31. 𝐐𝐮𝐞𝐬𝐭𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚
CHARLOTTE'S POV
Qualche ora prima
Bussò alla porta dell'ufficio. Una voce energica rispose dall'altro lato.
«Avanti!»
Entrò con cautela e un sorriso stampato, quasi da rivista. L'ufficio era piccolo, ma arredato in maniera tale da sembrare molto ampio. Su un lato della parete era appoggiata un'imponente libreria zeppa di codici e manuali dalla copertine decorate in oro. Sopra la scrivania in legno rosso al centro campeggiavano diverse pile di carte rilegate e due cornici, nelle quali vi erano le fotografie di due bellissimi gemelli.
«Ah, signorina Malfoy! Venga, venga pure.»
«Perdoni il ritardo, signor Halloway, ma ho... avuto un imprevisto.»
«Si figuri, ho incontrato ritardatari peggiori. È un piacere conoscerla.»
Attilius Halloway gestiva una parte delle faccende giudiziarie per il Wizengamot. Era un frizzante figurino sulla quarantina dal viso allungato, due occhi chiari e vivaci e un paio di baffi mori non troppo vistosi, ma che sapevano come farsi notare.
Si strinsero la mano e, con un cenno, lui la invitò a seguirlo e a sedersi di fronte a lui.
«Vediamo un po', dove le avrò messe? Ah, eccole qui!» Halloway si posizionò gli occhiali sul naso, schiarendosi la voce. «Dunque, ho fatto ricerche in base alla richiesta che mi ha posto.»
«E ha trovato nulla nei suoi manuali?»
«Be', avendo lei superato la maggiore età, dal punto di vista giudiziario è possibile, sì.»
Charlotte sorrise, ma l'espressione sul volto di Halloway le suggerì che non era finita lì. «C'è altro, signor Halloway?»
«Purtroppo temo di sì, signorina Malfoy.»
Le venne allungato un modulo dall'aria ufficiale con i loghi del Ministero e del Wizengamot stampati in alto. Assomigliava vagamente a una sorta di contratto di lavoro, notò con un po' di sorpresa.
«Per ottenere l'affidamento legale di suo fratello avrà bisogno dell'approvazione delle figure parentali che hanno a carico il ragazzo, ossia...»
«I miei genitori.»
La sua contentezza, già in parte sbiadita, svanì del tutto. Gli occhi dell'uomo di fronte a lei si tinsero di compassione.
«Rapporti travagliati, eh?»
Charlotte annuì. «Già. Non sarà facile.»
Afferrò il foglio e lo lesse di sfuggita tirando un sospiro rassegnato. In fondo alla pagina spiccavano due spazi bianchi, e sotto le scritte "firma della madre" e "firma del padre".
Ripiegò il modulo e lo mise da parte, attenta a non sciuparlo troppo. Dopodiché si alzò in piedi e, con la massima cordialità, decise che era meglio congedarsi.
«La ringrazio infinitamente, signor Halloway. E perdoni il disturbo.»
«Si figuri, nessun disturbo. È il mio lavoro.» Si strinsero nuovamente la mano. «Se ha bisogno di altre informazioni mi contatti con un gufo.»
«Le farò sapere.»
Detto ciò, Charlotte uscì a testa bassa dall'ufficio.
Mentre attraversava i grandi corridoi del Ministero, tutti i pensieri negativi che aveva tentato di allontanare si riversarono a ondate nella sua testa.
Perché lo stava facendo? La sua era una battaglia persa in partenza. Eppure aveva perseverato, insistito, illudendosi che potesse esserci un altro modo. Be', non c'era nessun altro modo, a quanto pareva. Quello era l'unico. E se voleva raggiungere il suo obiettivo avrebbe dovuto affrontare gli ostacoli sul cammino, che le piacesse oppure no. E non si sarebbe arresa facilmente, nonostante i fantasmi del suo passato la facessero tremare quasi ogni notte.
Per quanto provasse a scacciarli sacrificando il proprio sonno, i suoi incubi tornavano. Tornavano sempre, sempre più vivi, sempre più angoscianti.
Erano andati peggiorando ogni volta. Prima Abby tra le sue braccia coperto di sangue, poi Tina inerme a terra nel suo appartamento, e la sera precedente...
Dovette chiudere gli occhi. Le venne la nausea solo a sfiorarne il ricordo.
Era un supplizio terribile, di quelli che forse si trovavano solo all'inferno. Poteva ingoiare stupide pastiglie o lavorare fino all'alba, poteva tentare di alleviare il dolore ma non poteva sfuggirgli, perché quest'ultimo nasceva dalle più nere viscere del suo animo.
Non aveva sempre avuto tutti quei timori. C'era stato un tempo in cui Charlotte Malfoy aveva vissuto la sua vita senza pensieri... Quel tempo era però terminato quando si era innamorata, e così facendo aveva infangato il nome della sua famiglia.
Sua madre non le avrebbe mai permesso di tenere Abraxas, né in quel momento, né mai. Odiava la sua prima figlia, la detestava per quello che aveva fatto, per aver messo in cattiva luce e affondato i Malfoy e tutta la loro ascendenza. Ascendenza di cui tra parentesi, lei non faceva nemmeno parte, essendo nata in un'altra nobile famiglia. Era da sua madre che Charlotte voleva proteggere il fratello.
Elfrida era un donna senza scrupoli. Charlotte era persino arrivata a dubitare che avesse un cuore dentro al petto. Pur di riportare i Malfoy al loro antico splendore ed essere ricordata, avrebbe gettato l'intera famiglia in pasto ai leoni, suo figlio compreso. Con quello che stava accadendo nel mondo magico, i delitti, la tregua e gli imminenti accordi, Charlotte aveva tutti i motivi per sospettare che fosse solo questione di tempo prima che Gellert Grindelwald agganciasse con le sue promesse i Malfoy. In fondo, lui e sua madre desideravano la stessa cosa.
Voleva tirare Abraxas fuori da quella casa prima che fosse troppo tardi. Doveva farlo. Per lei, ma soprattutto per lui, il suo fratellino, che era ancora giovane, che ancora aveva la possibilità di scegliere quale vita intraprendere. Poteva dare a suo fratello quello che i genitori di entrambi non gli avrebbero mai concesso, in quanto unico erede maschio della famiglia: una scelta.
Doveva sbrigarsi prima che fosse troppo tardi.
Si diresse a grandi falcate verso l'ingresso secondario dell'edificio. Non c'era molto tempo per perdersi in stupide riflessioni esistenziali. Meglio pregare per ricevere un miracolo dal cielo, benché fosse poco sicura che qualcuno lassù avrebbe ascoltato la sua silenziosa richiesta.
Udì dei passi che seguivano i suoi, come se qualcuno fosse intenzionato a raggiungerla. Accelerò la propria camminata. Niente da fare. La presenza si portò al suo fianco prima che lei potesse allontanarsi.
«Ciao, Charlotte.»
Penelope Coughlan era l'ultima persona sulla faccia della terra che avrebbe voluto incontrare in quel preciso istante. «Non ho tempo per le tue stupidaggini, Penelope. Gira alla larga, ho da fare» tagliò corto, sperando che tornasse ai suoi impieghi.
«Volentieri, ma prima temo di doverti chiedere una cosa...» replicò l'altra, continuando a camminare alla sua destra. Le venne l'improvviso desiderio di usare un incantesimo per schiantarla contro il muro. Peccato che l'atrio fosse particolarmente affollato, altrimenti non avrebbe esitato un istante. Tutto, pur di liberarsi di quella donna.
«Sai per caso se il capo è nel suo ufficio a quest'ora? Mi hanno passato una comunicazione urgente da fargli firmare...»
«Scusa, perché non vai a chiedere ad Amis Shacklebolt o non vai direttamente a controllare?»
«Perché è più divertente stuzzicare te.»
Naturalmente, pensò Charlotte. Penelope ce l'aveva ancora a morte con lei dopo il loro piccolo scontro nell'archivio. Infastidirla era un modo per vendicarsi del torto subito.
Con la coda dell'occhio la vide sorridere. «E poi, credevo lo sapessi. Insomma, sembrate così intimi, voi due...»
«Non vedo perché dovrei conoscere la sua agenda» dichiarò Charlotte con fermezza, arrestando il passo e fronteggiandola. «E ora se vuoi scusarmi, ho delle faccende più serie di cui occuparmi fuori da questo posto.»
«Non lo metto in dubbio. Ci si vede in giro, Sherlock.»
Chiuse gli occhi per frenare l'istinto di chiuderle la bocca una volta per tutte. C'era una sola persona che poteva chiamarla in quel modo, e di certo non si trattava di quella grandissima arrogante di Penelope.
La sua mente minacciò di cominciare a ripercorrere attimo dopo attimo l'intera mattinata. Per fortuna, Charlotte si trovava già all'aria aperta. Ripose i sensi di colpa in un angolo e puntò un angolo isolato, fuori dalla portata di occhi indiscreti. Prese un respiro profondo e, senza alcun ripensamento, si smaterializzò.
L'austero profilo della villa copriva quasi per intero la linea dell'orizzonte. Non ricordava che casa sua fosse così imponente e tetra, eppure fu proprio quella la sua prima impressione. In quella parte di campagna il sole non splendeva quasi mai, rendendo l'effetto casa infestata ancora più marcato. Non c'erano ornamenti o fregi sulla facciata, solo torri dai tetti a punta e con finestre smisurate che svettavano verso l'alto. Evidentemente, chiunque dei suoi antenati avesse costruito quella casa aveva ritenuto l'elemento decorativo superfluo. L'unico elemento gradevole dell'intero complesso era il giardino oltre il cancello di ferro. Le siepi che delimitavano il sentiero avevano un'aria più che sana e vigorosa, ed era rilassante osservare i pavoni bianchi scorrazzare per il prato e fare la ruota alle femmine. Sua madre aveva una specie di ossessione per i pavoni bianchi - da dove fosse nata, nessuno lo sapeva. Molte cose riguardanti quella donna erano un vero e proprio mistero.
Il cancello era rimasto aperto, vale a dire che chiunque sarebbe potuto entrare indisturbato. Insolito per una come Elfrida Malfoy, che teneva al suo patrimonio più che a suo marito.
Imboccò il sentiero gettando un occhio all'immenso prato che avrebbe dovuto essere di un verde più che brillante e che invece appariva di un misero color smeraldo spento per via dei nuvoloni ammassati nel cielo. Se non altro, il profumo delicato dei pochi fiori selvatici sbocciati tra i fasci d'erba persisteva.
Giunta quasi all'ingresso le parve di udire qualcuno canticchiare un motivetto familiare. Ne restò incuriosita. Svoltò in un angolo seguendo la voce, che si faceva sempre più squillante.
«Here we go round the mulberry bush, the mulberry bush, the mulberry bush...»
Un elfo domestico mingherlino stava potando un alberello adiacente all'ingresso della villa, canterellando i versi di una vecchia filastrocca per bambini. Restò felice e sorpresa di vedere che, dopo tanti anni, la simpatica creatura non aveva perso la sua allegria. Gli si avvicinò con cautela, attenta a non spaventarlo.
«Here we go round the mulberry bush...»
«On a cold and frosty morning.»
L'elfo si voltò, spalancando i suoi grandi occhioni e puntandoli verso di lei. La cesoia rimase sospesa in aria tra le sue esili manine. Gli cadde quasi a terra, tanta fu la sorpresa.
«S-Signorina Charlotte? È lei? È-È proprio lei?» Balbettò, l'emozione riflessa sul suo viso sciupato.
«Sono proprio io. Ciao, Dobby. È bello rivederti.»
Sorrise alla creatura, ancora piuttosto incredula ma felice di poter vedere di nuovo un viso familiare. Di Dobby, Charlotte aveva sempre saputo poco o nulla, solo che lavorava al servizio dei Malfoy dai tempi in cui la casa era abitata dai suoi bisnonni. Dobby era stato parte della sua vita dal giorno della sua nascita. Spesso era stato l'elfo ad accudirla tra una faccenda e l'altra, quando i suoi genitori erano via per affari. Voleva bene a quel piccolo elfo, che l'aveva sempre difesa e che a volte aveva persino rischiato la sua incolumità per lei. Da parte sua, Charlotte lo aveva protetto più volte strappandolo alla furia della madre e aiutandolo di nascosto con la montagna di ordini e lavori domestici che Elfrida Malfoy gli affidava ogni giorno.
Dobby scese dalla piccola scala e mosse qualche passo verso di lei. Charlotte s'inginocchiò perché l'elfo potesse guardarla negli occhi, abbracciarla, prenderle la mano in uno slancio d'affetto.
«Dobby non pensava che la signorina sarebbe tornata...»
«Nemmeno io lo pensavo» rispose lei con un sospiro.
«È cresciuta, tanto cresciuta... Dobby è spiacente, Dobby all'inizio non l'aveva riconosciuta! Ora la signorina non penserà che Dobby sia un elfo cattivo, v-vero?»
«Va tutto bene, Dobby, non sei un elfo cattivo. È normale. È passato tanto tempo...» lo tranquillizzò sorridendogli. Dopodiché dovette farsi coraggio. Era bello ritrovare un vecchio amico, ma purtroppo non era tornata in quel posto per una rimpatriata in ricordo dei giorni apparentemente felici della sua infanzia. Era lì per una questione molto più delicata.
«I miei genitori sono in casa?» domandò all'elfo, il quale annuì.
«Il padrone e la padrona sono nella sala da pranzo. Dobby ha portato loro il tè prima di venire a lavorare in giardino.»
«Puoi portarmi da loro?»
Il piccolo esitò, abbassando la testa e le orecchie. Si sistemò addosso lo straccio che portava a mo' di tunica, l'unico vestito che la sua padrona gli permetteva di indossare. Da piccola, Charlotte aveva tentato di cucirgli una vestina su misura, ma sua madre l'aveva colta in flagrante e aveva stracciato la sua intera opera, gettandola nel camino. Ricordava ancora le sue parole. "Quando ti metterai in testa che quel mostriciattolo è inferiore a te?".
Fissò Dobby con un po' più di compassione. D'istinto afferrò la sua gracile mano, che aveva iniziato a tremare.
«Non fa niente se non vuoi» gli disse.
«No» proruppe l'elfo all'improvviso, interrompendola. «Dobby viene. Dobby accompagna la signorina. Dobby non la lascia andare da sola.»
Si scambiarono uno sguardo complice. Dopodiché l'elfo posò la cesoia, iniziando a zampettare in direzione dell'ingresso. Charlotte lo imitò.
L'angoscia tornò a farsi più viva mentre insieme alla creatura attraversava l'ingresso di quella che un tempo era stata casa sua.
"Casa mia" ripetè nella sua testa.
Se quella era casa sua, perché si sentiva come se stesse attraversando una terra straniera?
Al di là della porta, nulla era cambiato. L'atmosfera era rimasta la stessa, opprimente e cupa a causa delle pareti scure. Le amate statuine d'argento di sua madre non erano state spostate di un centimetro e ancora campeggiavano sopra credenze, cassettoni e suppellettili vari, tutti di pessimo gusto. Chiunque si sarebbe perso nell'immensità di quei saloni o sarebbe rimasto spiazzato dalla loro aria tetra. La luce delle piccole abat-jour sui comò a malapena riusciva ad illuminare le poltrone e i divanetti dove i padroni di casa ricevevano gli ospiti.
Nel salotto, accanto ai ritratti degli antenati di Charlotte, erano stati aggiunti alcuni quadri raffiguranti gli attuali proprietari della villa insieme al loro secondo figlio. Non c'erano foto, ritratti o alcun tipo di tracce che attestassero l'esistenza di un altro membro della famiglia. La ragazza studiò i visi a lungo disprezzati dei suoi genitori, e quello tanto amato del fratello minore. Abraxas fissava davanti a sé, con un mezzo sorriso e un'aria più smarrita che felice. Si costrinse a distogliere lo sguardo e cacciare indietro una lacrima.
Insieme a Dobby imboccò il grande scalone che portava ai piani superiori, continuando a guardarsi intorno. Non ricordava che i soffitti fossero così alti. Per un attimo ebbe paura che il colossale lampadario di cristallo potesse crollare d'improvviso sui gradini e investirla in pieno. Per fortuna il piccolo elfo la distrasse da quel pensiero.
«Dobby non vuole essere scortese con la signorina Charlotte, m-ma ecco... Dobby si chiedeva perché è venuta qui.»
Arrestarono il passo sul pianerottolo. Charlotte abbassò lo sguardo per incrociare quello della creaturina. Non riuscì a trattenere un piccolissimo sorriso. Era sempre stato così, il buon vecchio Dobby: timoroso di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato.
«Sono qui per mio fratello Abraxas» spiegò. La sua stessa franchezza riuscì a sorprenderla. Percepiva il cuore battere senza sosta nel suo petto e le emozioni accavallarsi l'una sull'altra in modo disordinato attorno ad esso, come uno sciame di vespe pronto a pungere. Era oltremodo agitata, eppure determinata a fare di tutto perché ciò non si notasse.
«Il signorino Abraxas?»
«Sì. Ma è una faccenda complicata, Dobby. »
«Ma Dobby forse può aiutare...»
Fu costretta a zittirlo. La sala da pranzo non era lontana. Tendendo l'orecchio da quel punto dello scalone, già si riuscivano a sentire le voci dei due padroni di casa, impegnati in chissà quale assurda discussione.
«Ascoltami, Dobby» s'inginocchiò di nuovo e prese le spalle dell'elfo, spingendolo a guardarla. «Non posso dirti molto. Posso solo assicurarti questo: se tutto va bene, porterò fuori da questo inferno Abraxas e poi anche te. È una promessa.»
«La signorina Charlotte vuole liberare Dobby?» La creaturina sgranò gli occhi, ma s'incupì l'attimo dopo. «E come può la signorina Charlotte liberare Dobby?»
Già, come poteva fare? Gli elfi domestici erano legati ai propri padroni da un solido vincolo di obbedienza. Per liberare un elfo dalla sua schiavitù occorreva che il padrone in persona donasse lui un capo di vestiario qualsiasi. Cosa che né Polonius né Elfrida Malfoy avrebbero mai fatto. Il piccolo Abraxas ancora non contava, a causa della sua giovane età.
Il silenzio calò su entrambi. Dobby aveva sollevato la testolina, ma le sue due enormi orecchie da pipistrello si erano ripiegate su se stesse, in segno di sconforto.
«Troverò un modo. È una promessa» ripeté, più per convincere se stessa che l'elfo. Come per Abby, non c'era alcuna possibilità di successo. Charlotte lo aveva capito nell'istante in cui aveva pronunciato il suo giuramento.
Celando la malinconia dietro un gran sorriso dichiarò: «Non voglio che torni in giardino. Va' a sederti su una delle poltrone del salotto.»
«Ma Dobby deve eseguire gli ordini della padrona...»
«La padrona sarà impegnata con me per un bel po'. Va' a riposarti.»
Con un cenno di gratitudine, l'elfo saltellò giù per le scale. Rimasta sola, Charlotte chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Il tempo degli indugi era esaurito.
"Puoi farcela" incitò a se stessa, oltrepassando la porta della sala da pranzo, smisurata quanto la sua angoscia nell' attraversarla.
La prima sensazione che si respirava era il vuoto. Non c'era traccia di mobili o arredamenti in quell'angolo della casa, fatta eccezione per una lunga tavolata che occupava su per giù i due terzi dello spazio. Altra eccezione la rappresentava il monumentale camino di marmo addossato alla parete, sopra il quale era intagliato con cura maniacale lo stemma di famiglia. Una sola grande finestra e due ricche lumiere di cristallo spargevano deboli fasci di luce sul tappeto, che si allungava da una parte all'altra del tavolo. Ad esso sedevano un uomo, nascosto dal giornale che era intento a leggere, e una donna ormai prossima alla sessantina con un portasigarette tra le labbra, ravvolta in un un abito color smeraldo dalle lussureggianti rifiniture dorate.
Né l'uno né l'altra parvero avvertire la presenza di una terza persona nella stanza. Ignorarono del tutto persino l'idea di un visitatore inaspettato, immersi nella loro animata conversazione.
«La cosa certa è che così non va. Stiamo rischiando una guerra civile.»
«Sarà bene che quel tedesco si convinca allora» fu la replica della donna al marito. «Ormai è chiaro che senza un accordo tra le parti non si andrà da nessuna parte. E chi ci rimetterà di più se il tutto salterà sarà il Ministero, poco ma sicuro.»
Charlotte si appoggiò alla balaustra che dava sullo scalone. Decise di prendere un secondo di tempo per se stessa, per cercare di ricordare quei due volti così familiari, eppure così distanti da lei.
I suoi genitori. Non pronunciava spesso quelle parole. A dire il vero, non le pronunciava quasi mai. Eppure eccole lì, davanti a lei, le due persone che l'avevano messa al mondo.
Avrebbe di gran lunga preferito essere cresciuta da sola insieme a Dobby. "Oh no, devi ritenerti fortunata!", avrebbe ribattuto qualcuno nel sentire quel pensiero. "Sei fortunata perché hai una madre e un padre che ti amano e possono accudirti come si deve".
La madre e il padre li aveva, e su questo non ci pioveva. L'amore però, quello era sempre mancato all'appello.
Fin dal momento del suo primo vagito, Charlotte si era imposta come il problema della sua famiglia. Da neonata non faceva altro che gemere, piangere e strepitare, tanto da spingere sua madre a chiudere a chiave la porta della sua camera, così da non dover sopportare le urla assillanti della figlia. La sua infanzia l'aveva passata rinchiusa tra le mura della villa, senza alcuna possibilità di uscire o farsi un amico. Veniva trattata come una sorta di bambola, spronata ad essere perfetta in ogni gesto per soddisfare le aspettative di Elfrida, che alle sue domande non rispondeva mai, nemmeno con un monosillabo. Per i primi dieci anni della sua vita si era convinta che le poche attenzioni di sua madre fossero più che nella norma, e che doveva crescere il più possibile senza difetti per entrare nella società e sposare un principe che l'avrebbe portata nel suo castello. Nulla di più patetico.
Hogwarts aveva cambiato le cose. La libertà l'aveva fatta sentire come mai prima di allora, in potere di fare tutto ciò che voleva. La principessa era diventata più furba e ribelle, e aveva scoperto tra le altre cose molto di più sul mondo dei babbani. Si era fatta prestare da un compagno di casa un romanzo piuttosto in voga con protagonista un detective cinico e geniale e se ne era innamorata, tanto da decidere che quella sarebbe stata la sua strada. Altro che matrimonio, la primogenita di Polonius ed Elfrida Malfoy avrebbe risolto crimini e incastrato criminali!
Poi ci fu quel maledetto sesto anno. Quel maledetto incontro, quel maledetto amore proibito. Era stata l'avventura più bella della sua vita, finché non si era tramutata nel suo più grande errore.
Qualcuno scoprì tutto. La verità venne a galla prima che loro o chiunque altro potesse accorgersene. Fu uno scandalo di proporzioni colossali, tanto più perché coinvolgeva non una, ma ben due rinomatissime e rispettabili famiglie purosangue. Fu da quel momento che sua madre le tolse il saluto e la parola. Disse che l'aveva delusa, che sua figlia non avrebbe mai commesso un errore simile. Smise di chiamarla figlia subito dopo quell'ultima discussione.
Grazie a un illustre aiuto la notizia venne smorzata e poi sedata, ma ormai i Malfoy erano perduti. Charlotte rimase priva di tutto: del rispetto della società, del proprio nido familiare, dell'amore tanto desiderato che l'abbandonò senza un addio. A seguito di quelle lacrime, ormai maggiorenne, Charlotte capì di essere rimasta da sola. Ripromise a se stessa che non sarebbe più caduta nei tranelli del suo cuore e scappò lontano, più lontano che poté. Poi arrivò Abraxas, e la rabbia lasciò spazio al rimpianto di non aver potuto vedere il suo fratellino crescere, di non averlo potuto tenere tra le braccia, di non averlo potuto amare. Smise di frequentare Villa Malfoy quando ottenne il posto al Ministero. Da allora erano trascorsi sei anni.
Sei anni e quei volti ancora erano motivo di collera e vergogna. Non seppe con quale coraggio pronunciò le parole che seguirono. Seppe solo che ottennero il risultato sperato, perché entrambi i suoi genitori si voltarono sconcertati.
«Buon pomeriggio madre. Padre.»
«Charlotte?» L'uomo posò il giornale sul tavolo, alzandosi in piedi. Portava addosso i segni del tempo trascorso, un paio di rughe sul viso e qualche capello grigio in più sul capo. Incrociò per un istante quegli occhi riflessi nei suoi, identici ai suoi. Le parve di cogliervi un luccichio all'interno, un minuscolo bagliore che tuttavia scomparve quasi subito.
«Che cosa ci fai tu qui?» tuonò sua madre prima che il marito potesse aggiungere altro. Si alzò da tavola con una serie di movimenti sgraziati, puntandola come se fosse una zanzara dal ronzio fastidioso. «Sei stata bandita da questa casa, fino a prova contraria. Chi ti ha fatto entrare? Non dirmi che è stato quello stupido elfo...!»
«Dobby non c'entra. Il cancello era aperto, e anche la porta d'ingresso.»
Si costrinse a mantenere i nervi saldi e un'espressione imperscrutabile. Non poteva cedere alla prima provocazione. Quel colloquio doveva necessariamente andare avanti.
Con un gesto sprezzante della mano, Elfrida fece per cacciarla via. «Non importa chi sarà stato non appena sarai fuori di qui. Su, avanti! Esci da dove sei venuta!»
«No.»
Sua madre non fu soddisfatta della risposta ricevuta, tutt'altro. La scrutò con ancora più odio e ribrezzo. Con quei lineamenti appuntiti e quell'atteggiamento così freddo e austero, sua madre si avvicinava non poco all'immagine che i babbani avevano delle streghe. Perfide ma ammalianti. Terribilmente perfide.
«Mi hai sentita bene, piccola insolente. Questa casa non ti appartiene più ormai. Fuori di qui, adesso.»
«Non è possibile. Sono qui per parlare e non me ne andrò finché non otterrò udienza.»
«Parlare, ma davvero? Non c'è proprio niente di cui parlare. Dobby!»
Elfrida Malfoy iniziò a gridare il nome dell'innocente creaturina come un'ossessa, tra uno sguardo d'odio e l'altro. Sarebbe andata avanti così per chissà quanto tempo se suo marito non fosse intervenuto.
«Dov'è quel piccolo sgorbio quando serve!»
«Elfrida, tesoro, calmati...» Polonius prese le spalle della moglie, gettando un'occhiata alla figlia che se ne stava in disparte a osservare la scena. «Sediamoci a tavola e parliamo come persone civili...»
«Calmarmi? Sedermi ad un tavolo con lei dopo tutto quello che ha fatto alla tua, alla nostra famiglia? Neanche per sogno!Preferirei morire, piuttosto.»
"Dolce e cortese come sempre, madre" pensò Charlotte tra sé e sé. Percepì tuttavia una crepa aprirsi in fondo al cuore, là dove lo sguardo umano mai si sognerebbe di arrivare.
Nonostante le previsioni, la scenata non durò a lungo. Dovette resistere a un altro feroce scambio con sua madre, ma alla fine fu lei ad avere la meglio.
«Getti spazzatura sull'intera famiglia, te ne vai per "rifarti un nome", poi torni qui dopo sei anni e ti aspetti che io mostri misericordia nei tuoi confronti! È un comportamento oltremodo disdicevole, sfrontato e...»
«Farò in modo che la cosa sia rapida. In questo modo, sia io che tu potremmo liberarci da questa spiacevole situazione. Che te ne pare, madre?»
Elfrida la scrutò da capo a piedi, gli occhi iniettati di rabbia e sangue. Non appena riuscì a recuperare un briciolo di senno, convenne che prima l'avrebbe ascoltata, prima entrambe sarebbero tornate alle proprie vite, senza dover essere più costrette a guardarsi in faccia.
Con una smorfia, Elfrida si sistemò una seconda volta sulla propria sedia, seguendo l'esempio del marito. Calò un silenzio teso allorché Charlotte avanzò per occupare il posto a capotavola, proprio tra i due coniugi.
«È strano rivedersi dopo tanto tempo, non trovate?»
Sia Charlotte che sua madre ignorarono quel commento.
«Allora, ragazzina, vuota il sacco. Cosa sei venuta a fare nell'utile dimora dei tuoi poveri, vecchi genitori?»
Quel velo di sottilissima ironia nel tono della donna le fece ribollire il sangue nelle vene. Raccolse tutte le forze che aveva, e solo per questo non si scompose.
«Risparmiatelo. Sono venuta per Abraxas.»
«Pensavo fosse una questione tra noi...»
Suo padre era il ritratto dello stupore. Un po' le faceva pena. Le aveva sempre fatto questo effetto, quello di un animaletto indifeso, un coniglio spaventato che preferiva rintanarsi nel proprio rifugio per non affrontare il mondo esterno. Un uomo mediocre, incapace di affrontare la donna che lui stesso aveva scelto di sposare. Era assurdo, eppure era proprio quello che era accaduto per gran parte della sua infanzia. Sua madre dettava gli ordini, suo padre li eseguiva. Di solito accadeva il contrario nella società: gli uomini venivano messi al comando, le donne obbligate ad obbedire ad ogni loro capriccio. La sua famiglia era un'eccezione.
«Lo è, infatti.»
Per la prima volta fronteggiò sul serio suo padre, trovando la fermezza di guardarlo negli occhi mentre lui parlava. «E allora Abraxas cosa c'entra, qualcuno me lo può spiegare?»
«Te lo dico io cosa c'entra» s'intromise Elfrida a quel punto. «Vuole portarselo a Londra. Non è così?»
Ci provò, tuttavia non fu in grado di nascondere la sorpresa. Era impossibile che sua madre sapesse. Le balenò in testa un terribile dubbio: forse aveva sottovalutato il suo avversario.
«Come...» Le parole le morirono in gola.
«Oh, per favore, non sono nata ieri. L'unico motivo sensato che avrebbe potuto spingerti a tornare in questa casa era Abraxas.»
Pronunciò quelle parole con distacco, senza la minima traccia di emozione. «Hai rovinato il nostro nome, e ora intendi rovinare anche la nostra discendenza. Tu e il tuo stupido senso di giustizia...»
«Almeno io e il mio stupido senso di giustizia sappiamo riconoscere le necessità. Io ero una bambina, Abraxas è un bambino, e lo sai anche tu.»
«Un bambino che sarà in grado di capire quali sono i veri valori, a differenza tua.»
«I veri valori?» Il tono della sua voce si alzò. «E cosa vorresti insegnargli, quello che hai insegnato a me? Vorresti insegnargli a trattare tutti come suoi inferiori per il solo fatto che il loro sangue non è puro? È così che vuoi crescere tuo figlio?»
«Non hai il diritto di farmi la predica, maledetta ragazzina!»
Charlotte trasalì allorché sua madre sbatté i pugni sul tavolo. Poteva quasi vedere la rabbia scorrerle a una velocità spaventosa lungo tutto il corpo fino a far ardere le sue iridi.
«Non ti permetterò di strapparmi l'unica risorsa in grado di salvare questa famiglia...» mormorò a denti stretti.
«Abraxas è solo un bambino!» Esclamò lei. Aveva perso anche l'ultimo briciolo di pazienza rimastole. Non avrebbe permesso a quella vecchia megera di sua madre di riferirsi a suo fratello minore in quel modo. «Abraxas ha bisogno di essere amato, non di essere trattato come una risorsa! Ma a te non sembra interessare molto di lui. A te interessa solo il tuo onore. È sempre stato così. Sei sempre stata egoista e capricciosa...»
«Ora tu intendi insegnare a me come fare la madre? Non ho bisogno dei tuoi patetici consigli.» Rise, una risata maligna, che fu in grado di penetrarle le ossa. «Perché dovrei darti retta? Tu non sei altro che una delusione. Mi hai sentita? Sei una delusione. E dovresti imparare a sopportarlo prima di andare in giro a giudicare le azioni degli altri.»
Non si aspettava che le avrebbe provocato tanto dolore. Si sentì cedere, iniziò a tremare sotto la forza di quei due occhi che la squadravano senza la minima compassione.
Non sei altro che una delusione.
Una lacrima uscì prima che lei potesse fermarla. Non doveva darle ragione, non doveva... Eppure il suo inconscio continuava a suggerirle che in quelle parole ci fosse una verità dura da digerire.
La sua presenza era arsenico, dolce all'apparenza, letale di fatto. Portava pioggia ovunque andasse. Per quanto provasse ad essere una brava persona, riusciva solo a ferire tutti quelli che amava. Ed era allora che il dubbio s'impossessava di lei, soffocando il suo cuore, rubandole il respiro.
Sono una delusione?
Per se stessa lo era sempre stata.
Non era mai stata in grado di controllare le proprie emozioni o frenare la propria lingua tagliente. Sapeva solo come scappare dai suoi problemi, come rimandarli. Li chiudeva in gabbia e gettava la chiave, finché questi non rompevano le sbarre e le si riversavano addosso, facendola annegare nei suoi stessi pensieri.
Eppure, se c'erano delle persone che l'amavano, non doveva essere poi così male.
E se stessero solo fingendo?
Non aveva mai sfiorato quell'opzione. Che motivo aveva di pensare una cosa del genere, dopotutto? Si stava facendo influenzare così tanto dalle parole di sua madre da stare pian piano perdendo la testa. Con gli occhi umidi di lacrime cercò di reprimere la rabbia, uno sforzo sovrumano che le costò diversi, interminabili secondi.
Quell'immagine la riportò all'infanzia, ai pianti disperati nella sua camera e le richieste di conforto senza risposta.
A quell'amore tra una madre e una figlia che non era mai davvero esistito.
Non puoi permetterti di mostrare le tue debolezze, ricordalo sempre. Il mondo è un giudice molto severo, sai?
Era l'opposto di quello che invece le aveva insegnato suo padre, che nel suo silenzio forse ancora le voleva bene e rimpiangeva di non essere riuscito a contrastare l'autorità della moglie. Per quanto Polonius Malfoy fosse un uomo vile, possedeva un animo capace di provare affetto e comprensione. Elfrida dal canto suo, non dimostrava ormai più alcun interesse al di fuori di quello per se stessa e per la gloria. L'ambizione l'aveva corrotta al punto da rinnegare la propria umanità. Se qualcosa ancora viveva dietro a quella pelle consumata, era disavvezzo da tempo a quell'incomprensibile sentimento che per comodità noi uomini definiamo amore.
«Sei senza cuore...» La sua voce era ridotta ad un sussurro appena udibile.
Elfrida Malfoy continuò a sorridere. «Ti sei ripresentata qui dopo aver gettato questa famiglia nel baratro solo per portarmi via mio figlio. Chi delle due è quella senza cuore, Charlotte?»
Non ce l'avrebbe fatta a sentire una parola di più. Il cuore già le batteva all'impazzata dentro al petto, stretto nelle spire dei rimorsi. Tutte le parole che aveva rigettato nel profondo della sua anima perché troppo aspre risalirono la sua gola fuoriuscendo in un violento impeto di collera.
«Io ti odio!» esclamò, le lacrime che le solcavano i lineamenti tesi. «TI ODIO, HAI CAPITO?»
Suo padre assisteva alla scena a debita distanza da entrambe. Quelle parole non provocarono in Elfrida alcuna reazione. Sul viso pallido della donna si disegnò appena una smorfia di sdegno, quasi impercettibile.
«Tu non sei mia madre. Sei una donna spregevole...» non riuscì a continuare. Si sentì graffiare dai sensi di colpa come da coltelli affilatissimi.
«Purtroppo tu sei sangue del mio sangue, signorina. Va' avanti, criticami. Ma in fondo sai che sei come me, Charlotte.»
«IO NON SONO COME TE!»
«No, infatti, hai ragione. Tu sei la versione peggiore di me.»
Voleva gridare ancora, ma si sentì mancare l'aria. Si sentì mancare tutto quanto in meno di una frazione di secondo. Essere la versione peggiore di sua madre...
Tu non sei come lei. Tu non sei come lei. Non sei come lei...
Ma quell'affermazione era debole, inafferrabile... Le scivolò via dalla mente, come un'onda che si posa sulla spiaggia per poi andarsene. Non riuscì a riacchiapparla.
Faceva così male perché nei suoi deliri, sua madre aveva ragione. Poteva scappare, ma non poteva nascondersi dalle proprie origini. Lei ed Elfrida potevano negare il legame tra di loro, detestarsi fino alla morte, ma finché il sangue sarebbe sgorgato nelle loro vene, avrebbero fatto parte della stessa famiglia.
Il sangue. Quella era la loro condanna. Ma lei e sua madre non erano la stessa persona, no. Anche se quando la guardava, Charlotte vi riconosceva l'intera gamma dei propri difetti. L'orgoglio. Il perfezionismo. Il narcisismo che tendeva a mascherare come altruismo.
Aveva ereditato tutto quanto da lei.
«Non lascerò mio figlio nelle mani di un incosciente. E ora se vuoi scusarmi, ho un invito importante a cui rispondere.» Sua madre la squadrò un'ultima volta, ignorando le sue lacrime. La oltrepassò con noncuranza, riprendendo in mano il proprio portasigarette.
Charlotte era ormai al limite della sofferenza. Ciononostante riuscì a captare nelle parole della madre una sorta di campanello d'allarme, che frenò per qualche attimo le lacrime e la mise sull'attenti.
«Come hai detto scusa?»
«Ho detto che ho un invito importante a cui rispondere. Puoi togliere il disturbo.»
«Invito a che cosa?»
«Oh, solo una cerimonia esclusiva alla presenza delle figure più influenti del mondo magico, Gellert Grindelwald compreso.»
Alla tristezza subentrò l'apprensione. Un lampo squassò i suoi pensieri, e un ricordo prese il sopravvento su tutti gli altri.
«Quindi hai intenzione di rendermi partecipe o mi lasci la suspense?»
«Cinque maggio. Ci sarà un ricevimento nella villa di Basilius Fancourt - un ricco purosangue, piuttosto facilone. Lo ha organizzato Gellert Grindelwald. Significa che al novanta per cento verrà a Londra.»
«Dimmi che è uno scherzo...» scosse la testa, incredula.
«Non lo è affatto.»
Vide le proprie paure materializzarsi davanti a lei, esattamente come nei suoi incubi. No, peggio, perché tutta quella storia era reale e non frutto della sua mente.
«Tu non hai la minima idea...» dichiarò, mentre il panico sostituiva la rabbia e lei perdeva di nuovo il controllo. «Grindelwald è un assassino!»
«Gellert Grindelwald ci salverà tutti dalla miseria in cui siamo stati costretti per decenni» fu la fredda replica di Elfrida Malfoy. «Ma certo non mi aspetto che tu lo capisca.»
Cieca, ecco cos'era. Era stata acciecata come tutti i purosangue dalle false promesse di quell'uomo privo di compassione. Fino a quel momento, Charlotte aveva creduto di aver agito in tempo. Bene, si sbagliava di grosso.
Era già troppo tardi.
«Non lo fare, mamma, ti prego, non coinvolgere Abraxas, qualunque cosa tu abbia in mente...» la supplicò. Non voleva, non poteva perdere quel fratello che tanto amava come aveva perso la sua migliore amica.
«Non prendo ordini da una ragazzina.»
«Non puoi volerlo fare davvero! Quell'uomo è un bugiardo, ha ucciso delle persone e ne ucciderà altre! Vi porterà solo alla rovina definitiva! Tu non puoi...»
Ma sua madre non la stava più ascoltando. Aveva eretto di nuovo un muro tra di loro, sapendo che lei non avrebbe avuto la forza di abbatterlo.
Suo padre le venne incontro, in un maldestro tentativo di consolarla. «Tesoro, è solo un'innocuo ricevimento...»
Lei lo allontanò bruscamente. «Lasciami stare» sibilò, mentre cercava di rimettere insieme i pezzi di quel suo ennesimo fallimento. Non aveva neanche tirato fuori il modulo che le aveva procurato Halloway. Quel colloquio era stato un fiasco di proporzioni immani. Non era servito a un bel niente, se non a inasprire ancora di più il rapporto tra lei e sua madre. Una parte di lei aveva immaginato quel finale, anche se non così drammatico.
Abbassò la testa ma la rialzò subito dopo, poiché sua madre era tornata verso di lei con una busta in mano.
«Senti tesoro, se vuoi fare qualcosa per dimostrare di non essere un totale disastro» dichiarò, gettandole la busta tra le mani, «presentati alla cerimonia, la settimana prossima.»
Fissò il retro della busta con gli occhi pieni di sconcerto. Inciso sulla carta c'era il suo nome, proprio il suo. Non faceva più parte della famiglia o dell'alta società, eppure aveva ricevuto un invito alla cerimonia. Che razza di assurdità era mai quella? Non c'era dubbio che l'invito fosse autentico. Ma perché Gellert Grindelwald avrebbe voluto lasciare che lei, un Auror del Ministero Britannico, partecipasse a una cerimonia esclusiva in mezzo a tutti i suoi seguaci?
«Dobby!»
«Sì, padrona?»
«Accompagnala all'uscita.»
«Subito, mia padrona.»
L'elfo domestico, che aveva probabilmente atteso sul pianerottolo per tutto quel tempo, obbedì agli ordini di Elfrida, scortandola di nuovo verso le scale. Prima di sparire, Charlotte si voltò a guardare per l'ultima volta sua madre, incrociando solo un paio di occhi gelidi e distanti. Poi vide suo padre, che se ne stava deluso accanto al camino mentre guardava sparire quello che rimaneva di sua figlia maggiore.
Quando furono lontani dalle orecchie dei suoi genitori, la creaturina alzò lo sguardo verso di lei. «Dobby non voleva origliare, ma Dobby non ha resistito. Dobby ha sentito tutto... e si chiedeva se la signorina stava bene. Sta bene, signorina?»
Charlotte si asciugò le lacrime come meglio poté. Esitò, prima di dare una risposta al piccolo elfo. «Non lo so, Dobby. Non lo so. Mi dispiace tanto...»
«La signorina non si deve dispiacere per Dobby. Dobby resisterà. La signorina ha fatto quello che poteva.»
«Già...» mormorò. «Il problema è che quello che posso fare si rivela non essere mai abbastanza.»
Quello che l'attendeva alla fine delle scale bastò da solo a dimostrarglielo.
SPAZIO AUTRICE
Non è probabilmente uno dei capitoli migliori che io abbia scritto fino ad ora, ma per qualche strana ragione è stata parecchio dura pubblicarlo. Non dirò molto, credo che per stavolta lascerò parlare voi.
Se il capitolo vi è piaciuto e se vi va, lasciate una stellina o un commento. Ci vediamo la settimana prossima o tra due settimane, nell' peggiore delle ipotesi ❤️
- Mavi.
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