Capitolo 15
Disclaimer: anticipo i commenti del tipo "ma come, un altro genere?" NO, i generi saranno sempre crime, psychological e romance. Quando arriverete alla terza parte del capitolo (lo immagino diviso in tre parti, vedrete poi perché) e penserete che abbia voluto addentrarmi nell'horror di punto in bianco, senza preavviso né motivo... non preoccupatevi, la spiegazione è molto più razionale di quanto possiate immaginare. Solo che, ovviamente, non sarà data qui ma più avanti nella storia!
"Mi dispiace molto per la tua perdita, Jeff." disse piano Charlotte, posando davanti a lui una tazza di caffè bollente e tenendone in mano una per sé stessa. "E mi dispiace dover riaprire la ferita, ma ho bisogno di farti alcune domande."
Si sedette di fronte a lui e tenne per qualche istante lo sguardo basso sul tavolino rotondo color verde menta. Era riuscita a recuperare il numero di Jeff Galliano, l'assistente del professor Lacrosse, proprio da alcuni fogli che aveva ritrovato nello studio. Lo aveva salvato senza farsi notare e aveva deciso di portare avanti le sue indagini parallelamente alla polizia. Avrebbe informato solo Andrew, l'unico di cui poteva fidarsi, e suo zio ovviamente.
Alzò poi lo sguardo sul giovane uomo davanti a lei e studiò il suo aspetto, i suoi movimenti anche più impercettibili. I capelli castani, appena ondulati e lunghi fino alle spalle, si muovevano ad ogni minimo cenno della testa. Gli occhi neri erano appena bordati di rosso, segno che aveva pianto e aveva passato almeno quella notte totalmente insonne. Si tormentava di continuo le labbra e le mani, che teneva incrociate sul tavolo. Muoveva costantemente le gambe, sembrava l'unico sfogo che avesse di tutta quella energia.
Alla fine sospirò e prese la tazza di cartone con forse troppa forza. Tolse il coperchio di plastica e vi versò dentro una bustina di zucchero di canna e una dose di panna. Gli tremavano le mani, Charlotte se ne accorse subito e lo segnò tra i suoi appunti mentali.
"Ho già parlato con la polizia, non puoi chiedere a loro?" le disse con la voce sottile e stanca.
Quel ragazzo aveva meno di trent'anni, un buon posto di lavoro che gli permetteva di proseguire col dottorato, e già si trovava davanti ad una delle perdite più grandi della sua vita. Lo capiva dal suo sguardo che Lacrosse non era solo il suo datore di lavoro. Era il suo mentore, la persona che Jeff voleva diventare, quasi una figura paterna. A Charlotte dispiaceva dargli altra pena, vedeva dai suoi occhi che era stanco di tutte le domande che aveva ricevuto e delle condoglianze di circostanza. Azzardò un piccolo sorriso, versando a sua volta lo zucchero nel proprio caffè.
"Ma io non sono la polizia." sorrise da dietro la tazza. "E ti prometto che ascolterò quello che dirai. Per davvero." aggiunse.
Jeff accennò un piccolo sorriso e sospirò. Erano stati dei giorni terribili quelli appena passati, in cui chiunque lo incrociasse non faceva altro che parlargli di Lacrosse. Che fossero studenti, colleghi o persone che lo conoscevano perché andava a comprare il pane o le medicine. Spesso non erano che parole vuote, pareri di chi conosceva solo un Thomas Lacrosse, uno solo dei suoi volti. A Jeff dava fastidio, li vedeva come degli ipocriti che si sentivano realizzati nell'aver fatto la buona azione quotidiana e tante grazie, ora si può tornare a sparlare di chicchessia. Jeff preferiva chi stava in silenzio e gli dava una pacca sulla spalla o si limitava ad offrirgli un caffè, chi gli rivolgeva un sorriso fugace e un piccolo cenno di saluto. Erano piccoli gesti che non erano apparentemente legati a quello che era successo, ma che prendevano in considerazione i suoi sentimenti e la sua volontà di non continuare a parlare di quello che aveva visto.
Quella ragazza però aveva un modo di fare diverso. Non gli aveva fatto le sue condoglianze. Appena l'aveva vista, aveva subito capito che era lì per affari. Gli abiti scuri, i capelli chiusi in una treccia ordinata e l'aria determinata non avevano lasciato spazio ai dubbi. Non si aspettava altro, ad essere sincero. Quando l'aveva contattato si era presentata subito come una Holmes, allora aveva fatto velocemente una ricerca su Internet. Aveva trovato informazioni su un certo Sherlock Holmes, pareva fosse un investigatore di Londra di grande fama e talento. Quando aveva visto Charlotte, aveva riconosciuto lo stesso portamento e lo stesso sguardo di quell'uomo visto nelle fotografie di articoli di giornale e blog. Era forse per questo motivo che aveva deciso di fidarsi immediatamente di lei.
"Beh, non che sia un grande sforzo." sospirò e guardò fuori dalla finestra, dove un volantino girava in tondo sospinto dal vento. "La polizia crede che si sia suicidato. Io non ci credo."
"Infatti è stato ucciso." rispose prontamente lei, accavallando le gambe. Jeff si girò di scatto verso di lei, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta.
"Nessuno mi credeva..." sussurrò e Charlotte sorrise.
"Te l'ho detto che non sono come la polizia." ravanò nella borsa e mise un registratore sul tavolo. "Ti dispiace? Così lo faccio ascoltare a mio zio." lo guardò. "Sherlock." aggiunse quando vide che Jeff non rispondeva. Il ragazzo annuì e allora lei schiacciò un tasto. La lucina rossa prese a lampeggiare, segno che da quel momento ogni parola sarebbe stata registrata.
"Come dicevo... Non credo si sia suicidato. Vero, nelle ultime settimane era nervoso e non sembrava più lui, ma... Non penso sarebbe stato capace di fare una cosa del genere. Lo conoscevo bene, da anni ormai. È stato il mio professore di storia, il mio relatore e poi sono... erano anni che lavoravo per lui. Si fidava di me e capivo sempre se c'era qualcosa che non andava."
"Hai detto che era nervoso... Come mai?" poggiò la tazza sul tavolo e si sporse appena, attenta ad ogni lettera che usciva dalle labbra di Jeff.
"Non lo so. Continuava a balbettare qualcosa riguardo ad una 'cosa terribile' che aveva fatto e..." sbuffò una risatina nervosa. "Non credo che questo possa voler dire qualcosa."
"Ogni cosa può essere essenziale in questi casi, Jeff. Magari è proprio quello che consideri insignificante che può aiutarci a trovare chi ha ucciso Thomas."
"Qualche anno fa, tre o quattro credo, Thomas è stato al centro di un piccolo scandalo. Avevano iniziato a girare voci per tutta Oxford di voti dati in cambio di altri favori. Sesso, soldi... Cose così. Sono stati tanti i professori che hanno perso il lavoro per questo motivo, e sarebbe stato così anche per lui. Non per il sesso, eh!" si affrettò a specificare, poi si schiarì la gola. "Aveva accettato delle mazzette da un paio di studenti. È riuscito ad uscirne pulito, ma non so neanche io come abbia fatto." sospirò e si passò una mano tra i capelli. "Se ne era dimenticato, ma in queste ultime settimane ha iniziato a parlarne di nuovo. Aveva sempre paura..."
"Qualcuno lo stava minacciando, forse? Qualcuno che magari non ha mai dimenticato e che voleva fargliela pagare... Uno studente bocciato, un collega invidioso..." suggerì, incrociando le dita sul tavolo.
Jeff si mordicchiò l'interno della guancia, pensando a tutti i possibili nemici che il professor Lacrosse poteva avere. Infine scosse la testa, sconfitto e senza essere riuscito a trovare un possibile colpevole.
"No, nessuno... O almeno, non che io sappia. Anche se..." picchiettò il tavolo con il dito indice e si sporse in avanti alla maniera dei cospiratori. "Anche se l'ho visto guardare dei vecchi fogli di giornale. Non sono riuscito a leggere niente e non ho riconosciuto nessuno dalla fotografia, ma l'ho sentito piangere e dire che se lo meritavano. Quando si è accorto che ero lì vicino, però, ha nascosto tutto e ha fatto finta di niente. Come se non fosse mai successo."
Charlotte accavallò le gambe sotto il tavolo, dissimulando in questo modo un moto di eccitazione ed orgoglio che quella rivelazione le aveva causato. Era un forte calore che nasceva da sotto lo sterno e si spandeva in tutto il corpo, facendole battere forte il cuore e rendendole difficile stare ferma. Sentiva che era un'informazione importante, avrebbe osato dire essenziale, e suo zio avrebbe saputo perfettamente cosa farne.
"Hai visto dove ha messo quel ritaglio?" chiese, modulando la voce così da non sembrargli una pazza.
"In un cassetto che teneva sempre chiuso della sua scrivania. Credevo ci fossero solo fotografie di sua moglie, Anita. Lei è morta qualche anno fa. Erano in vacanza sulle Highlands, stavano facendo una gita in moto e un pirata della strada li ha fatti cadere. Lui se l'era cavata con un braccio e una gamba rotti, ma lei..." sospirò. "Cadde giù per il pendio della montagna. Batté la testa contro una roccia prima ancora che raggiungesse la valle. Morta sul colpo. Ha passato tutti gli anni successivi a darsi la colpa di quello che era successo, perché era stato Thomas ad insistere ad uscire con la moto." si passò una mano tra i capelli e, poi, si rigirò la tazza tra le dita. "Forse è per questo che sembrava quasi felice quando... Sì, insomma..."
Charlotte alzò un angolo della bocca in un sorriso storto, solo di circostanza.
"Già, l'ho notato anche io. Ti ringrazio, Jeff, sei stato molto d'aiuto. Ti terrò al corrente degli sviluppi."
Jeff annuì, poi si alzò e afferrò il suo giubbotto di jeans, pieno di spillette che mostravano il suo impegno politico (comunista) e i suoi gusti musicali (ovviamente i Clash svettavano sugli altri) e col colletto in lana di pecora. Lo infilò e recuperò anche la sua tazza. Indugiò qualche istante, poi guardò Charlotte un'ultima volta.
"Io... Non so se può essere utile, ma... Qualche giorno prima di morire ha detto una cosa strana. Stavo andando a casa, l'ho salutato e lui ha ricambiato dandomi la buonanotte. Poi ha fatto un sorriso strano e mi ha detto 'credo che Anya arriverà presto'."
Charlotte ritirò la mano, che aveva allungato per spegnere il registratore, e rizzò la schiena. Guardò Jeff, interessata come un gatto davanti alla preda.
"Anya?"
Il ragazzo annuì e si strinse nelle spalle.
"Già. Ma non so chi sia. Forse tuo zio può ricavarci qualcosa." diede un'occhiata al suo orologio da polso (un po' troppo prezioso per un comunista. Che fosse un'eredità di famiglia?) e rivolse a Charlotte un cenno di saluto. "Scusami, ma devo scappare."
"Certo, tranquillo. Grazie mille, sei stato molto utile." sorrise lei mentre lo salutava. Spense il registratore e lo infilò nuovamente in borsa.
Anya... Quel nome poteva dare una svolta alle indagini. Poteva addirittura essere il nome dell'assassino! Uscì quasi di corsa dal locale dopo aver guardato l'orologio ed essersi resa conto di essere in ritardo per la lezione di filosofia.
Continuò a pensare, tuttavia, alle parole di Jeff. Per fortuna aveva registrato tutto e poteva far ascoltare l'intera conversazione a suo zio, che sarebbe stato in grado sicuramente di capire molto più di quanto fosse riuscita lei. Non dimenticò nemmeno le pagine di notazione che Andrew aveva trovato nell'ufficio del professor Lacrosse, e si stupì di notare che tradurle fu più semplice della volta precedente. Ormai aveva capito lo stile del compositore e sapeva dove mettere accenti, pause e modificatori. Provò quindi a suonare la melodia da sola, così da accertarsi che fosse coerente con le prime due parti. Le ci era voluta in tutto poco meno di una settimana, divisa tra quel compito e i suoi impegni universitari, e di certo non l'aveva fatta andare fuori di testa come quando c'erano Sherlock e John. Forse era anche perché era da sola e non aveva paura di deludere nessuno se ci avesse impiegato più tempo del previsto. Aveva quindi affrontato l'ostacolo con tranquillità, riuscendo a sorprendere se stessa per la facilità con cui ottenne il risultato sperato.
Era molto soddisfatta del suo risultato e sapeva che anche Sherlock avrebbe apprezzato. Non glielo avrebbe mai detto chiaramente, quello era poco ma sicuro, ma lo avrebbe capito dal tono di voce. Le sarebbe piaciuto, a volte, sentirsi dire che era stata brava, che aveva fatto qualcosa di giusto, ma d'altro canto sapeva che non poteva pretendere questo genere di esternazioni da parte degli Holmes. Non erano molto inclini ai complimenti e quei pochi che facevano erano così impacciati e mal formulati che forse era meglio non riceverne affatto. Sapeva tuttavia decifrare i loro comportamenti e il loro tono di voce, così da potersi creare lei da sola, nella sua mente, un ringraziamento e un'affermazione delle proprie capacità.
Si decise ad avvisare Sherlock solo dopo aver provato da sola un paio di volte, così da non rischiare di incepparsi nel mezzo della composizione. Fece il numero dello zio al telefono e se lo appoggiò all'orecchio, ascoltando il trillo in attesa che rispondesse. Fu solo dopo svariati squilli che la chiamata venne accettata, tanto che stava già per mettere giù.
"Pronto?"
Charlotte spostò il telefono e guardò lo schermo, aggrottando le sopracciglia. Non aveva sbagliato numero, allora...
"John. Perché rispondi tu, scusa? Lo zio sta bene?" chiese, abbastanza confusa. John rise.
"Sta bene, non preoccuparti. Lo stanno visitando per controllare che risponda bene alle cure." rispose, sedendosi sulla sedia di fianco al letto d'ospedale e accavallando le gambe. "È successo qualcosa?"
"No, niente, non preoccuparti. Ho solo tradotto gli spartiti che ho trovato nell'ufficio del professor Lacrosse e volevo farglieli sentire. Ma richiamo tra un po', in caso..."
"No, no! Tanto dovrebbero riportarlo qui tra pochissimo, era una visita breve." la interruppe, poi si schiarì la gola.
Rimasero entrambi in silenzio per un po', un silenzio per la prima volta imbarazzato. Erano stati così complici fin dall'inizio, sempre con qualcosa da dirsi o comunque a loro agio anche se non volava una mosca. Quella era la prima volta che si sentivano a disagio, in cui avrebbero desiderato essere a fare qualsiasi altra cosa piuttosto che stare lì ad aspettare che la situazione si smuovesse.
"Ehm... Allora, con... Con Mary come vanno le cose?" tentò di iniziare una conversazione. Era un tentativo abbastanza debole, doveva ammetterlo, ma era la prima cosa che le era venuta in mente.
"Oh, uh... Bene, direi. Sì, abbastanza bene. Ogni tanto discutiamo ma penso sia... Normale, in una coppia, no?" rispose lui, cercando di trovare le parole giuste. In realtà non andava affatto bene, non litigavano neanche così spesso. La maggior parte del tempo la passavano in silenzio, senza dirsi niente riguardo la propria giornata o qualsiasi altra cosa. Erano quasi come due estranei che condividevano la casa e il letto.
"Bene, sono... Sono contenta." mormorò in risposta lei. Non ne era contenta affatto e non sapeva se era perché sentiva che le aveva mentito o perché sperava che le cose andassero male tra loro due. E se fosse stata quest'ultima opzione, perché avrebbe dovuto farla sentire meglio, più sollevata? Gli voleva bene, sentiva qualcosa nei suoi confronti che non era ancora riuscita ad identificare, perché allora voleva che stesse così male? Soprattutto non avrebbe portato a niente. Anche se si fossero lasciati, lei non avrebbe mai rinunciato a David, al futuro che avevano immaginato e progettato assieme tante volte.
Per fortuna la previsione di John si rivelò esatta e Sherlock tornò in stanza dopo pochi minuti accompagnato da un giovane infermiere che gli diceva che, se andava avanti così, lo avrebbero dimesso in men che non si dica. Misero il vivavoce da entrambe le parti della chiamata, così che a Londra potessero sentire entrambi gli interessati e per permettere a Charlotte di suonare senza intralci. Poggiò le dita sulla tastiera, pronta ad incominciare, ma rimase bloccata. Guardava i tasti e lo spartito, ma non riusciva a trovare nella sua memoria la chiave per decifrare la scrittura né per sapere quali fossero le note giuste. Si morse un labbro, sentendo che il silenzio dall'altro capo della cornetta si era fatto teso ed impaziente. Ma lei non riusciva a suonare, non si ricordava come si facesse. Appena muoveva le dita qualcosa le diceva che sbagliava e si bloccava, le giunture rigide e contratte. Sentiva i battiti del cuore aumentare ogni istante di più e il sangue pulsare doloroso e prepotente nelle tempie, una sensazione di panico e incapacità l'aveva assalita.
"Non ci riesco..." sussurrò, forse più a sé stessa che ai due uomini che stavano aspettando dall'altro capo della cornetta. Sentiva un pizzicore alla base del collo, come se ci fosse qualcuno che continuava a fissarla con urgenza e una punta di ironia.
"Charlotte?" si sentì chiamare dal telefono, non capì nemmeno se era stato John o Sherlock a pronunciare il suo nome. Si morse il labbro inferiore, talmente forte da rompersi le pellicine e farsi uscire una piccola gocciolina di sangue.
"Non ci riesco!" replicò con un tono di voce più alto. Forse aveva urlato, forse aveva solo parlato normalmente, non avrebbe saputo dirlo. "Non mi ricordo come si fa, come si legge la musica!" si portò le mani alla testa, stringendole come se stesse cercando di spremersi il cervello per ricordare.
"Lotte, ascoltami." la voce di Sherlock si fece strada, calda e tranquilla, nella sua mente. Si fermò, rimanendo ad aspettare col fiato sospeso. "Respira. Non farti prendere dal panico, analizza le cose da fuori. Tu sai leggere uno spartito. Sai suonare, sei la migliore musicista che conosco. Quindi respira e affronta la situazione con calma."
Sentì il cuore rallentare e il respiro tornare normale alle parole di Sherlock. Si immaginò John esterrefatto di fronte al comportamento del suo migliore amico, al modo in cui l'aveva tranquillizzata. Quasi le scappò una piccola risata a quell'immagine, ma decise di optare per un sospiro così da calmarsi del tutto. Tornò a guardare lo spartito, questa volta non aveva più segreti e riusciva a decifrare ogni minimo segno nero sulla pagina bianca.
Si schiarì la gola e si scusò per la scenata di prima. Non diede tempo ai due uomini di ribattere che subito si mise a suonare con decisione e abilità, forse fin troppa foga ma sicuramente senza altre incertezze. Arrivò alla fine della composizione senza fiato, respirava pesantemente e con la bocca aperta. Il suo respiro era l'unico rumore che si sentiva assieme ad alcune auto che passavano sulla strada di fronte all'ingresso. Anche a Londra non volava una mosca, John teneva le labbra serrate dissimulando il fatto che non avesse la più pallida idea di cosa stesse succedendo e Sherlock era con le mani giunte davanti al volto. I suoi occhi si muovevano veloci e nervosi da destra a sinistra, come se stesse leggendo qualcosa, ma il suo sguardo non incontrava altro che il pavimento.
"Non è finito." sentenziò alla fine, prendendo tutti alla sprovvista. John lo guardò e Charlotte sospirò.
"Quindi ce ne sarà un altro..." mormorò rassegnata la ragazza. Si passò una mano sul braccio e poi si sistemò i capelli su una spalla. "Non puoi fare qualcosa? Non possiamo aspettare che questo pazzo uccida altre persone!" sbottò.
"Non possiamo fare altro, almeno per il momento. Posso incrociare i risultati delle analisi di tutti e tre i casi, ma..."
"Ma non subito, non puoi ancora uscire di qui. Ordini del medico." si affrettò a specificare John, incrociando le braccia sul petto. Sherlock rimase in silenzio, puntando lo sguardo sull'amico, mentre Charlotte ridacchiò debolmente dall'altro capo del telefono.
"Ti conviene dargli ascolto, zietto caro. A meno che tu non voglia che chiami la nonna..." lo stuzzicò a sua volta, cercando di eliminare dalla sua mente l'immagine di John che prendeva il controllo della situazione. Di John fin troppo sexy che faceva valere il suo ruolo e teneva le redini in mano per una volta.
Scosse decisa la testa, cercando di allontanare quell'immagine dalla sua mente. Non era giusto pensare a quelle cose, non quando avevano entrambi due persone speciali al loro fianco. Ma John aveva un effetto particolare su di lei, era capace di farle dimenticare tutto quello che la circondava e tutto ciò che aveva imparato nella sua vita. Vedeva solo il blu dei suoi occhi, respirava solo l'odore del suo dopobarba e si sentiva attorno le sue braccia. Sempre, ogni volta che anche solo la sua immagine le attraversava la mente, ogni volta che leggeva il suo nome. Non era in grado di spiegarselo, di dare un nome a quella sensazione. Non era amore, non poteva essere amore. Lei era innamorata di David da anni ormai, era convinta di amare solo lui e che il suo cuore battesse solamente per lui. E quello che sentiva verso John era così diverso, così... unico, avrebbe azzardato a dire. Era qualcosa di forte, non poteva negarlo neanche a sé stessa, ma confuso e senza una vera e propria denominazione.
Chiusero la chiamata dopo pochi istanti e dopo che Charlotte li mise al corrente di quello che aveva scoperto quella mattina, poi lasciò che il silenzio si impossessasse della sua casa. Rimase ferma a fissare i tasti del pianoforte per un tempo indefinito, con lo sguardo talmente fisso da sentire la vista incrociarsi ed appannarsi e confondere i colori appena dietro la retina. Si passò le mani tra i capelli, lasciando che quella cascata d'oro scendesse lungo le sue braccia pallide e sottili. Non aveva voluto farlo notare, ma quel momento di amnesia l'aveva turbata più di quanto sembrasse. Non era la prima volta che si scordava di qualcosa. C'era stata una volta in cui aveva dovuto riprendere il libretto delle istruzioni della lavatrice perché non sapeva più che tasti premere per farla partire. Un'altra volta si era dimenticata totalmente di avere una lezione di filosofia morale, una delle sue materie preferite. C'era stata poi quella volta in cui, appena sveglia, non riusciva a ricordarsi come alzarsi in piedi e camminare. Ma tutte quelle volte aveva dato la colpa allo stress, ai mille pensieri che aveva per la mente, al fatto di essersi appena svegliata.
Non poteva però negare che quella volta si era spaventata e non poco. Vedeva le sue mani tese, nervose, che scalpitavano per fare il loro dovere ma che non ricevevano l'impulso giusto dal cervello. Era come guardare dall'interno le mani di un'altra persona, come se fosse una marionetta guidata da qualcuno che non sapeva da che parte girarsi per iniziare a suonare. Non voleva che qualcuno lo sapesse, soprattutto non voleva fosse suo zio. Aveva paura che, in qualche modo, anche suo padre ne potesse venire a conoscenza e non voleva. Lei non voleva farlo preoccupare, dargli altri pensieri per qualcosa che, ne era sicura, era solo una sciocchezza. Sapeva che, sebbene mantenendo il suo solito distacco esteriore, avrebbe smosso mari e monti per andare a fondo della faccenda. Sperava quindi con tutto il cuore che né Sherlock né John ne facessero parola con lui, neanche un minimo accenno. Voleva vedersela da sola, far passare quell'orribile periodo. Sentiva dentro di sé che, una volta tornato David a casa, sarebbe andato tutto a posto.
Se tornerà, dolcezza.
Scosse violentemente la testa, stringendo ancora di più i capelli. Quella vocina saccente e ironica non stava mai in silenzio. La prendeva in giro, giorno e notte, e a volte se ne aggiungevano altre che non facevano altro che sottolineare quanto di sbagliato facesse nella sua vita, quanto fosse una delusione per tutti quelli che la circondavano. Più spesso però, le voci si sovrapponevano l'una all'altra tanto che le parole non erano comprensibili, continui borbottii che le ronzavano nelle orecchie e la facevano sentire come se continuasse a tenere la testa sott'acqua.
Alzò di scatto la testa, il respiro ansimante e gli occhi sbarrati appena una risata riempì le sue orecchie. Era una risata aspra, di scherno, cattiva. Fece saettare lo sguardo da una parte all'altra della stanza, osservando ogni ombra, ogni silhouette dall'aspetto anche solo vagamente umano. Serrò la mascella, pallida come un foglio di carta e tremante, appena riuscì ad identificare quell'immagine così familiare ed angosciante.
In un angolo, ferma e con il suo solito sorriso tirato, c'era lei. La donna con i capelli rossi. Charlotte rimase immobile, troppo impaurita per riuscire anche solo a muovere un muscolo. Sentiva il cuore battere come un tamburo nelle orecchie e cercò di nascondere le mani per non far vedere che avevano preso a tremare violentemente. La donna la guardava con i suoi soliti occhi neri distanti, il collo piegato di lato e i capelli arruffati ed incrostati di sangue scuro e viscoso sul lato destro. Indossava un vestito nero, molto semplice e lineare, ormai sporco e lacero in diversi punti. Non aveva nient'altro con sé, solo quello stramaledetto sorriso che era in grado di far gelare il sangue nelle vene.
"Perché sei qui?" sussurrò Charlotte.
Poteva sentirla, sapeva che poteva farlo anche se era lontana. La donna allargò infatti il sorriso e sollevò le braccia con una lentezza estenuante. Le tenne allora alla stessa altezza dei suoi fianchi, stirate verso l'esterno come se stesse chiamando a sé un bambino. Charlotte scosse la testa, chiudendo gli occhi, e quando li riaprì la vide nella stessa identica posizione.
"No... Non verrò ancora da te, scordatelo." affermò, questa volta a voce più alta e ferma. Aveva raddrizzato la schiena ma il petto si alzava e abbassava ancora freneticamente, quasi come se avesse corso delle miglia e ora stesse cercando di recuperare il fiato perso.
Osservò la donna abbassare le braccia, sempre con lentezza, e il sorriso sparire dal suo volto. Non distolse però lo sguardo, tormentandola continuamente con quegli occhi neri pieni di... Di cosa, esattamente? Rimpianto? Dolore? Rabbia? Follia? Non sapeva identificarlo con certezza, ma le avevano tormentato i sogni per così tanti anni che sarebbe stata in grado di riconoscerli in mezzo a mille altri.
Charlotte allora si alzò cautamente e fece un paio di passi verso la porta. Constatò che la donna non aveva intenzione di seguirla, rimaneva ferma con la stessa posa di un gatto curioso a guardarla andare via. Si azzardò allora a darle le spalle e varcò la soglia. Era ormai abbastanza lontana, ma non riusciva a sentirsi tranquilla. Percepiva ancora quegli occhi bruciarle sulla nuca, quella risata risuonarle nelle orecchie.
Si girò, giusto per essere sicura che non ci fosse nessuno che la seguiva. Si trovò quindi faccia a faccia con quella donna, sentiva l'odore del sangue nelle narici che le provocò un conato di vomito. Osservò i suoi occhi da vicino, si perse in quella profondità nera tanto che le sembrava di essere caduta in un pozzo dal quale era impossibile risalire e in cui non filtrava neanche un raggio di sole.
La donna le afferrò un polso, senza però farle male. Sentiva le sue dita, fredde come pezzi di ghiaccio, stringerle le ossa del braccio e tirarla appena verso di sé. Charlotte scosse la testa, tentando di liberarsi dalla sua presa. Le tremava il mento, aveva paura e sentiva una morsa d'acciaio alla base del collo che le impediva i movimenti.
"Ti prego... Lasciami andare. Non voglio venire da te, per favore..." supplicò con voce rotta.
Vide la donna fermarsi e guardarla con quella che poteva essere compassione. Allentò la presa quel tanto che bastava a Charlotte per liberare il braccio. Indietreggiò, non aveva il coraggio di girarle le spalle, tanto che cadde su un punto particolarmente scivoloso del pavimento. Si spinse allora con le braccia e le gambe, constatando però che la donna non aveva alcuna intenzione di muoversi. Riuscì a rimettersi in piedi e, veloce e leggera come un'ombra, sgusciò in bagno.
Si chiuse la porta appena fu entrata e rimase ferma per qualche istante ad ascoltare il silenzio. Non c'era più alcun rumore attorno a lei, né risate né parole incomprensibili. Sentiva solo il suo respiro pesante e il suo cuore che batteva all'impazzata. Si passò la lingua sulle labbra, secche come foglie in autunno, e si ravvivò i capelli. Con passo incerto si avvicinò al lavandino e aprì l'acqua fredda. Rimase per qualche istante a guardare il liquido scorrere sulla ceramica bianca e se ne riempì le mani fino all'orlo. Si sciacquò allora il viso più volte, godendo di quell'acqua fredda che sembrava allontanarla da tutto il terrore che aveva vissuto pochi attimi prima.
Allungò allora la mano per prendere l'asciugamano e tamponarsi la pelle così da eliminare le gocce d'acqua in eccesso. Rialzò lo sguardo sullo specchio, aspettandosi di incontrare i propri occhi ancora sbarrati ed arrossati, ancora spaventati da quello che aveva appena vissuto e che continuava a vedere da un po' di tempo a quella parte. Serrò la mascella e sentì una morsa allo stomaco quando notò che dietro di lei, a distanza, c'era di nuovo quella donna. Di nuovo la osservava da lontano, non perdeva neanche il suo più minimo movimento. Charlotte sospirò e ripose l'asciugamano.
"Chi sei? Che cosa vuoi da me? Ti ho sempre vista nei momenti peggiori della mia vita, che cosa vuoi?!" terminò quasi urlando, sentendosi improvvisamente arrabbiata.
Forse la donna con i capelli rossi si spaventò al suo mutamento. Aveva notato le sue spalle alzarsi e il suo sguardo cambiare. Ma tutta quella paura si stava trasformando in rabbia, sentiva come se qualcuno volesse distruggere con le sue mani qualsiasi cosa trovasse. Con un grande sforzo riuscì a piantare le mani ai lati del lavandino, stringendo la ceramica con talmente tanta forza che rischiava di farsi male. Si sentiva lontana da quella scena, come se la stesse vivendo da fuori e vedesse tutto da una posizione più alta, ma allo stesso tempo lei era lì, in mezzo a quella situazione, a combattere contro sé stessa per non cedere agli istinti.
Prese un grosso respiro e chiuse gli occhi. Doveva cercare di calmarsi, di dissociarsi da quel momento e vivere le cose con calma. Doveva pensare a suo padre, a come si sarebbe preoccupato se le fosse successo qualcosa, a quanto si sentisse protetta dal mondo quando era con lui. Doveva pensare a Sherlock e a quanto le volesse bene, a David e il suo amore, a John e la sua voce calda e quegli occhi gentili. Doveva pensare a loro e basta, farsi scivolare via di dosso quell'orribile sensazione.
Quando riaprì gli occhi, vide la donna ancora ferma contro il muro, con quei dannatissimi capelli rossi che le scivolavano lungo il braccio e il sangue che le colava sulla guancia. Percepì un ringhio uscirle dalla gola e si stupì di essere stata lei stessa a farlo. Strinse ancora di più la ceramica.
"Vattene! Non ti voglio vedere! Io ti odio, ti odio!" urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. "Non verrò mai più con te, hai capito? Mai più! Lasciami stare!"
Si era sporta di più verso lo specchio e notò un altro cambiamento nella donna. Si aspettava che si sarebbe arrabbiata, che l'avrebbe costretta a fare quello che voleva. Ma si limitò a guardarla, questa volta con una tristezza tale che Charlotte si dispiacque di averla ferita così tanto. Stirò le labbra in un sorrisetto che però somigliava di più ad una smorfia di rabbia. Perché non se ne andava, perché era ancora lì?! Strinse la mano in un pugno, che tirò violentemente contro lo specchio. Sentì la lastra rompersi sotto la sua mano, le schegge graffiarle la pelle. Ma tornò a respirare normalmente quando vide, attraverso i pezzi rotti, che era nuovamente sola.
Udì il telefono trillare brevemente per avvisarla di un nuovo messaggio in entrata. Quel rumore la fece tornare ad avere pieno possesso del suo corpo ed osservò la sua mano, ancora premuta contro quello che era uno specchio. Il sangue le colava lento e viscoso lungo il braccio, fino al gomito, per andare ad infrangersi sulla manica larga su cui si stava formando una grande macchia rosso vivo. Sbatté un paio di volte le palpebre. Non sentiva male e neanche bruciare, era più come se stesse osservando la mano di un'altra persona.
Ritirò il braccio e si allontanò dal bagno, lasciando che alcune piccole gocce di sangue cadessero sul parquet del suo corridoio. Prese in mano il telefono, macchiando anche quello, e lesse il messaggio di testo che le era appena arrivato.
Tuo zio non te lo dirà mai, ma sei stata molto più utile di quanto pensi. Saremmo ancora in alto mare senza di te.
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