capitolo 11
James's pov
«Non esiste proprio, te lo scordi!» grida ancora.
«E come pensi di fare allora? Non abbiamo alternative!»
«Trovane una allora!»
Ha gli occhi lucidi, le si fanno sempre quand'è frustrata o arrabbiata. È come se si trattenesse dal piangere, ma gli occhi le si riempiono comunque di lacrime mentre accumula dentro la rabbia.
«Non ce ne sono, non abbiamo scelta. Ci tieni a provare a fare qualcosa oppure no?»
«Si che ci tengo, ma sai benissimo come andrebbe a finire, e visto che non voglio sprecare l'ultima possibilità che abbiamo, allora chiamala tu!» incrocia le braccia al petto.
Da quant'è che non chiamo mia madre?
Oh beh, circa 6 anni.
«Va bene, lo farò.» prendo il cellulare e digito il numero.
Guardo Jane un'ultima volta che mi osserva titubante «Ricorda di non farla durare più di un minuto»
«Perché? Abbiamo forse troppo da dirle e-»
«Ci rintraccerebbe, e non voglio che succeda»
«E se anche fosse? potremmo cercare di par-»
«James ma quando capirai che non voglio vederla mai più?!» grida ancora più forte di prima.
Non hanno mai avuto un bel rapporto.
Mia madre ha sempre cercato di farla diventare una cavia da addestrare, ma lei non ha mai voluto e ha finito col mandare all'ospedale tutti i suoi allenatori.
La voleva chiudere in una gabbia e mandarla a svolgere le sue stupide missioni.
Ma si sa, è come intrappolare una volpe.
Prima trova il modo di liberarsi e poi ti fotte in pochi secondi.
Jane è una volpe molto più furba di quello che crede di essere. E mia madre lo sa.
Annuisco tristemente guardandola, dopodiché avvio la chiamata. «Sarò breve allora» e lei annuisce a sua volta.
«Dio, rispondi»
primo squillo.
«Fatti viva per i tuoi figli almeno una volta»
secondo squillo.
«Lascia perdere, non importa..» sbuffa chiaramente delusa, ma appena termina la frase, risponde e metto subito il viva voce «Ma chi sentiamo oggi! È passato tanto tempo»
Ecco la sua classica voce odiosa «Non ho molto tempo mamma, quindi vedi di starmi a sentire.» e lei stranamente non fiata.
«Io e Jane abbiamo pensato di ricominciare a cercare prove per l'omicidio, quindi nel caso-»
«Oh, c'è anche la tua sorellina lì? Come sta?» dice falsamente.
15 secondi.
Jane si avvicina strappandomi il telefono dalle mani «Brutta oca starnazzata, tua figlia sta una favola.»
«Ti sono mancata?»
«Mi mancherai quando i cani cominceranno a volare»
«Smettila di fare la spiritosa su! O vuoi che ti riporti nel centro d'addestramento? Ti stanno aspettando tutti a braccia aperte, e a me non dispiacerebbe»
Jane sgrana gli occhi e rimane immobile a fissare lo schermo.
Ha fatto una delle cose che sa fare meglio, colpire a fondo i punti deboli degli altri. E quel posto di merda è uno dei più grandi dolori che si trascina dietro.
Mi avvicino a lei incazzato prendendo il cellulare «Invece di cercare di prendere tempo dicendo stronzate, faremo una bella sintesi. Stiamo di nuovo cercando prove di quel maledetto omicidio e dovresti farlo anche tu. Se hai novità chiama, se devi solo rompere le palle non farti sentire.» dico tutto d'un fiato e premo il pulsante rosso.
58 secondi. Giusto in tempo.
Jane non si è minimamente mossa e io mi stendo sul letto, poso il telefono sul comodino e sospiro. Deve per forza farla a pezzi. Osservo il soffitto per poi chiudere gli occhi.
«Junior, vieni qua, lasciala per-» un tonfo risuona in tutta la stanza.
È stato secco, veloce, come uno sparo.
Mi alzo di soprassalto mettendomi seduto.
Si gira verso di me lentamente, gli occhi sempre pieni di lacrime, ma senza lasciarle scorrere sulle guance e le labbra serrate.
Non dice nulla, mi guarda senza nessuna espressione mentre del sangue le scorre sulle dita e io guardo quel poco rimasto sul muro.
Ha sferrato un pungo netto e deciso, come se all'interno ci fosse tutta la rabbia accumulata in questi secondi.
La rabbia che le causa lei da quando aveva dodici anni.
Jane's pov
Quando si tratta di prendere il pullman è tutta una sfida: arrivare tra i primi, prendere i posti migliori o comunque cercare di non rimanere in piedi.
Ed io fortunatamente non sono mai in ritardo.
Sono una delle prime a salire stamattina, di conseguenza trovo il posto vicino alla porta. Splendido.
Infilo gli auricolari nelle orecchie, appoggio la testa al finestrino e prendo un grande respiro. Abbasso lo sguardo sulle nocche della mia mano destra e arriccio il naso.
Quella donna da quando avevo 7 anni non mi ha mai fatto respirare, doveva sempre opprimermi, nonostante sapesse del mio problema al cuore ha continuato a farmi allenare, per svolgere quelle stupide missioni che potevano portarmi a morire viste le circostanze. Eppure a lei non è mai fregato nulla. Le importava solo dei soldi. Non la considero nemmeno mia madre.
«Posso sedermi?» sto per ignorare la domanda, ma poi riconosco la voce.
Mi giro verso di lei e accenno un sorriso. Completamente falso, ma almeno è già qualcosa.
«Che brutta faccia che hai, è successo qualcosa lattina?» si sta davvero preoccupando per me?
Patetico.
«Sto una favola, non vengo a raccontare a te le cose che mi succedono» sbotto e lei mi guarda alzando un sopracciglio.
Mi hanno sempre detto che ho un carattere particolare. Ma il mio è caratterizzato soprattutto dall'essere di merda.
«Va bene, con calma» dice mettendosi anche lei gli auricolari. Lo so che ci è rimasta male, lo sento.
Una volta arrivati mi affretto a scendere, e quando però ci stiamo per dividere all'entrata per andare rispettivamente in due classi diverse, e io la fermo tirandola di poco per un braccio.
«Amber» la richiamo
«Che c'è?» mi guarda male
«Pranziamo insieme, offro io» mi squadra da testa ai piedi come sorpresa del mio gesto.
Beh come darle torto.
Fa un piccolo sorriso, mi pizzica una guancia e si incammina nell'atrio.
***
Per oggi come compito da svolgere dovevamo comporre un tema di italiano, per una professoressa di cui non ricordo bene il nome.
È nuova, arrivata qui quest'anno, ma per la prima volta mi ha dato una buona impressione.
La traccia del tema diceva di scrivere di uno dei nostri più grandi dolori che ci portiamo dietro, qualcosa che anche se passato, continua a farci male.
Diciamo che io ho avuto la vastità della scelta.
«Allora ragazzi -inizia la professoressa- oggi avevo intenzione di leggere con voi alcuni dei vostri temi, dopodiché possiamo andare avanti con il programma. Faremo a sorte, oppure se qualcuno vuole leggerlo me lo dice ed è libero di iniziare.»
Una ragazza, se non sbaglio dovrebbe chiamarsi Susy, decide di leggere il suo tema, in cui ha parlato della perdita del suo cane. Io non ne ho mai avuto uno.
Dopodiché non essendoci volontari, chiama lei facendo a sorte, sommando i numeri delle pagine di un libro.
Un'altra ragazza legge il suo tema, ha parlato del fatto che i suoi nonni abitano lontano e non li vedo spesso. Io non ho mai conosciuto i miei nonni.
Abbasso lo sguardo su un foglio che ho davanti e inizio a scarabocchiarci sopra mentre ascolto i vari temi. Nessuno di quelli che sento ha qualcosa di simile a me.
«Bene vediamo...pagina 389, il numero è 17» fa una piccola pausa cercando il corrispondente alunno nell'appello «Scott Cooper, tocca a te»
Alzo lo sguardo, rivolgendolo a lui, che è qualche banco a sinistra più avanti al mio.
Lo vedo stingere i pugni, è in ansia.
«Scusate ma preferirei non leggerlo..»
Due ragazzi situati nel banco affianco al mio ridacchiano, li richiamo lanciando loro una penna senza farmi notare, si girano verso di me e li fulmino con lo sguardo. Si zittiscono.
«Mi dispiace Scott, ma dovrò annotarlo se non lo leggi, visto che può esserci la possibilità che tu non proprio abbia svolto il compito.» e lui sospira
Da quello che so non ha una bella media, ciò significa che ora dovrà leggerlo per forza per non rischiare nient'altro.
E infatti non sbagliavo «D'accordo, lo leggo»
Inizia con un introduzione, parlando di quand'era piccolo, della sua infanzia. Una famiglia, una bella casa, tutto nella norma.
«Poi quando avevo dodici anni, a Natale, i miei genitori mi regalarono un cane.
Ne volevo uno da tanto tempo, e ancora oggi lo vedo scodinzolare e fare le feste quando torno a casa. È un emozione che non saprei descrivere.
Quello fù l'ultimo Natale che passammo in famiglia. Perchè? Beh, l'anno dopo ho ricevuto colui che ancora oggi è il dolore più grande che mi trascino dietro.
Un dolore che ti lacera dentro, che ti fa così male psicologicamente che inizi a sentirlo anche fisicamente, come se ti dessero continuamente pugni nello stomaco.
Un dolore che sembra non terminare mai, come un ancora attaccata a te, che ti continui a trascinare ovunque, e non riesci a staccartene. Non puoi staccartene.
Un dolore che mi trascino dall'anno della mia tenera età di tredici anni, in cui nei giorni sotto Natale, mi è stato strappato via un pezzo di me. Mi è stato strappato via con forza, con violenza, cosa che ha causato ancora più dolore.
Il 20 dicembre di quell'anno, hanno ucciso mio padre.»
Prende il quaderno e lo zaino, ed esce di corsa dall'aula, lasciandomi con la bocca semiaperta e gli occhi sgranati.
Abbiamo una cosa in comune.
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