Capitolo 16
{23.04.2006, Whitechapel, Londra}
Randall Thompson non amava finire tardi di lavorare. A lui piaceva tornare a casa verso le 18.30, godersi una cenetta semplice alle sette in punto assieme alla sua famiglia e sedersi poi sul divano a guardare qualche programma della BBC, magari con una tazza di the e un cioccolatino. Gli piaceva quando i suoi figli andavano a dormire e augurava loro la buonanotte, sempre con una carezza e un bacio, e quindi Millicent gli si accoccolava al fianco. A volte si trovavano a fare l'amore su quello stesso divano, un rapporto silenzioso e tranquillo che raccontava di tutti gli anni passati assieme. Più spesso, ormai, rimanevano semplicemente appoggiati l'uno all'altra a fissare lo schermo, con Millicent che si addormentava pacificamente tra le sue braccia e Randall che non si muoveva per non darle fastidio. Erano una coppia normale, non più innamorata e appassionata come i primi anni, ma comunque legata da un affetto profondo che aveva permesso ad entrambi di non perdere interesse l'uno nell'altra.
Capitava, però, a volte che Randall venisse trattenuto a lavoro più del dovuto. Allora osservava il cielo farsi sempre più nero ad ogni quarto d'ora che passava e le stelle accendersi come tante piccole lampadine sul soffitto scuro. Chiamava sempre casa e avvisava di non aspettarlo per cena, poi osservava impaziente l'orologio per sapere quando sarebbe potuto tornare dalla sua famiglia. Li immaginava seduti attorno al tavolo a mangiare e raccontarsi le loro giornate, poi sul divano a scegliersi un film strappalacrime che Tim faceva finta di odiare ma che in realtà lo appassionava più di quanto volesse ammettere.
In quelle occasioni tornava a casa quando ormai erano tutti già a dormire. Scivolava allora silenzioso nelle camere di Laura e Tim, rimboccava loro le coperte e li lasciava con un bacio sulla testa. Andava poi in camera sua, si metteva il pigiama e si infilava nel letto al fianco di Millicent. La donna gli rivolgeva qualche parola assonnata, a cui lui rispondeva con dolcezza prima di chiudere gli occhi e accomodarsi dal suo lato del letto.
Quella sera, però, aveva paura che non sarebbe riuscito a compiere le sue azioni abituali. Quando era uscito dal lavoro erano ormai già le nove di sera. Si era dovuto accontentare di cenare con un cartoccio di ramen consegnati dal cinese all'angolo e dell'acqua frizzante presa alla macchinetta. Appena mise piede fuori dall'imponente edificio, respirò a pieni polmoni l'aria di Londra. Puzzava di fumo, era piena di smog e si depositava pesante nei suoi polmoni, ma per lui in quel momento sapeva di libertà ed era più dolce di qualsiasi altra cosa.
Vedeva le auto sfrecciare, libere dal traffico che durante il giorno intasava tutte le strade, soprattutto in centro. Randall possedeva un'auto, ma soprattutto nelle ultime settimane aveva deciso di utilizzarla il meno possibile. In parte sapeva che sarebbe stato più rintracciabile, la targa era in bella vista e non poteva coprirla per allontanarsi indisturbato. Preferiva quindi utilizzare i mezzi pubblici, dove poteva confondersi tra la gente e passare inosservato anche agli occhi più attenti. Aveva scoperto, poi, che andare e tornare a piedi non gli dispiaceva, quindi aveva spesso scelto quell'opzione.
Anche quel giorno aveva deciso di andare a piedi, tanto che aveva dimenticato di portare la Oyster Card con sé. Non aveva voglia di prendere un taxi per tornare e spendere almeno venti sterline per un viaggio di un quarto d'ora, quindi si era fatto coraggio e aveva stretto la sua ventiquattrore nella mano sinistra. Il lavoro stava andando sempre peggio da quando aveva ricevuto quel dannatissimo fascicolo top secret e ci aveva sbirciato dentro. Si sentiva un idiota ad averlo fatto, ad aver ceduto alla curiosità, ma alla fine era un uomo con tutte le debolezze del caso. Non era stato licenziato, per carità, e tutti i suoi colleghi non sapevano ciò che era successo. Ma sapeva che il suo capo lo aveva capito. Glielo aveva letto negli occhi, quegli occhi di ghiaccio che sembravano schernirlo quelle rare volte che lo incontrava. Randy si sentiva rimpicciolire davanti a lui, che lo osservava sempre dalla sua imponente altezza. Ma anche lui non gli aveva rivolto la parola, non aveva accennato a quel piccolo segreto, e Randall sperò in cuor suo che non sarebbe mai più tornato a galla. Che avrebbe potuto dimenticarsene, così come il suo capo, e che tutto sarebbe tornato alla normalità.
Sospirò alla luce arancione dei lampioni, facendo dondolare avanti e indietro la borsa. Sapeva in cuor suo che non sarebbe successo. Il suo capo non dimenticava mai, niente. Nelle sue parole capitava che facesse comprendere che non aveva scordato avvenimenti successi anni prima, anche piccoli e di poco conto come una dimenticanza o una parola sbagliata. Non era stato licenziato, però, continuava a ripetersi. Lavorava ancora lì, non aveva perso il lavoro, e aveva paura che fosse tutto parte di un terribile gioco sadico del suo capo. Forse voleva giocare al gatto col topo, tormentarlo fin quando sarebbe scoppiato e avesse ammesso le sue colpe. Allora sì che avrebbe potuto lasciarlo a casa, ostracizzarlo, addirittura costringerlo a cambiare paese per non incorrere in conseguenze fin troppo spiacevoli.
Per tornare a casa dal lavoro, Randall doveva passare dal quartiere di Whitechapel e ogni volta si guardava attorno affascinato. Pensava al periodo vittoriano, al famigerato Jack lo Squartatore e si immaginava dove fossero state trovate le vittime. Ogni ombra era il fantasma dell'assassino più famoso della storia, l'unico di cui ancora in epoca moderna non si sapeva realmente il nome. Faceva, nella sua mente, un miliardo di ipotesi che scartava veloci come l'involucro di un cioccolatino. Troppo esplicito, troppo semplice, non avrebbe avuto alcun motivo. Forse solo Sherlock Holmes avrebbe potuto scoprire la sua reale identità, se fosse vissuto all'epoca e se avesse trovato il caso abbastanza interessante.
Strinse più forte la maniglia della borsa. Quell'arrogante stronzo, quel narcisista a cui tutto sembrava dovuto. Aveva letto la sua vita in una frazione di secondo e non si era degnato neanche di dargli una mano. Lo avrebbe pagato, ovviamente, e profumatamente anche, ma lui si era rifiutato di accettare il suo caso. Lui che era l'unico che avrebbe potuto fare qualcosa...
Drizzò la schiena e irrigidì i muscoli quando sentì un rumore dietro di sé. Era passato in una via laterale, buia e senza un'anima che la percorresse. Tagliava sempre per di lì, ma non avrebbe mai immaginato di essere in compagnia. Era vero, erano giorni che si sentiva seguito, che percepiva degli occhi puntati sempre su di sé, ma erano lontani. Chiuse gli occhi e sospirò, fermandosi.
"Chi... Chi è? Perché mi sta seguendo?" chiese con voce tremante, cercando di sembrare il più sicuro possibile. Gli rispose una leggera risata sarcastica.
"Un amico. O il tuo peggiore incubo, a te la scelta." la voce che gli arrivò alle orecchie era dolce, in netto contrasto con le sensazioni gelide che gli faceva provare.
Randall allora si girò per fronteggiarlo e fece un paio di passi avanti, così da poterlo vedere alla luce del lampione.
"Uh-uh." lo fermò immediatamente l'altra persona, facendo in modo di rimanere in ombra. "Se vuoi che sia gentile con te, devi stare alle mie regole, Aldy caro."
Randall percepì un ghigno nella voce dell'altro, come se si stesse divertendo a fare quel gioco, a sentirsi in completo potere sulla vita di un uomo qualunque. Thompson allora si passò un dito sotto il colletto della camicia e mandò giù il groppo di paura e tensione che aveva in gola. Aveva iniziato a sudare, nonostante la temperatura fosse ancora abbastanza fresca da costringere chi si avventurava fuori ad indossare un cappotto leggero.
"Io non la conosco, ma a quanto pare lei conosce me." ignorò la piccola risata, notando dal profilo scarsamente illuminato che aveva messo le mani in tasca. "Che cosa vuole da me? Soldi? Le darò tutto quello che ho, ma la prego, non mi faccia del male. Ho moglie e figli che mi aspettano a casa."
"Oh, non essere così ovvio e banale, Aldy. Se volessi i tuoi soldi, potrei averli senza disturbarmi tanto. Io voglio un'altra cosa da te. E la tua amata Millicent e i piccoli e adorabili Laura e Tim non subiranno alcun danno."
Randall si passò la mano libera sul viso, cercando di pensare a cosa si stesse riferendo quell'uomo. Poi un pensiero gli attraversò la testa. Lui come... non era possibile, insomma... Lo sentì ridere.
"Voi gente normale siete così... ordinari. Basta un niente per arrivare a scoprire tutti i segreti di un uomo. E la tua famiglia non è certo ben nascosta."
"Loro non c'entrano niente!" tuonò allora Randall, lasciando cadere la borsa e stringendo le mani in due pugni. Sarebbe stato in grado di ucciderlo a botte, si trovò a pensare. Sentiva la rabbia ribollire nel petto e nello stomaco e si trattenne dallo scagliarsi contro di lui. Eppure lui sembrava trovarlo così divertente che si chiese se non avesse l'aria di un gattino arruffato.
"Basta giocare, Randall. Quel documento. So che lo hai letto e che in molti ti vogliono morto per questo." recitò freddamente, facendo scendere un brivido lungo la schiena al suo interlocutore. "Io ho potuto darci solo un'occhiata e, oh caro mio... È così dannatamente interessante. Chiunque ne conosca il contenuto ha l'Inghilterra in mano, non è così? Avanti, siamo tra amici, puoi dirlo." lo canzonò, di sicuro con un ghigno sulle labbra che però Randall non poteva vedere. "Non è così?!" ripeté con più enfasi, quasi con rabbia, come se fosse infastidito dalla mancata risposta.
Randall annuì piano.
"Sì, è vero. Ma non ho mai pensato di renderlo pubblico, di divulgare la notizia, io..." cominciò a giustificarsi, ma venne prontamente interrotto.
"No, no, no, NO! Non mi interessano le tue scuse! Voglio sapere dov'è quel documento. Chi lo ha in mano. Perché te lo sei lasciato scappare!" ringhiò e Randall poté percepire tutta la sua frustrazione.
Avrebbe voluto dire che anche lui se lo era lasciato rubare dalle mani, ma non lo fece. Non sapeva se per liberarsi più in fretta di quella scocciatura o per paura che potesse succedergli qualcosa, ma riformulò i suoi pensieri.
"Io dovevo solo consegnarlo alla villa di Elizabeth I Gardens. Non sapevo chi dovesse prenderlo né per quale motivo." ammise, ricordando quella giornata.
Sarebbe rimasto affascinato dalla bellezza di quel posto se solo non avesse avuto il cuore pesante e la vista offuscata per quel lavoro. Un giardino enorme e ben curato, pieno di rose di tutti i colori, circondava una grande villa in stile vittoriano disabitata ma tenuta con gran cura. Probabilmente chi se ne occupava conosceva i padroni precedenti e vi era molto affezionato, tanto da tenerla sempre viva e pulita. Era poi tornato indietro, attraversando tutto il quartiere di St. James's, passeggiando per Pall Mall e Green Park.
"E se il destinatario non era lei, non vedo perché debba prendersela così tanto." azzardò poi ad aggiungere, mordendosi la lingua subito dopo. L'altro rise.
"Perché, perché... Voi non sapete far altro che chiedere perché. Ho un conto in sospeso con un vecchio amico." Randall fece un passo indietro quando lo vide avanzare verso di lui. "Vedi, Aldy, adesso mi hai messo in una situazione molto difficile. Io non volevo farti del male, dico davvero. Volevo solo quelle informazioni. Certo, non sarebbero arrivate alla loro reale destinazione, ma che importa. Ma tu le hai lette, capisci? E questo è un problema. Una persona come te non sa tenere la bocca chiusa. Non vorrei che anche tu facessi la fine del povero, povero professor Lacrosse."
Randall sbarrò gli occhi. Aveva sentito della morte del professore di Oxford, di come era stato trovato impiccato nel suo ufficio. Osservò l'uomo davanti a sé mentre il dubbio, la paura di trovarsi davanti al suo assassino si fece strada in lui.
"Oh, no, non sono stato io. Il mio sarebbe stato un lavoro molto più pulito, ma direi che non è stato male per un principiante." si strinse nelle spalle. "Il problema, Aldy, è che non mi posso fidare di te. Certo, potresti portarmi al mio obiettivo, ma..." si avvicinò ancora, così che fosse completamente sotto la luce del lampione. Sorrise, un sorriso che sembrava innocente. "Ormai mi hai visto in faccia." concluse.
Si voltò quindi, schioccando le dita prima di allontanarsi. Un piccolo cerchio di laser si disegnò sulla fronte di Randall, perfettamente in mezzo alle sopracciglia. L'ultima cosa che vide, fu la figura dell'uomo allontanarsi, i suoi capelli neri che riflettevano la luce dei lampioni e il suo completo elegante che si confondeva col buio della notte.
{24.04.2006, St. Bart's Hospital, Londra}
Sherlock Holmes odiava stare in ospedale. Ogni giorno che passava costretto a letto era una tortura, era come se il suo cervello soffrisse fisicamente e il suo corpo diventava sempre più irrequieto. Quando Mary gli aveva sparato aveva evitato gli organi vitali, ma allo stesso tempo gli aveva causato una convalescenza così lunga da fargli credere di diventare pazzo. Inoltre, tutti lo trattavano con i guanti di velluto, avevano paura di fargli male. John era il più attento di tutti, evitava di farlo mettere in qualsiasi posizione che potesse rivelarsi anche solo minimamente scomoda e, quando era in stanza con lui, controllava in modo ossessivo i suoi valori. Sherlock lo aveva guardato e aveva capito che non lo faceva solo per la preoccupazione nei suoi confronti. Certo, di quella ce n'era in quantità fin troppo elevata, ma soprattutto cercava di distrarsi, di pensare ad altro. Cercava di allontanarsi dal periodo difficile con Mary e di non pensare troppo a Charlotte, di rimanere a Londra con la mente e non viaggiare a Oxford per stringere ancora una volta tra le braccia la ragazza. Aveva visto la sua reazione quando erano al telefono tutti e tre assieme, quando lei aveva avuto un momento di amnesia. Se solo avesse potuto, sarebbe volato immediatamente da lei, glielo aveva letto negli occhi. Avrebbe abbandonato qualsiasi cosa, moglie, lavoro, amici, se solo lei glielo avesse chiesto.
Anche Mary, nonostante tutto, si muoveva quasi in punta di piedi attorno a lui. Che fosse perché si sentiva in colpa, perché aveva paura che avrebbe detto tutto a John o per semplice dispiacere umano, ancora non lo aveva capito. Non era venuta spesso da sola, di solito era col marito, e i pensieri di John erano molto più rumorosi ed evidenti di quelli di Mary.
Le telefonate e i messaggi che riceveva da Charlotte riguardo il caso erano una ventata d'aria fresca. Anche lei spesso cadeva nei soliti "stai bene? Sicuro? Sai che mi preoccupo, non mentirmi", ma in generale sapeva quando trattenersi e dargli solo le informazioni importanti. Non era certo tranquillo nel saperla sola ad occuparsi di tutto quello. Non avrebbe neanche voluto farla andare sulla scena del crimine, ma non poteva fidarsi dei poliziotti e lei era l'unica in grado di vedere ciò che era davvero interessante. Nessuno di loro lo avrebbe detto a Mycroft, ma in fondo sapevano tutti che lui lo avrebbe capito immediatamente. Per lo meno si sarebbero consolati nella consapevolezza di non essere stati loro ad aprire bocca, a tradirsi a vicenda. Un po' come quando lei era piccola e lui la aiutava a disobbedire ad alcune regole, come mangiare un biscotto prima di cena o andare a dormire più tardi del coprifuoco. O quella volta che a quindici anni l'aveva trovata in un pub in una zona molto brutta e l'aveva riaccompagnata a casa in silenzio, senza dire niente poi al fratello.
Quando sentì la porta della stanza aprirsi, non riuscì a capire subito chi fosse entrato. Non riusciva a vedere l'uscio dalla sua posizione e, a dirla tutta, questo lo faceva uscire di testa. Non era John, di questo era sicuro. Lui si annunciava sempre e ormai riconosceva il rumore dei suoi passi. Poteva essere un medico o un infermiere, qualcuno che non aveva ancora avuto occasione di conoscere abbastanza a fondo. Ma sentiva che era un passo troppo leggero, troppo elegante. E aveva chiuso la porta a chiave. Che motivo avrebbe avuto un operatore sanitario di farlo?
Sollevò un angolo della bocca quando comprese. Già, non poteva essere nessun altro che lui. Girò la testa nella sua direzione.
"Buongiorno, Magnussen." lo salutò con tranquillità.
L'ospite si esibì in un piccolo sorrisetto e spostò una sedia vicino al letto. Ci si accomodò sopra e accavallò le lunghe gambe, guardando Sherlock attraverso le lenti ovali dei suoi occhiali.
"Ti vedo bene, Sherlock. È una fortuna che la nostra Mary non ti abbia fatto troppo male." commentò, allungando una mano per passare il dito sul bordo del bicchiere d'acqua lasciato sul comodino.
Sherlock seguì il suo movimento con lo sguardo, reprimendo un moto di disgusto.
"Sei venuto a trovarmi di nuovo. Devo cominciare a pensare che ci siano altri motivi nascosti?" chiese, facendo però fatica a ricordarsi della volta precedente.
Era ancora sotto effetto della morfina, in stato confusionale, e non rammentava molto. Gli tornava alla mente solo la sua fredda e umida mano che teneva la propria, il suo alito acre che gli solleticava il naso mentre gli diceva perché non aveva denunciato Mary. Ricordava che una parte di sé si era sentita vulnerabile, non avrebbe avuto la forza di ribellarsi se lui avesse provato a fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Ricordava di aver pensato che Mycroft aveva fatto bene a tenerlo il più lontano possibile dalla sua famiglia, da lei, e gli veniva il voltastomaco a pensare a come avrebbe potuto toccarla.
Magnussen rise piano e prese in mano il bicchiere.
"Niente di nascosto. Credo di aver reso abbastanza noto il mio interesse." sogghignò e incontrò il suo sguardo. Senza distoglierlo si avvicinò il bicchiere alle labbra e passò la lingua su tutto il bordo. "Molto, molto interessante." mormorò, come se stesse parlando con se stesso. Sherlock aggrottò le sopracciglia.
"Che cosa è interessante?" replicò, annotandosi mentalmente di dire alla prima persona che sarebbe entrata di cambiargli il bicchiere.
"La tua lealtà verso la donna che ti ha sparato. Non lo hai detto a nessuno. Certo, la tua dolce nipotina lo sa ma lo ha capito da sola, quindi non conta, giusto?" sogghignò, godendo dell'espressione allarmata che attraversò gli occhi di Sherlock per un istante. Poggiò nuovamente il bicchiere sul tavolino, proprio di fianco alla lampada e al cellulare, a cui diede una veloce occhiata. "Oh, Sherlock, stai diventando così sentimentale... Non è stato così semplice scegliere il tuo punto debole, sai? Ne hai così tanti..."
Sherlock si mosse appena, pronto ad intervenire, ma Magnussen lo bloccò subito col gesto di una mano. Sentiva nelle orecchie il fischio dei macchinari che lo tenevano costantemente monitorato e odiava essere così esposto.
"Insomma, avrei potuto parlare del tuo piccolo... problemino." si toccò il naso in un movimento quasi casuale, che mutò in un gesto per sistemarsi gli occhiali. "Oppure avrei potuto giocare con Moriarty. O meglio ancora..." avvicinò di più la sedia al letto e si sporse verso di lui, le punte dei loro nasi si sfioravano quasi e il suo alito si faceva strada nelle sue narici facendo pensare a Sherlock che, se la morte dovesse avere un odore, sarebbe quello. "Avrei potuto usare la piccola Charlotte come una bambolina. Oh, l'avrei fatta ballare muovendo un solo filo, sarebbe stata mia. Solo a pensarci è un piacere quasi... carnale." concluse, sempre con il suo solito sorrisetto.
"Non la toccare." commentò gelido Sherlock, uno dei rari casi in cui non riusciva a mantenere il controllo. Magnussen si mise nuovamente dritto con la schiena.
"Ma in questo modo ho tutti. Mary, John, tu e infine Mycroft. E l'adorabile Charlotte è un'aggiunta dal sapore così dolce... Rose, direi, e miele. Soave proprio come lei." scostò un lembo della giacca e appoggiò sul comodino un fascicolo. "Un regalo di pronta guarigione."
"Non le hai fatto niente, vero?" proruppe Sherlock, quasi senza farlo finire di parlare.
Magnussen fece un sorriso sarcastico che durò solo una frazione di secondo.
"No. Perché, pensi che dovrei?" gli rispose, ma non aspettò una sua replica. Si voltò e si avvicinò alla porta per andarsene. Si fermò prima, quando ancora era nel campo visivo di Sherlock. "Povero Randall Thompson. È morto ieri notte, sai? Ucciso. Una pallottola in fronte, proprio qui." si voltò e appoggiò un dito tra le sopracciglia. "Se solo ci fosse stato qualcuno a proteggerlo. Un vero peccato... era davvero un bravo asinello."
Sherlock aggrottò le sopracciglia, cercando nella sua memoria qualcosa che gli ricordasse quel nome. Quando riuscì a ricollegarlo a un volto, a quell'uomo che era andato da lui a chiedergli protezione, sollevò entrambe le sopracciglia e aprì la bocca per dire qualcosa. Ma Magnussen se ne era già andato, silenzioso come un gatto. Girò la testa e vide la copertina gialla del fascicolo che gli aveva lasciato, la scritta 'TOP SECRET' in inchiostro nero che spiccava. Accennò un piccolo sorriso.
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