Capitolo 17
Scoprire la seconda vita di Mary era stato un duro colpo per John. L'aveva vista colpire quella monetina, l'aveva sentita raccontare la sua storia e più la guardava, più vedeva un'estranea al suo posto. Non era più la donna di cui si era innamorato, quella che aveva sposato e con cui sperava di costruire una famiglia. No, era qualcuno che non conosceva, che viveva di menzogne e bugie. Qualcuno di cui non si poteva fidare.
Non era solito arrabbiarsi, le poche volte che lo faceva erano poco più che leggere alterazioni che esplodevano e finivano nel giro di pochissimo tempo. Ma quella volta si era sentito ferito nel più profondo dell'anima, era stato preso in giro dalla persona che avrebbe dovuto amarlo ed essere sempre sincera con lui. Era un dolore sordo, che lo faceva sentire un completo idiota e solo al mondo allo stesso tempo. Non gli ribolliva il sangue nelle vene come quando aveva davanti agli occhi un assassino, ma aveva le viscere che gli tremavano e il cervello che non smetteva di riproporgli, come un film, le immagini e le parole di Mary.
Si sentiva tradito e trovava particolarmente ironico quel pensiero. Era stato lui a tradire sua moglie, a baciare un'altra persona e continuare a volerlo fare. Se solo lo avesse detto, probabilmente avrebbero avuto più possibilità di riconciliarsi, di trovarsi a metà strada essendo entrambi colpevoli di aver taciuto parte delle loro vite. Eppure, più ci pensava, più John si convinceva che non era la stessa cosa. Quello che aveva fatto lui non aveva importanza. Erano entrambi ubriachi, non era successo niente di irreparabile. Mentre Mary aveva ucciso delle persone, gli aveva taciuto il suo vero nome, aveva fatto finta di essere un'altra persona. John si era reso conto di essere sposato con un fantasma, con qualcuno che non conosceva affatto. L'aveva guardata mentre raccontava la sua storia e non aveva visto altro che una cliente, una come tante che si erano sedute lì davanti a loro ed esponeva i suoi problemi.
Le parole di Sherlock erano state poi l'ultimo colpo di cui aveva bisogno. 'L'hai scelta', era come se stesse dando la colpa a lui. È colpa tua, John, se tua moglie è un'assassina. È colpa tua se ti ha mentito, se non è una persona normale, se ti ritrovi in questa situazione. Ci aveva sperato, John, che almeno Mary non nascondesse niente, che fosse una donna come tante, dal carattere forte ma senza segreti così grandi. Aprì e chiuse le mani più volte, come faceva sempre quando era nervoso e arrabbiato. Odiava essere in quella situazione, sentirsi preso in giro da tutti come se fosse lo zimbello del paese. Lo trattavano tutti come un idiota, come qualcuno che non era in grado di comprendere ed era stanco. Era stanco di sentirsi così, di vedere le persone vicino a lui sempre avanti di un passo mentre lui arrancava dietro.
Si passò le mani sul viso e si guardò intorno. La sua vecchia stanza al 221B, il luogo in cui si era rifugiato e da cui non aveva intenzione di uscire per un lungo periodo. Non avrebbe tollerato di vivere ancora sotto lo stesso tetto di Mary, non per un po' di tempo almeno. Doveva assimilare la notizia, farla sedimentare e permetterle di diventare un terreno su cui costruire una nuova storia. Ma per farlo doveva starle lontano, non vederla, così da far cicatrizzare la ferita. Tornare a Baker Street era la soluzione più semplice e più logica in quel momento. La sua stanza era vuota e la signora Hudson lo aveva accolto nuovamente a braccia aperte. Non gli andava molto a genio dover dividere nuovamente l'appartamento con Sherlock, ma dopotutto era solo grazie a lui che era venuto a conoscenza di quel segreto. Era stato lui a far sì che Mary confessasse, che anche John non rimanesse indietro. E poi, con questo voleva giustificarsi, poteva controllare meglio il decorso della sua riabilitazione. Poteva tenerlo d'occhio, assicurarsi che non facesse sforzi inutili che potevano riaprire la ferita e che mangiasse per potersi riabilitare il prima possibile.
Si sedette sul letto, tenendosi la testa tra le mani. Un dubbio atroce lo attanagliava, gli stringeva il cervello in una morsa. Quante persone gli avevano mentito in quel periodo? Mary e Sherlock di sicuro, ma era possibile che anche Charlotte sapesse e non gli avesse detto nulla? Proprio lei, di cui John si era fidato immediatamente e a cui si era affezionato talmente tanto da essere una delle pochissime persone con cui si confidava realmente? Prese il cellulare con la mano sinistra che tremava leggermente e rimase a fissarlo per qualche istante.
Voleva saperlo davvero? Voleva distruggere anche quell'ultimo rapporto, il più semplice e concreto che aveva avuto da anni a quella parte? Una parte di sé lottava per rimettere il telefono in tasca e ignorare quella spina nel cuore. Non ne aveva bisogno. Probabilmente lo sapeva, non credeva ci fossero segreti tra lei e suo zio, ma sentirselo dire avrebbe fatto ancora più male perché sarebbe stata la conferma che lui era più solo di quanto potesse sembrare. Che anche l'unica persona che era convinto gli sarebbe stata sempre fedele e sincera, gli aveva tenuto nascosto qualcosa di estremamente importante.
Accese il telefono ed entrò nei messaggi. Non voleva vivere col dubbio, continuare a non sapere se quello che aveva vissuto con lei fosse reale o no. Avrebbe accettato qualsiasi cosa e, in cuor suo, sapeva che non sarebbe riuscito ad arrabbiarsi con lei. C'era qualcosa che gli impediva di farlo. Quando pensava a lei, a quei bellissimi occhi tristi e quel sorriso mesto e quasi spaventato, sapeva che avrebbe potuto perdonarle tutto solamente stringendola tra le braccia. Sospirò e le inviò un SMS: Sapevi tutto anche tu?
Passò meno di un minuto e vide il display illuminarsi per avvertirlo di una chiamata in arrivo. Il nome 'Char' troneggiava fisso sotto l'icona lampeggiante di una cornetta circondata da virgoline nere. Accennò un piccolo sorriso che non riuscì a trattenere e rispose.
"Allora, sapevi tutto?" ripeté, senza neanche salutarla. La immaginò pensare a tutto quello che poteva sapere, forse anche alla risoluzione del caso, ma nonostante fosse una Holmes lei non riusciva a capire tutto da una sola parola.
"Riguardo cosa?" chiese allora. La sua voce arrivò più debole del previsto alle orecchie di John, come se fosse stanca e stesse parlando a bassa voce.
"Riguardo Mary. E il suo lavoro." replicò, il tono più freddo di quanto volesse.
"Ah." disse semplicemente lei. A John sembrò cadere il mondo addosso. Quel tono voleva dire che allora era vero, era l'unico ad essere rimasto all'oscuro di tutto, e lo mandava in bestia. "So che aveva sparato allo zio, ma nient'altro." continuò, come se volesse mettere una pezza a quanto appena successo. Ma non era una scusa, John aveva capito che diceva la verità.
"Beh, è saltato fuori che è un'assassina e mi ha mentito per tutto questo tempo!" commentò con troppa veemenza, pentendosene immediatamente. "Scusa, scricciolo, non ce l'ho con te." rimediò subito, passandosi una mano sul volto e abbassando la voce. "Perché non mi hai detto quello che sapevi?"
"Perché lo avevo promesso allo zio." rispose. "E comunque non me lo aveva detto. Lo avevo capito." continuò e, a sentire quelle parole, John si portò la mano destra sulla spalla sinistra. Era una cosa che faceva spesso quando era nervoso dopo essere tornato dalla guerra, stringeva la spalla e la massaggiava appena come se stesse cercando di alleviare un dolore che in realtà non c'era.
"Non è colpa tua, Char. Non preoccuparti." sospirò e accennò un sorriso. Aveva sentito il tono della sua voce, così distante e quasi impastato, come se avesse fatto un'anestesia alla bocca che faticava ad andarsene. Aveva paura avrebbe avuto un'altra crisi come quella volta col pianoforte e sperava di aiutarla ad evitarla in quel modo.
"Mi dispiace, John." riprese lei, quasi ignorando le sue parole. "Avrei dovuto dirtelo subito, dovevi saperlo." sospirò e John percepì chiaramente che stava lottando con sé stessa per rimanere lucida. "Come ti senti?"
John accennò una piccola risata triste. Come si sentiva? Una merda, se voleva essere sincero. Avrebbe di gran lunga preferito combattere a mani nude un energumeno alto due metri e largo come un armadio a due ante piuttosto che vivere quella situazione. Ma allo stesso tempo non riusciva a non provare tenerezza per quella ragazza che sentiva stava soffrendo - ma perché stava soffrendo, cosa aveva? - ma il cui primo pensiero era chiedere a lui come stesse.
"Male, non posso mentirti. Mi sento tradito, preso in giro, trattato come un giocattolo. Mi sembra di essere l'ultimo idiota che arriva alla soluzione palese, il cretino da prendere in giro tutti assieme." le riversò tutte queste parole addosso, senza riuscire a fermarsi, senza pensare a quanto avrebbero potuto farle male. Si alzò e si avvicinò alla finestra, appoggiandosi al davanzale. "Tu sei sicura di stare bene? Hai una voce che non mi piace." corresse il tiro, tornando ad utilizzare il tono dolce e calmo che riservava solo alle persone che amava.
"Sì, tesoro, non--" si interruppe e John serrò la mascella. "Hai sentito?" sussurrò, il tono completamente diverso da prima.
Se fino a quel momento John l'aveva sentita distante, dissociata, come se faticasse a parlare, in quel momento era completamente l'opposto. Aveva una nota eccitata nella voce, un'infiammazione dello spirito dettata da quella che era sicuramente paura di qualcosa. Ma cos'era, cosa aveva sentito?
"No, Char, ho sentito solo la tua voce." le rispose, cercando di rimanere il più calmo possibile. Alle sue orecchie arrivava solo il respiro pesante e tremulo della ragazza, riusciva a sentire un piccolo fischio che gli preannunciava che stava andando nel panico.
"È entrato qualcuno. C'è qualcuno in casa mia!" quasi urlò, ma si trattenne dalla paura che potesse sentirla. John fece un paio di passi in circolo nella stanza, passandosi una mano sulla testa e allargando le dita. Sospirò.
"Ok, ok, ascolta. Tu chiuditi in camera e non fare rumore. Aspetta un secondo che--"
"Non chiudere la chiamata!" lo implorò.
"Non lo farò, fidati di me, ok? Devo solo mandare un messaggio." la avvertì, spostando il telefono dal suo orecchio.
Senza mettere giù, aprì la cartella degli SMS e scrisse un messaggio a Mycroft. 'Non mi chiami. Controlli le telecamere in casa di Charlotte: c'è qualcuno, oltre a lei?' Dopo averlo inviato, riportò la cornetta all'orecchio.
"Eccomi, non avere paura. Sei nascosta in camera?" le chiese, stringendo il telefono tra le dita.
Non aveva sentito nulla, lui, ma se fosse entrato davvero qualcuno? Se fosse stato pericoloso, magari proprio l'assassino che cercavano? Avrebbe potuto assistere ad un omicidio in diretta e sapere che sarebbe stata proprio Charlotte la vittima gli faceva stringere lo stomaco dall'ansia. Saperla lì, da sola e impaurita, non lo faceva stare tranquillo e se solo Mycroft gli avesse risposto...
"Sì, sono qui." sussurrò. "Sono a terra, vicino al letto. John, tu non pensi che... Che sia... Insomma..."
"No, Char, non preoccuparti. Non sarà niente, probabilmente è solo un gatto che ha fatto rumore fuori." cercò di tranquillizzarla.
Spostò il telefono non appena lo sentì vibrare, avvisandolo di un nuovo messaggio. 'No, dottor Watson, nessuno. Cerchi di calmarla. - MH'
John sospirò sollevato a quella constatazione, non rinunciando a vedere una punta di stizza in quelle parole gelide.
"Char? Ascolta, non c'è nessuno da te. Ho chiesto a tuo padre di controllare dalle telecamere. Puoi uscire senza paura." le comunicò.
"Io... D-dici davvero?" chiese incerta. John le confermò quello che aveva detto, assicurandole che era completamente da sola e non doveva temere niente. La sentì allora sospirare e alzarsi in piedi. "Scusami, io... Ho dormito poco in questi giorni. Probabilmente me lo sono sognato." ridacchiò nervosamente. "Che stupida, non è vero?"
"No, affatto." le rispose, continuando però a pensare a tutte le motivazioni per cui lei si comportasse in quel modo. Era sicuro non si trattasse di finzione, non cercava di impietosirlo. Lo sapeva in parte perché sentiva dalla sua voce che non riusciva a controllarlo e in parte perché la preoccupazione che aveva visto negli occhi di Sherlock, quella volta in ospedale, era reale.
Chiusero la chiamata dopo qualche minuto, il tempo necessario a John per assicurarsi che stesse bene e fosse tranquilla. Guardò per qualche istante lo schermo spento, quasi si aspettasse che riprendesse vita da un momento all'altro. Scosse poi appena la testa e lo infilò nella tasca dei pantaloni. Si massaggiò appena la spalla sinistra mentre scendeva le scale ed entrava in cucina. Prese il bollitore e lo riempì di abbastanza acqua per due persone, pensando che Sherlock avrebbe apprezzato una tazza di the. Sospirò mentre lo posizionava sul fuoco e lo osservava, attendendo impaziente di vedere il sottile fumo bianco uscire dal bocchettone.
"Quanto era grave?" chiese Sherlock, scivolando veloce e silenzioso in cucina. Precedette John nella credenza, prendendo con facilità le tazze su ripiano più alto - che fosse un modo per farsi perdonare?
"Un po'. Meno dell'altra volta, si è tranquillizzata più in fretta." gli rispose, poggiando le mani sul bancone per nascondere il tremore della mano sinistra.
Sherlock gli diede una veloce occhiata. Lo aveva visto scendere con la mano sulla spalla, un atteggiamento che non gli vedeva dai primi tempi in cui vivevano assieme. Gli tremava la mano, continuava a muovere la testa di lato ed evitava il contatto visivo. Era rimasto scosso da quello che era successo, glielo si leggeva in volto, e di sicuro continuava a ripensarci.
"Sei stato... Bravo." gli diede una leggera pacca impacciata sulla spalla. Che fosse per l'imbarazzo dopo quello che era successo o solamente per la poca abitudine nelle dimostrazioni d'affetto, non poteva dirlo neanche lui. A quanto pareva, però, John aveva apprezzato il gesto, rilassando appena i muscoli e sollevando un angolo della bocca.
"Già... Ma se non dovesse andare bene la prossima volta? Se dovesse farsi del male e io non fossi abbastanza vicino per aiutarla?" chiese a bassa voce, più a sé stesso che al suo amico.
"Mycroft la tiene d'occhio, non le permetterebbe di arrivare a tanto." replicò, prendendo la tazza una volta che John ebbe versato l'acqua. Mosse un paio di volte il filtro, così da aiutare il the a sprigionare il suo profumo.
"Non ha controllato finché non gliel'ho detto io." serrò la mascella e strinse il pugno sul mobile, guardando l'acqua diventare man mano sempre più ambrata. "Ho bisogno di sapere, Sherlock." continuò, scandendo le parole con una voce bassa e minacciosa, calcando soprattutto il nome dell'amico.
"Sai già tutto." Sherlock strinse la tazza appena di più tra le dita. Sapeva cosa intendeva, ma fingere di non capire era la strategia migliore, pensava. Magari si sarebbe convinto e non avrebbe detto più niente.
"Non prendermi in giro." alzò la testa e lo guardò con un sorriso amaro sul volto. "Voglio sapere che cos'ha. Perché ha queste crisi. Perché è sempre così triste, perché è anoressica, perché ha cercato di uccidersi." si girò completamente verso di lui, sentendo nascere di nuovo quella rabbia che si era sopita solo parlando con lei. "Credo di meritarmi la verità, non pensi anche tu? Soprattutto dopo quello che Mary mi ha fatto. Che tu mi hai fatto."
Sherlock rimase in silenzio per qualche istante. Quelle parole lo avevano colpito più di quanto desse ad intendere e di quanto volesse ammettere. Era vero, nonostante fosse Mary la fautrice di quel destino, non poteva negare di sentirsi in colpa anche lui. Aveva dei dubbi da tempo, sapeva che nascondeva qualcosa e gli aveva sparato. Eppure lui non aveva detto niente, non aveva parlato con John e l'aveva aiutata, seppur inconsciamente, a mantenere il segreto con il suo migliore amico. Bevve un sorso di the.
"Hai ragione. Meriti la verità, e nessuno di noi te l'ha mai detta." guardò il the, facendolo muovere piano, mentre John alzava le sopracciglia dietro la sua tazza. "Tranne lei. Ma lei non sa quasi niente... Non ricorda praticamente nulla del suo ricovero." alzò lo sguardo sull'amico, incontrando il blu scuro dei suoi occhi. "Quando aveva tra i sedici e i diciassette anni. Pesava poco più di trenta kili, si era fatta del male e Mycroft non poteva tenerla in casa senza rischiare. Era diventata un pericolo soprattutto per sé stessa."
"E poi?" rincarò John, il tono ancora arrabbiato ma genuinamente curioso. "Anoressia e depressione, va bene, ma non è solo questo. Sono un medico, Sherlock, so riconoscere i sintomi. Quelle crisi... Sono di ben altro. E sono stanco, così stanco di essere l'ultimo a sapere le cose."
"Le hanno diagnosticato la schizofrenia." sbuffò una leggera risata. "Le hanno dato qualche psicofarmaco da prendere per qualche anno e poi basta. Ma è stata una diagnosi errata, basata sulla familiarità e solo alcuni dei sintomi. Quelli che aveva detto lei."
"Familiarità?" John aggrottò le sopracciglia, guardandolo senza capire. Sherlock annuì piano.
"Sua zia. Stava in una clinica psichiatrica, è morta quando Charlotte aveva circa cinque o sei anni. Si è impiccata nella sua stanza." appoggiò cauto la tazza nel lavandino, evitando di dirgli che lei l'aveva vista, che non aveva dormito per tre giorni e che non era più stata la stessa bambina per un po' di tempo. "Ma Charlotte ha dei sintomi diversi. Ai medici e a noi aveva parlato solo delle allucinazioni e dell'autolesionismo. Ho scoperto di queste amnesie circa l'estate scorsa, lei faceva finta di niente ma ho notato che qualcosa non andava."
"E quindi che cos'ha?" continuò, deciso a non far cadere l'argomento, ad ottenere tutte le risposte per una volta.
Sherlock sospirò ed esitò prima di rispondere. Non era semplice ammettere un fallimento, non per lui, anche se si trattava di dirlo al suo migliore amico. A quello che lo aveva visto nei suoi momenti peggiori, quando era talmente frustrato per un caso che non riusciva a risolvere da dare in escandescenze.
"Io... Non lo so." affermò infine, abbassando le spalle in segno di resa. "Ho provato a cercare la risposta nel mio palazzo mentale, ma non la trovo. Non si affama per ideali di bellezza, non si fa del male per farsi notare o per punirsi. È più come se le servisse per rendersi conto che è qui, che può sentire. Che è reale." lo guardò, cercando di trasmettergli che quello che stava dicendo era la verità.
Sapeva che John non si sarebbe fidato ciecamente delle sue parole, non dopo quello che era successo con Mary. Ma era sincero, quella volta. Certo, aveva un paio di idee in mente, ma non ne era sicuro e non si azzardava a fare diagnosi premature. John ricambiava lo sguardo, sempre torvo e con i muscoli di tutto il corpo tesi. Lo stava studiando per decidere se fidarsi oppure no. Sherlock mosse appena gli avambracci, allontanando così le mani dai fianchi, e John sospirò abbassando la testa. Annuì appena, tirando in fuori le labbra, come faceva sempre quando doveva ammettere qualcosa in contrasto con i suoi sentimenti. Sherlock si lasciò sfuggire un piccolo sorriso nel vedere quella nuova vittoria.
"Va bene. Va bene, ti credo. Ma solo perché so che non le faresti mai del male. Non di proposito, almeno." alzò nuovamente la testa e gli fece cenno di seguirlo in salotto, stanco di rimanere lì in cucina. "Hai... Fatto passi avanti nel caso?"
"I tre omicidi?" chiese per conferma, sedendosi sulla propria poltrona. John annuì, accomodandosi sulla sua. "No. L'assassino è stato molto bravo a nascondere le tracce. Non ci sono impronte e le prove sono pressoché inutili. L'unica cosa che può aiutare sono quei dannatissimi spartiti, ma le immagini spariscono dalla mia mente appena finisce la musica." fece una smorfia.
Trovava particolarmente frustrante quella situazione. Certo, ammirava sempre un assassino in grado di farlo impazzire in quel modo, con cui poter giocare al gatto col topo. Era molto furbo e molto intelligente, lo ammirava molto sotto quel punto di vista. Ma allo stesso tempo lo faceva andare fuori di testa, il cervello continuava a lavorare anche mentre dormiva e, ogni volta che pensava di poter toccare la soluzione, quella faceva un passo più lontano così da non permettergli di raggiungerla.
"Che legame hanno?" chiese John, forse più a sé stesso che a Sherlock, il quale lo guardò con le sopracciglia aggrottate. "Le vittime. Se sono state uccise dalla stessa persona, dovevano essere legate in qualche modo."
"Carolyn Thrumple era una banchiera. Aveva di sicuro molti nemici, non puoi arrivare così in alto nella scala sociale senza fartene. Thomas Lacrosse, professore di storia ad Oxford. Abbastanza amato dai suoi studenti, ma è probabile che abbia compiuto alcune azioni losche in passato." si alzò, camminando avanti e indietro. "Ma padre Valence? Era un prete benvoluto, nella sua nuova parrocchia era stato accolto a braccia aperte e in quella precedente è rimpianto da tutti. E in che modo possono essersi conosciuti? Hanno età diverse, quindi non è stata la scuola. Percorsi completamente differenti, probabilmente avevano sentito i loro nomi ma non si sono mai incontrati. Che cosa mi manca, cosa mi sfugge?"
"L'agente Partridge non aveva suggerito un collegamento tra le famiglie?" azzardò John e Sherlock si fermò per guardarlo. "Magari si conoscevano i loro genitori e quindi si sono incontrati in questo modo. Lavoro, vita sociale, amici in comune..." si strinse nelle spalle.
Sherlock spalancò gli occhi e poggiò le mani giunte sulla bocca. Finalmente un tassello era andato al suo posto, il puzzle prendeva forma nella sua mente. Batté le mani una sola, unica volta e si avvicinò a John.
"Sei stato... Risolutivo!" gli batté le mani sulle spalle e si avviò poi a grandi passi verso la camera, lasciando un John confuso in salotto. Il medico si girò per un attimo a guardare l'amico sparire oltre il corridoio e ridacchiò, divertito dalla sua reazione.
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