1. ALEASE HA 17 ANNI

Le lacrime le bruciavano gli occhi e le inondavano il viso, bagnandole i capelli lisci che le spiovevano davanti alla fronte. Alease tirò su col naso, ma non bastava quel semplice gesto a frenare il dolore che provava. Con un singulto di disperazione, si lasciò cadere sul letto ancora ingombro di vestiti e biancheria. Cacciò una mano nel cassetto superiore del comodino, rovistando tra le cianfrusaglie fino a trovare un fazzoletto di tela ormai secco. Ci si soffiò con forza il naso, prima di appallottolarlo e rigettarlo dentro.

Si passò le mani sugli occhi, sforzandosi di respingere le lacrime, e si guardò intorno. Quella era la sua stanza da quando ne aveva memoria. Aveva ancora le pareti rosa come le aveva volute a sei anni e i mobili in legno pregiato con le figurine delle Winx attaccate. L'anno prima, quando aveva organizzato un pigiama party con le sue amiche, aveva cercato di rimuoverle perché se ne vergognava, ma la colla aveva scurito il legno e non era un bello spettacolo. Aveva preferito lasciare i segni della sua crescita, i poster dei Jonas Brothers, la collezione di fiori secchi sotto vetro, i braccialetti fatti di scooby-doo...

Il suo letto era sistemato sotto un armadio ad arco. Sulla volta aveva attaccato novantanove fotografie; ritraevano le sue amiche Stacie e Ronnie, le vacanze al mare e in montagna, i compleanni in famiglia, recentemente tantissimi selfie di lei con le espressioni più buffe. Aveva tenuto il conto delle foto; voleva che la centesima fosse speciale.

Aprì la cartella in pelle ed estrasse l'ecografia, mentre le lacrime tornavano, questa volta di gioia.

«Ciao fagiolino» sussurrò, sfiorando con le dita l'immagine in bianco e nero. «Tu sei la foto numero cento.»

Vi posò sopra le labbra, quindi si stese sul letto, staccò il nastro adesivo e lo appiccicò nell'ultimo spazio vuoto della volta. Lo contemplò con occhi luminosi, ma subito si rabbuiò al pensiero di come avrebbero potuto reagire i suoi genitori vedendo quella foto. Suo padre l'avrebbe strappata e sua madre le avrebbe dato fuoco. E poi avrebbero pregato, non per il futuro di quel bambino, ma perché l'anima di Alease venisse punita nel fuoco dell'inferno per quel suo peccato.

La ragazza si alzò e finì di preparare i bagagli. Era stata una decisione dell'ultimo minuto. Aveva aspettato a lungo prima di comunicare la notizia ai suoi genitori, proprio perché li conosceva e sapeva di cos'erano capaci. Non avrebbero mai accettato il suo bambino. Ma quando la pancia aveva cominciato a crescere, Alease si era decisa a sputare fuori la verità. Lo aveva confessato a tavola, mentre immersi in un religioso silenzio mangiavano il vitello ai funghi e le patate arrosto della mamma. Una cosa si doveva ammettere della mamma: era una gran cuoca.

Erano rimasti raggelati entrambi. Poi, mentre la mamma aveva lasciato cadere il tovagliolo che si era portata alle labbra, il papà aveva ripreso a mangiare. «Bene. Suppongo che provvederà il padre a darti i soldi per l'aborto.»

Alease si era sentita trafiggere il cuore dal dolore. I suoi non avevano nemmeno pensato all'alternativa. «Io voglio tenerlo» aveva sussurrato in fretta, prima di potersene pentire.

«Sciocchezze» aveva sentenziato il papà. «Hai diciassette anni. Sei una bambina. E non sei sposata. Chi è il padre?»

Ecco la domanda più dura, cui Alease aveva deciso di rispondere con una bugia. Non le avrebbero mai creduto altrimenti. «È sposato.»

«E quindi avresti intenzione di allevare questo bambino da sola, senza essere maritata?»

E Alease non aveva più avuto il coraggio di dire quello che sperava di dire fin dall'inizio: speravo che voi poteste aiutarmi. Aveva iniziato a piangere in silenzio; era facile alle lacrime.

La mamma, che fino ad allora non aveva aperto bocca, disse: «Domani chiamo l'ospedale e ti fisso un appuntamento. Mi prendo un giorno di ferie per quando farai l'intervento.»

Alease scacciò i ricordi dalla mente. Non voleva ripensare al suo tono insensibile, gelato, all'indifferenza del papà.

Chiuse la zip dei due borsoni. Aveva tutto quello che le serviva. Per fortuna in quegli anni aveva accumulato dei risparmi lavorando d'estate. Avrebbe potuto permettersi un bed & breakfast per un paio di settimane, e poi... poi sarebbe stata nelle mani di Dio.

Afferrò i borsoni, uno per mano. Aprì la porta e si vide venire incontro Lolly, la sua gattina. Aveva appena quattro mesi, l'avevano trovata lungo la strada mezza morta, probabilmente qualcuno aveva tentato di liberarsene. Alease si era sentita stringere il cuore dalla commozione e non era stato difficile convincere la mamma a prenderla con loro. Anche lei amava gli animali. Peccato non fosse lo stesso con le persone...

«Ehi, cucciola» mormorò Alease, chinandosi per accarezzarla. «Ci dobbiamo salutare. Non ti posso portare con me, ti farei fare la fame.»

Lolly si strusciò contro la sua mano, miagolando come se fosse ferita a morte. Alease ricominciò a piangere e se la strinse al petto. «Avranno cura di te, sarai la principessa di questa casa» le promise, abbastanza sicura di quello che diceva. La mamma non avrebbe mai fatto del male alla gattina per punire lei.

Le diede un buffetto sul nasino mezzo rosa e mezzo nero. Lolly la guardava con i suoi occhioni spalancati, imploranti. Alease, con la morte nel cuore, uscì dalla stanza e scese le scale.

I suoi genitori erano entrambi in casa. Suo padre guardava la partita di football con una birra in mano, sua madre faceva le parole crociate, gli occhiali calati sulla punta del naso. Avrebbe dovuto passare davanti a loro con le sacche per uscire. Non le importava che la vedessero. Probabilmente avrebbero pensato che andava a stare da una delle sue amiche, dopo la discussione della sera prima.

Nessuno dei due alzò lo sguardo e Alease passò indisturbata, pur col cuore in gola. Scese i gradini della piccola casa e fu subito in strada. Il caos cacofonico della città le strinse la gola. Camminò rapida con le sue scarpe anonime graffiate e macchiate fino alla fermata dell'autobus. Si sedette sulla panca accanto ad una vecchia signora ingobbita che indossava un golfino viola a quadri. La signora occhieggiò le borse, ma non disse nulla.

Alease iniziò a giocherellare coi capelli, come sempre quando era nervosa. Quindi si rivolse alla signora: «Conosce un bed & breakfast da queste parti? Cioè, non proprio vicino, un po' in periferia. Cerco una zona tranquilla, non so se mi spiego...»

La vecchia la guardò come se parlasse un'altra lingua. Alease mantenne fermo il sorriso gentile; bisogna essere sempre rispettosi degli altri, diceva sempre la mamma.

«No» brontolò alla fine, tornando a fissare la strada affollata.

Arrivò il pullman e lo fermarono. Alease attese che la vecchia salisse a fatica i gradini, prima di seguirla. Quindi chiese all'autista, un tipo grasso con gli occhiali da sole nonostante i nuvoloni neri che si accumulavano all'orizzonte: «Conosce un bed & breakfast nel paese dopo?»

«Non sono una guida turistica» rispose quello. «Fammi vedere il biglietto.»

«Non ce l'ho, può farmelo lei?»

L'autista brontolò, tirando fuori il blocchetto dei biglietti. Un mormorio di scontento venne da un uomo d'affari vestito di tutto punto sul sedile più anteriore. Guardò il costoso orologio che portava al polso e sbuffò di nuovo.

Alease ricevette il biglietto, lo timbrò e cercò un posto dove sedersi, ma era tutto pieno, così rimase in piedi accanto all'uomo d'affari. Aveva un taglio alla Jason Sudeikis, ma una faccia molto meno idiota e piena di rughe di espressione. Doveva avere almeno cinquant'anni.

L'autobus affrontò una curva brusca e Alease gli finì addosso. Lui lanciò un'esclamazione di fastidio e Alease arrossì. «Mi scusi davvero» balbettò, portandosi istintivamente una mano al ventre per proteggere il suo fagiolino dagli urti.

La bella donna dai tratti italiani che sedeva accanto all'uomo notò il gesto e gli diede di gomito. «Scusi, perché non fa accomodare la ragazza? Non vede che è incinta?»

L'uomo fissò schietto la pancia di Alease e rispose: «No, non lo vedo.»

La donna strinse le labbra. «Mi faccia passare.»

L'uomo sbuffò ma si alzò. La donna rimase in piedi sorridendo ad Alease. «Prego, cara, siediti al mio posto.»

«Oh, no sto bene così, grazie» rispose precipitosamente Alease, imbarazzata.

«Sciocchezze, non vorrai rischiare di sbattere come una pallina da flipper, vero?» Poi fissò il signore. «Le faccia posto, per piacere.»

«Avete proprio deciso di rovinarmi la giornata, eh?» sbottò lui, pieno di collera. Aveva il volto rosso e sembrava sul punto di esplodere. «Grazie a Dio è la mia fermata!»

Si alzò, spintonando la donna per arrivare alla porta. Le due si sedettero e Alease sussurrò, ancora piena di spavento per quella reazione così esagerata: «Grazie...»

«Figurati, cara. Bisogna metterli in riga certi cafoni.»

Alease non sapeva cosa aggiungere e non voleva si creasse un silenzio imbarazzante. Per un po' la sbirciò di sottecchi. Era bellissima, con la carnagione dorata, folti capelli neri e occhi scuri e intensi. Doveva essere italiana per forza, con quei colori.

«Non si vede che sono incinta» disse infine.

«Una mamma nota i segnali.»

«Lei ha figli?»

«Una peste, Sandy. Ha preso l'anima irlandese di suo padre, pace all'anima sua.»

«È una mamma single?»

«Da oltre tre anni.»

Quella donna era come lei, comprese Alease. «È dura?»

La donna la guardò con occhi nuovi e pieni di tristezza. «Oh cara...» Le posò una mano sulla sua, serrando le labbra in un'espressione di profonda pietà. Poi sorrise. «Senti, sto andando ad un colloquio dei professori, sai, sono un'insegnante, ma se mi aspetti dopo possiamo prendere un caffè insieme e chiacchierare ancora.»

Alease era sempre imbarazzata quando gente estranea cercava di approfondire la sua conoscenza. Era un atteggiamento recente. Era stata una bambina tranquilla ma non timida. Entrata all'high school, invece, non aveva più saputo rapportarsi con i nuovi compagni di classe. Per questo aveva conservato solo un paio di amicizie risalenti ai tempi delle elementari.

«No, io... sto cercando un posto.»

«Un bed & breakfast, ho sentito, cara. Si dà il caso che ce ne sia uno proprio di fronte a casa mia. Posso mostrartelo.»

Alease era stupita. Quella donna era una manna dal cielo! «Lei dove abita?»

«A Hope Mills.»

«È distante da qui?»

«Mezz'ora in auto.»

Non troppo, né troppo poco. Avrebbe continuato a vedere le sue amiche ma non avrebbe fatto sapere ai suoi genitori dov'era. «È perfetto.»

«Come ti chiami?»

«Alease Goodwin.»

«Io sono Alice O'Neal» disse, pronunciando il nome all'italiana.

Le due si strinsero la mano e per la prima volta da quando era scappata di casa, Alease sorrise.

Alease

Alice

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