbia paura della guerra? Ho perso la persona che amavo, per colpa della guerra. Mio figlio è là fuori con gli altri ragazzini della sua età... Al sicuro, sì, ma per quanto?»
Avvertì un fervore crescente nella voce di Mona, un fervore carico dell'apprensione di una madre per il proprio figlio, che stava muovendo i suoi passi in un mondo sull'orlo del declino.
«Quando ho perso Pete è stato orribile. Sapevo che il bambino che portavo in grembo non avrebbe mai potuto conoscere suo padre, e questa consapevolezza mi logorava giorno dopo giorno. Ma ho capito che se volevo che mio figlio crescesse e avesse fiducia nel suo futuro, dovevo guarire e avere fiducia io per prima. Il dolore è vivo, ma non mi ha condizionata. Ho accudito mio figlio, ho cercato di essere per lui madre e padre. È vero, non mi sono risposata, ma sento di non averne bisogno. A Charlie manca suo padre, ma io ho lui e lui ha me. A entrambi sta bene così, e so che Pete approverebbe.»
A quel punto, Mona abbandonò parte del trasporto che quella conversazione aveva sollevato in lei. Gli rivolse un sorriso più dolce, tornando ad essere la donna amorevole e attenta che era di solito. «Tu però non hai un figlio. Sei completamente solo al mondo, Theseus. Non hai nessuno da poter abbracciare rientrando a casa, nessuno con cui condividere la tua giornata seduto ad un tavolo, nessuno a cui dare la buonanotte prima di andare a letto. Abiti in una casa vuota, e l'unica compagnia che ti concedi è quella dei tuoi pensieri. Vuoi passare sul serio così il resto della tua vita?»
Si addossò allo schienale del divano e scrollò le spalle, provando a mascherare la sua tristezza dietro ad una bugia. «Forse mi piace stare da solo.»
Il sorriso di Mona si allargò. «So che non è così.»
Avrebbe voluto attendere ancora un po' per mostrargli la lettera, ma quello gli sembrò il momento adatto per svelare a Mona il vero motivo della sua visita. E poi, non voleva entrare ancora di più in quei discorsi sulla solitudine. Era uno dei tanti tasti dolenti che preferiva trascurare, per quanto possibile.
Senza proferire parola sfilò la busta dal libro che si era posato accanto, quello che aveva portato da casa sua. La allungò alla donna, che alzò un sopracciglio confusa.
«Prendila. È anche per questa che sono venuto, stasera. Sei l'unica persona che conosco che sa cosa si provi ad essere un genitore. E mi fido del tuo consiglio.»
Mona prese in mano la lettera e l'aprì, chiedendo lui prima il consenso, che le venne dato tramite un piccolo cenno della testa. Seguì una pausa spezzata da un sospiro, dopo la quale Theseus prese a riassumere i fatti precedenti alla missiva ad alta voce.
«Durante la missione a Rio, siamo stati ospitati da un'anziana signora nella sua villa, una vedova, che aveva perso la sua intera famiglia. C'era una bambina però che viveva sotto il suo stesso tetto, un'orfanella, timida ma piuttosto intelligente. La bambina badava alla "nonna", e quella alla bambina. Ora però le cose si sono complicate. La signora Costela, la padrona di casa, si è ammalata gravemente. Non le resta molto, e...»
«E vuole che tu adotti la piccola.»
«Sì, esatto.»
Conosceva a memoria il contenuto di quella lettera, eppure aveva l'impressione che non sarebbe mai riuscito a pieno ad assimilarlo. Qualcosa nelle parole di Mãe Costela gli suonava sempre fuori luogo. Forse era dovuto al solo fatto che si sentiva totalmente inadatto per fare da padre ad una bambina; anche se dall'altra parte costruirsi una famiglia era stato il suo sogno per anni...
Qui sussisteva il problema di sempre, quello con la P maiuscola. Riflettere su quel tipo di sogni lo stancava e demoralizzava ora che Leta non c'era più.
Forse quello fuori luogo alla fine era lui, non le parole. Le parole... Cos'erano in fondo, le parole? Inchiostro su carta, in sé nulla di speciale. Ma erano anche fantasmi, spiriti che infestavano i suoi sogni e non gli davano pace.
Theseus rialzò lo sguardo, incrociando i grandi occhi verdi di Mona Fernsby, che apparivano ancora più enormi schizzati dagli scintillii della luce riflessa sulle minuscole lacrime, rimasugli della conversazione precedente.
«La lettera è di un mese fa. Ho già sprecato quattro settimane a rimuginare senza risultati. Sono ancora al punto di partenza.» Dichiarò afflitto. «Che cosa devo fare?»
Il silenzio che precedette le parole di Mona fu angosciante, tanto che Theseus ebbe l'impressione che la donna stesse ritardando la risposta di proposito. Si pentì immediatamente di quei pensieri e li scacciò a forza, sforzandosi di rimanere concentrato e trattenere le emozioni.
«Credo che dovresti accettare» fu la sentenza finale, che lo fece scattare sull'attenti. «Adottala. Che hai da perdere?»
Mona Fernsby lo squadrava con approvazione, sembrava sul serio felice per lui. Insomma, perché non avrebbe dovuto esserlo? Era sua amica da quasi un decennio. In più, era l'unica ad essere a conoscenza di quel segretissimo desiderio del suo cuore.
Voleva adottare Calipso Costela, eppure non riusciva a convincersene. C'era una guerra imminente fuori da quelle mura che gli impediva di esserne davvero sicuro.
«È solo che non voglio che viva anche lei nel timore. La situazione è delicata sul serio, con Grindelwald che acquista potere ogni giorno...»
«Potrebbe avere una sorte ben peggiore. La spedirebbero chissà dove, e in quel caso sarebbe sola.»
Era davvero un'ottima argomentazione, bisognava ammetterlo. L'immagine di Calipso Costela sola al mondo gli stringeva il cuore. Era in gamba, quella bambina, di sicuro più della media alla sua età. Aveva già vissuto da sola, ma non meritava di fare di nuovo quella fine. Seppur quell'idea lo destabilizzasse, Theseus temeva che i suoi dubbi sarebbero rimasti tali. E se non ce l'avesse fatta da solo a crescerla come meritava? A chi poteva andare a chiedere aiuto? Mona aveva già suo figlio a cui badare. Le cose tra lui e Newt erano ancora complicate; in più, Newt non era esattamente il tipo di persona adatta a dare quel tipo di avviso. Tina forse ci avrebbe provato, ma Theseus non era certo delle conclusioni che ne avrebbero ricavato.
Rimanevano Amis e Charlotte. Sapeva che Amis aveva intenzione di non affrettare le cose con Athena, nonostante fossero sposati da anni. Erano della stessa opinione, entrambi avevano il proprio lavoro al quale pensare, lavoro che non era né dei più sicuri, né dei meno stressanti. Escluso anche il suo consigliere, restava solo un'ultima persona oltre a Mona alla quale poter chiedere consiglio.
Evitava di pensare a lei, o di farlo il meno possibile. Da quando lei si era aperta quella sera nella sala degli addestramenti, si erano visti di sfuggita e solo per parlare del piano per la cerimonia. Aveva iniziato a sentirsi strano tutte le volte che l'aveva intorno, meno impassibile, più vulnerabile e incline a lasciarsi sopraffare dalle sue emozioni. Non era a disagio, ma la sensazione che provava ci andava piuttosto vicina.
L'impressione era quella che entrambi avessero capito che qualcosa stava cambiando tra di loro. Tuttavia, sia lui che lei parevano voler ignorare quel presentimento, come se da un momento all'altro quello potesse scomparire. Charlotte si ostinava a trattarlo con una sorta di altezzosità simulata. Era una cosa che gli dava sui nervi, perché sapeva che era tutta una finzione. Di certo però non poteva biasimarla nella scelta di stargli lontano, non dopo quello che lei gli aveva rivelato. Ora tutto gli appariva più chiaro: il perché Charlotte avesse tanta paura della stampa, o il perché tendesse a nascondere quello che davvero provava e preferisse tacere, piuttosto che esporsi.
Avrebbe voluto dirle di più quella sera, ma era stato tutto veloce, improvviso, gli era parso di stare dentro una specie di giostra. L'aveva trovata completamente distrutta, addossata al muro col viso coperto dalle lacrime, e aveva fatto la cosa che gli era parsa più sensata: provare a calmarla. Di solito ci sapeva fare con le parole, eppure si era accorto presto di non riuscire a spiccicarne nemmeno una, così aveva unito il piano A al piano B e l'aveva abbracciata. In verità quella sarebbe stata la sua ultima opzione, ma il suo istinto gli aveva suggerito che poteva funzionare e lui aveva fatto un tentativo. Per una volta aveva fatto la scelta giusta. Era rimasto positivamente sorpreso di se stesso, tanto da riguadagnare un minimo di sicurezza quando non aveva più udito i singhiozzi di lei. Non l'aveva forzata, aveva lasciato scorrere la conversazione, riscaldato dalla consapevolezza che Charlotte si era ripresa ed era in parte merito suo.
Forse era un bene che le avesse taciuto una parte dei suoi pensieri, che lei lo avesse interrotto iniziando a parlare di uno dei tanti misteri irrisolti ancora sul loro tavolo. Avevano entrambi una reputazione da mantenere, anche se una stringa invisibile riusciva ad unire i loro cuori per qualche istante, rendendo ancora più semplice l'intima comunione delle loro anime. Forse proprio quell'intimità così naturale lo aveva spinto a formulare nella sua testa la frase che poi era rimasta sospesa, troncata dal tono deciso di lei. Charlotte non avrebbe saputo, e forse anche questo era un bene.
Forse quella frase avrebbe complicato le cose. O forse chissà, le avrebbe fatto capire che per lui la sua felicità era importante sul serio.
Perso in mezzo ai suoi "se" e ai suoi "forse", aveva ignorato la padrona di casa, che non tardò a mostrarsi preoccupata per il suo silenzio.
«Theseus? Sei ancora lì?»
Mona Fernsby attendeva una sua risposta, e chissà da quanto tempo. Aveva aggrottato la fronte, capendo al volo che non le stesse più prestando attenzione.
«Sì... Sì, certo.»
Di cosa stavano parlando?
Calipso Costela.
Giusto, Calipso Costela. La questione era anche piuttosto importante per lui. Impressionante quali derive riuscisse a prendere la sua mente quando era scombussolato. I problemi che si stava ritrovando ad affrontare erano troppi persino per uno come lui, pratico, sempre in grado di tirar fuori una soluzione. Gli venne voglia di scavarsi una buca sotto i piedi e seppellirvicisi all'interno. Sarebbe stato tutto più semplice.
Da quando erano cominciati i problemi con suo fratello si era sentito sempre più perso. Aveva costantemente l'impressione di essere schiacciato dal peso delle sue stesse paranoie, che gli impedivano di analizzare le situazioni in modo razionale. Tutto quel che diceva o faceva, glielo suggeriva il suo animo, scaldato ora da questa, ora da quell'emozione. Detestava lasciarsi guidare dal cuore, perché la maggior parte delle volte che quest'ultimo prendeva il comando, lui ricadeva in un errore più o meno grave. Per questo tendeva a tenere per sé i suoi pensieri, come con Charlotte. Pensieri che s'intrecciavano, fuggivano e ritornavano, proprio come stava accadendo in quel momento.
Si accorse di star divagando di nuovo, perciò tentò di concentrarsi sulla lettera di Mãe Costela e sui lineamenti distesi di Mona Fernsby, ancora lì a qualche metro da lui, sempre in ascolto.
«Sei legato a quella bambina?»
Theseus tirò un sospiro. «Sì che lo sono, ma...»
«E allora perché non ci provi? Pensaci: potrebbe aiutarti a superare definitivamente la perdita di Leta!»
Questa volta Mona non si fece scrupoli nel nominarla. Eppure non fu tanto questo a sorprenderlo, quanto l'effetto che quel nome produsse su di lui. Per la prima volta la lama lo sfiorò, senza però affondare nella carne. Non sentì la solita morsa stringergli il petto, né le lacrime si affacciarono ai suoi occhi. L'impatto tra lui e il ricordo di lei fu quasi indolore. L'aveva superata? Non del tutto, forse non ancora. Però mancava poco, pochissimo alla pagina successiva. Un ultimo passo, un atto di coraggio. Alzò lo sguardo per incrociare quello di Mona, luccicante di emozione.
«I bambini sono creature affascinanti... Sanno curare ferite profonde senza neanche provarci.»
Quindi era quello, il famigerato atto decisivo. Avrebbe dovuto portare avanti da solo il sogno che era stato suo e di Leta. Avrebbe costruito sulle rovine di una casa un nuovo nido, si sarebbe occupato di una bambina che avrebbe amato come fosse sangue del suo sangue. Sembrava una prospettiva felice, un'idillio quasi perfetto...
Non foss'altro che per l'enorme problema di Grindelwald.
Il suo nome era sulla lista nera del mago oscuro, poco ma sicuro, scritto in mezzo a quelli di chi con lui aveva rischiato la vita per salvare Rio de Janeiro. In sua compagnia, Calipso sarebbe stata in continuo pericolo. E se fosse accaduto qualcosa a quella bambina lui non se lo sarebbe mai perdonato. Perché era fatto così, Theseus.
Pensò a lungo a come replicare alla sentenza di Mona. Alla fine, decise che il modo migliore per liberarsi delle sue angosce era uscire allo scoperto.
«Il fatto è che avrei voluto più tempo, più energie per poterci pensare. Al Ministero siamo sul filo del rasoio. Ogni settimana c'è un bilancio di vittime da stilare, piani d'azione da ridefinire... Cerco di stare dietro a tutto, ma è difficile conciliare anche la mia vita privata. Ogni giorno mi sento come se arrancassi di più, sempre di più... Mi capisci? Non so se riuscirei a sopportare la responsabilità di una bambina sotto il mio stesso tetto.»
Vide la donna annuire, un cenno d'intesa. «Sì, capisco.»
Si sorrisero, e quell'atto mise fine alla tensione, a quel momento di confronto avvenuto dopo tanto tempo. Con quei sorrisi chiusero l'intero fiume di parole in un'invisibile busta sigillata, di cui lui e Mona Fernsby sarebbero stati gli unici custodi.
«So io che cosa ti ci vuole» esordì Mona d'improvviso, alzandosi in piedi. «Una bella pausa di riflessione.»
Theseus alzò un sopracciglio. «Una pausa di riflessione? Non abbiamo già riflettuto abbastanza?»
«Non si riflette mai abbastanza, mio caro. Saliamo in terrazza?»
Sospettava che la donna volesse arrivare a quel punto, e fu felice della proposta. Il sole doveva essere calato da un po', perciò le stelle sarebbero apparse a breve, una dopo l'altra attorno alla luna. Mona conosceva la sua passione per l'astronomia, era un interesse che li accomunava. Lei sapeva riconoscere le costellazioni a colpo d'occhio, era una forza della natura da quel punto di vista. Lui si limitava a studiare quei disegni in cielo, chiedendosi se vi fosse racchiuso un messaggio, un qualche segno, sotto quella minuscola aura di luce.
Ripiegò la lettera di Mãe Costela infilandola nella tasca della giacca, dopodiché inseguì la voce di Mona per le scale, la sua risata mentre gli spalancava le porte del terrazzo.
La serata era fresca di quella brezza primaverile che soffia di solito dopo le giornate di pioggia. Del sole non c'era più traccia, se non una leggerissima luce azzurrina all'orizzonte. A ergersi sopra le loro teste vi era il blu più profondo, spruzzato di bianchi puntini. Si fermò per un attimo dietro Mona Fernsby per ammirare lo spettacolo. Si vedevano le luci della città, lontane, che molto avevano da invidiare alla manifestazione della natura che le sovrastava e s'imponeva, come giusto che fosse, perché quelle erano le regole del gioco. L'universo sopra, l'uomo un gradino al di sotto.
Mona aveva reso l'ambiente spoglio un posto accogliente, portandovi due sedie e un tavolino piuttosto spartano, ma che adempiva bene al suo compito. Theseus fece qualche passo verso il muretto che fungeva da balconata, mentre Mona si stringeva nelle spalle, osservando i tetti in lontananza.
«Si gela, stasera!» La sentì esclamare.
«Tu dici?»
«Non dirmi che davvero non senti il vento...»
«Lo sento eccome, il vento. Ma ho sentito di molto peggio.»
Si fissarono per qualche istante. Mona fece spallucce. «Forse sono io. A furia di stare in casa mi sto trasformando in un essere a sangue freddo!» Rise, contagiando anche lui. Fece guizzare gli occhi a destra e a sinistra come per cercare una sciarpa o un cappotto, ma le sedie erano vuote. «Vado a prendere qualcosa da mettermi addosso. Tu aspetta qui.»
«Sicura di non volere una mano?»
«Oh, no, tu non vieni! Voglio che ti prendi un momento per te stesso» gli ordinò Mona, con lo stesso tono di una tata inflessibile. Theseus, che non era in vena di repliche, la lasciò andare, restando solo con il suo libro e le stelle.
Non aveva idea del perché non si fosse liberato di quel volume. Più volte gli era balenata in testa l'idea di venderlo o regalarlo a qualcuno, alla peggio di restituirlo ai suoi genitori. E invece l'aveva tenuto in un angolo della libreria, dietro le sue amate poesie. Se lo rigirò un po' tra le mani, accarezzandone il dorso rosso, ancora come nuovo. Era una raccolta di racconti di un certo Cornelius Agrippa, un vecchio autore del quindicesimo secolo. Le sue storie al tempo erano state considerate maledette, o almeno, questo narravano le leggende. A sua madre erano sempre piaciute, così come ai suoi nonni e bisnonni. Come l'orologio dorato, il libro era un cimelio di famiglia che era passato a lui dato lo scarso interesse di Newt per gli oggetti antichi.
In effetti, quel libro sarebbe stato perfetto nella vetrina di un negozio di antiquariato. Una vecchia copia di un manoscritto del quattrocento di cui molte edizioni erano state bruciate. I collezionisti avrebbero fatto a gara per averlo, pagando cifre esorbitanti. Eppure, Theseus aveva l'impressione che non sarebbe mai riuscito a liberarsene. Aveva un legame affettivo con quei racconti. Sua madre li alternava a quelli di Beda il Bardo quando lui e Newt erano piccoli e faticavano ad addormentarsi. Da bambino li adorava, con il tempo aveva cominciato a pensare che fossero troppo semplici e li aveva relegati alla stregua di un semplice pezzo della sua infanzia.
«Stupido vecchio libro...» mormorò tra sé e sé, leggendo il titolo a grandi lettere nere sul frontespizio.
Piccole Novelle
Di Cornelius Agrippa
Aprì il volume nel punto in cui era stato messo il segnalibro, spinto da un'improvvisa curiosità. Si trattava di uno degli ultimi racconti, quelli che tanto annoiavano suo fratello e tanto affascinavano lui. Era una novella a fondo etico, s'intitolava: Il viaggiatore stanco. Dando le spalle alla città, Theseus iniziò a scorrere le parole, complice la luce che proveniva da una piccola lampada accesa in un angolo della terrazza.
Errava solo in una gelida notte d'inverno uno stanco viaggiatore. Arrancava un passo dopo l'altro, su per un ripido pendio, portando sé appresso un gran peso, che egli chiamava Passato.
Dopo ore interminabili di cammino, il viaggiatore giunse ad un sentiero, che circondava una fosca boscaglia. A quella vista i suoi occhi s'illuminarono di gioia, seppur non riuscissero ad arrivar lontano. Poco importava: la speranza nell'uomo era invisibile ma potente. Fantasticava di riposare al termine del lungo vagabondare, magari in una bella casuccia, sotto una calda coperta. Pertanto, senza esitare, il viaggiatore si mise il Passato in spalla e imboccò il sentiero.
Proseguì imperterrito, sorretto da una prepotente speranza, sino al calar del sole. Ma un'amara sorpresa venne lui riservata dal caso. Il sentiero infatti s'interrompeva a metà. Il viaggiatore non si arrese. Avanzò finché potè, con lo sguardo innanzi, senza voltare i piedi a retro.
Arrivato alla fine del sentiero, l'uomo scoprì una piccola stradicciola che da esso si dipanava, attraversando la foresta. Forse non tutto era ancora perduto, si disse il viaggiatore. Ma che fare? Sarebbe stata una dura traversata, e lui non avrebbe di certo avuto la forza necessaria per mollare il sentiero sicuro e incamminarsi verso l'ignoto. Sicché il viaggiatore dovette compiere una scelta. Non fu facile per il poveretto. Dovette fare appello ad animo e cuore, seppur inquieti, e da loro lasciarsi guidare. Alla fine decise di abbandonare il Passato sul sentiero, per alleggerire il cammino, e ripresa la speranza deviò per la stradicciola. Le stelle gli indicarono la via.
Con sua grande sorpresa, il viandante scoprì che la stradicciola portava ad un altro sentiero, diverso dal primo, nel quale brillava una gran luce, e che il sentiero portava a sua volta ad una verdeggiante radura. Quale gaudio, quale ardore riempì il cuore del viaggiatore! Ed ecco ch'egli scorse finalmente all'orizzonte la tanto desiderata casa, che pareva attendere proprio lui. Laggiù, proprio dietro l'anelato uscio, una bellissima dama dagli occhi zaffiro offrì lui di condividere il proprio tetto. E aprì con gioia le sue porte a quegli che dimora non più avea, fortezza molta.
Tirando un sospiro, il viaggiatore si guardò indietro, e gli sovvenne di pensare a ciò che giaceva ora sugli squallidi ciottoli. Convenne nell'ultimo travaglio che il Passato sarebbe sempre stato con lui. Vi avrebbe guardato con rammarico ma con grazia, poiché d'ora innanzi sarebbe stato grande ausilio nell'avanzare.
Alla fine di tal conti, il viaggiatore si abbandonò nel sicuro abbraccio delle coperte. E chiuse gli occhi allo svanir dell'ultima stella.
Abbassò lo sguardo, chiudendo il libro di fronte a sé. Lo invase uno strano senso d'impotenza, come se le parole avessero sollevato un velo di polvere che dapprima gli annebbiava la vista. Fu come se quel racconto gli avesse aperto gli occhi su tutto, sulla sua situazione, sulla possibilità di partire da quello che era stato e diventare una persona nuova.
Forse quel libro non era poi così stupido come pensava.
Stava ancora aspettando il momento giusto per fare il passo successivo. Ma se non ci fosse stato, un momento giusto? Tutti i momenti in fondo sono uguali, si disse, non sono che piccoli istanti di tempo. Quello che rende diversi alcuni di essi è l'uso che ne facciamo, il modo in cui in essi agiamo, le risate o i pianti con cui li colmiamo.
Sono le nostre azioni a scandire la percezione dei nostri giorni.
Sebastian nella sua esuberanza aveva sempre avuto ragione. Era lui che doveva andarla a cercare la felicità. Era lui che doveva partire e rischiare, proprio come aveva fatto il viaggiatore.
Forse anche alla fine del suo sentiero ci sarebbero state una coperta e una casa.
Gli avevano ripetuto più volte che doveva lasciarsi il passato alle spalle. Theseus si ritrovò a riflettere per la prima volta sul serio su quelle parole. Magari non doveva abbandonare del tutto il passato, ma, come il viaggiatore, doveva lasciarlo su un sentiero per poterne percorrere un altro. Ci voleva solo un po' di coraggio, un po' di forza per poter accettare il proprio essere, difetti compresi, e per porsi in un modo diverso nei riguardi della vita.
Aveva fatto tanta strada per arrivare lì. E fermarsi a metà del sentiero dopo tutta la fatica che gli era costata il viaggio sarebbe equivalso a vaneggiare tutti i suoi sforzi. E lui non voleva che ciò accadesse.
Pensò a Leta, che era sempre stata un supporto per lui in vita. Sentiva ancora di avere un legame affettivo con lei, ma sentiva anche il bisogno di doversi allontanare un po' dal suo fantasma. Leta poteva diventare un appoggio, un amato ricordo da evocare nel momento del bisogno più profondo. Ma questa memoria, seppur cara, non poteva condizionarlo per sempre. Theseus voleva cambiare, e se voleva farlo doveva partire dalla radice del proprio dolore, alzare i muri e permettere ad altre forze di attirarlo a loro. Voler ricominciare non era un peccato, giusto? E allora lui non avrebbe dovuto sentirsi in errore, giusto?
"Non è un peccato", ripeté per se stesso, per ricordarlo più tardi, quando avrebbe ripreso i fili di quella riflessione e forse ne avrebbe ricavato qualcosa di valido.
Posò di nuovo il libro sul muretto appena udì dei passi avvicinarsi.
«Sono tornata!» Mona rientrò trionfante dalla porta, con un gran sorriso. «Ho preso uno scialle, il tuo cappotto e questa!» Gli mostrò la bottiglia come fosse un trofeo, lasciandolo parecchio sorpreso.
«Non eri astemia?»
«Non ho mai detto di essere astemia. Solo, non bevo troppo spesso.»
La padrona di casa gli allungò il cappotto, posando sul tavolino calici e sidro. Stappò la bottiglia con impressionante abilità, iniziando a versare il liquido nei bicchieri.
«Mi auguro ti piaccia il sidro. Non l'ho mai assaggiato, e ho pensato potessimo farlo insieme. Insomma, dopo tutto quello che ci siamo detti giù penso che un bicchiere ci scalderà.»
Non riuscì a non sorridere di fronte a quella proposta. Il suo cervello aveva ingranato così tanto in quegli ultimi cinque minuti che Theseus avvertiva su di sé un insolita spossatezza, anche se lo percepiva tutto sommato come un buon segno. Il racconto aveva tolto l'ultima pietra, rendendo più nitido il suo orizzonte. Nonostante i timori fossero ancora vivi in lui, adesso c'era anche qualcos'altro che non provava da tempo. Speranza.
S'infilò il cappotto e raggiunse Mona Fernsby, prendendo in mano il calice che lei gli porse.
Li fecero tintinnare. «Ad altre mille di queste serate!»
«Magari con meno riflessioni, il mio cervello fa fatica a reggerle.»
Mona Fernsby rise, bevendo un sorso del suo sidro con una smorfia. «Oddio, non sono più abituata!»
Chiacchierarono amichevolmente per un po', seduti uno accanto all'altra sulle sedie. Quando ebbero bisogno di sgranchirsi le gambe si avvicinarono di nuovo al muretto, proprio dove Theseus aveva lasciato il suo libro.
«Cos'è quello, a proposito? Poesia?» Domandò Mona, ammiccando alla raccolta. Theseus la riprese in mano, esitando un istante. Se la mise sottobraccio, fingendo che non fosse nulla di importante.
«Oh, no, è un vecchio libro di quando ero piccolo. Lunga storia.»
«Capito.»
Chissà se lei gli aveva creduto. Non si poteva mai sapere, con le donne. Possedevano uno strano intuito, e questa era una cosa da non sottovalutare. Si poteva dire che ne avesse fatto esperienza, anche se l'avrebbe più definita come "una serie di imbarazzanti circostanze". Non sapeva se maledire o ringraziare Charlotte per quello.
Rivolsero entrambi lo sguardo al panorama. Theseus meditò su quanto Londra potesse essere bella anche sotto quella patina di oscurità. E poi le stelle... Gli balzò alla mente un affermazione di sua madre, detta in una serata come quella. All'epoca doveva aver avuto sette anni. Sua madre lo aveva portato in giardino per calmarlo dopo un brutto sogno. "Non ucciderà i demoni, ma li scaccerà per un po'", erano state le parole di Hazel Scamander, sdraiata nell'erba accanto al figlio maggiore. Quei ricordi fecero nascere un sorriso. Chissà perché li aveva tenuti in un angolo tutto quel tempo.
Si era così concentrato sui suoi problemi che aveva trascurato tutto quanto: la famiglia, gli amici... se stesso, come aveva detto Mona.
E invece eccola, al di là del filo spinato. Vita.
Un'inarrestabile, pulsante vita.
Non si accorse che gli occhi di Mona erano puntati su di lui fino a che lei non gli rivolse di nuovo la parola, distogliendolo dalla bellezza del paesaggio, dai suoi ragionamenti, da tutto il resto.
«Quindi hai concluso qualcosa, durante la mia assenza?»
Si voltò e annuì. Un cenno debole, ma convinto. «Qualcosa, sì. Credo tu abbia ragione, sulla faccenda dell'ascoltare me stesso.»
«E la bambina? Cosa farai, la adotterai?»
«Quello è ancora un punto interrogativo. Ma ci penserò. Forse potrebbe aiutarmi sul serio a guarire.»
Gli occhi di Mona luccicarono di gioia. «Facciamo progressi, finalmente!»
Ci fu un altro paio di scherzosi scambi di battute, poi arrivò di nuovo il momento di tornare agli argomenti più scottanti.
«Immagino tornerai al Ministero, adesso...»
Theseus scrollò le spalle. «È il mio lavoro. Non posso tradire le persone che hanno bisogno di aiuto. E poi abbiamo ancora un caso molto complesso da risolvere e aspettiamo di scoprire più dettagli...»
«"Abbiamo"?» Lo interruppe Mona, ammiccante.
Si maledisse per aver usato il plurale. Era talmente solito farlo, con Amis quando si riferiva a se stesso e a Charlotte, che dimenticava di dissociare la sua figura da quella della donna persino quando non era al Ministero. «È un'altra lunga storia che non ti racconterò, quindi non insistere perché non funzionerà.»
Mona lo guardò di sottecchi per un po'. L'espressione era la stessa con la quale lui guardava suo fratello durante i primissimi giorni nei quali lui e Tina si frequentavano. La cosa provocò in lui una strana miscela di divertimento e imbarazzo, che per fortuna riuscì a non tradire sul suo viso.
«Così però aumenti la mia curiosità, lo sai?»
«Ci manca solo qualcun altro che la pensi come i giornali, non voglio che accada» tagliò corto, ripreso il contegno. Non aveva intenzione di creare altro scompiglio attorno a lui e Charlotte. Specialmente attorno a Charlotte. Avrebbe protetto quel poco di riservatezza che restava da proteggere, se voleva dire non procurare alla giovane Malfoy altra pressione.
Mona non insistette oltre, ma gli si avvicinò posandogli una mano sulla spalla. Le fu grato per quel gesto d'incoraggiamento e per le sue parole, perché nella loro semplicità e sincerità lo rianimarono sul serio.
«Sei un brav'uomo, Theseus. E le persone a cui vuoi bene lo sanno. Non lasciare che i ricordi ti impediscano di vivere.»
Lui ricambiò con un mezzo sorriso. Aveva imparato a guardarsi allo specchio negli ultimi tempi, a vedersi per ciò che era.
Non si sarebbe definito esattamente una brava persona, più una persona che cercava il più possibile di esserlo.
Una persona che cercava di rinascere dalle sue ceneri, una volta per tutte.
Non era più abituato ad abbracciare i suoi sentimenti, ma forse capirli lo avrebbe aiutato a prendere una decisione, chissà. Inspirò l'aria della sera, fresca e pungente, e chiuse gli occhi per un istante. Si concentrò sui battiti del suo cuore, ripensando ai nomi che più spesso gli balzavano alla mente quando pensava al suo domani. E il messaggio di quei battiti gli apparì chiaro, per la prima volta.
Uno. Due. Tre.
Tu. Devi. Provarci.
SPAZIO AUTRICE
Questo capitolo è forse uno dei più complessi a livello immaginativo e introspettivo che io abbia mai scritto. È un mondo a sé, che può e vuole dare sfogo a mille e più interpretazioni da parte vostra e anche mia. Tante riflessioni sono molto personali, le metafore sono il frutto di un amore sconfinato per quella che è la tradizione letteraria in generale. Ho voluto dare una mia interpretazione di quanto i processi della vita siano molto graduali, vadano gradino per gradino a comporre poi il quadro di una rinascita.
Non mi dilungherò oltre, ma spero davvero che questo capitolo vi abbia lasciato qualcosina. Chiude un cerchio per il personaggio di Theseus, ma penso che lo chiuda anche un po' per me.
Se il capitolo vi è piaciuto e vi va, lasciate come sempre un commento o una stellina. E tenetevi pronti per l'azione, che non mancherà dai prossimi capitoli!
- Mavi ❤️
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