Capitolo 13
Il pomeriggio era passato in modo incredibilmente tranquillo e piacevole. Charlotte e John avevano bevuto un the e avevano chiacchierato e riso assieme come se gli avvenimenti dei pochi giorni precedenti non fossero successi. Per Charlotte era incredibile vedere quanto si trovasse bene assieme a John e quanto semplice fosse parlare con lui. Non le accadeva spesso, neanche con David. Quando litigava col fidanzato ci voleva sempre del tempo prima che la situazione si sistemasse, poiché erano entrambi troppo orgogliosi per fare il primo passo e chiedersi scusa. Era più simile al modo che aveva di comportarsi con il suo migliore amico, Leslie Prescott.
Leslie era l'unico che era stato con lei fin dai tempi dell'asilo, si erano conosciuti una mattina tra l'armadio dei costumi e la cesta delle costruzioni e non si erano mai più lasciati andare. Per gli insegnanti, infatti, erano sempre "Charlotte e Leslie", dove andava uno, seguiva anche l'altra. Solo le scuole elementari erano state svolte in plessi diversi, addirittura dalle parti opposte di Londra, ma riuscivano sempre a ritagliarsi del tempo per stare assieme, che fosse un'ora al pomeriggio o un pigiama party durante il weekend. Avevano vissuto tante avventure assieme, dall'esplorazione di un'inquietante chiesetta abbandonata alla prima volta che si erano persi in un grande parco appena fuori Londra ed erano stati ritrovati da Mycroft solo dopo alcune ore e con la paura di non riuscire mai più a ritrovare la via di casa. Avevano affrontato in coppia i problemi adolescenziali, da quelli di cui andare fieri come i primi due peletti sul mento di Leslie a quelli imbarazzanti come l'acne o quella volta in cui Charlotte ebbe un ciclo più pesante del solito e si macchiò la divisa scolastica proprio durante un'assemblea d'istituto, i primi cuori infranti, il coming out di lui con i seguenti tentativi di bullismo da parte di compagni troppo stupidi per capire e il 'periodo buio' di lei durante il quale Leslie si sentiva impotente e inutile. Avevano accolto nel loro rapporto esclusivo David solo dopo due o tre anni che Charlotte l'ebbe conosciuto (avevano tutti e tre circa otto o nove anni e allora entrare in un 'club' del genere era l'avvenimento più importante della vita di un bambino) e, successivamente, quando avevano ormai sedici anni, Max Yearn, fidanzato e ora convivente di Leslie. Si era sentita tradita quando i due avevano annunciato che si sarebbero trasferiti a Parigi, era come se anche loro la stessero abbandonando poco dopo che David era dovuto partire con la Royal Marine, ma in fondo era felice per loro. Leslie voleva studiare per diventare pasticcere e aveva trovato una meravigliosa scuola nella capitale francese che lo avrebbe aiutato a realizzare il suo sogno. Max invece si era iscritto alla Sorbona e sarebbe diventato un fantastico insegnante d'inglese a giudicare dai voti stratosferici che aveva conseguito nei primi esami.
Si era avvicinata l'ora di cena e, sperando in un rientro a sorpresa di Sherlock, John si era messo ai fornelli. Charlotte era rimasta in cucina, aveva apparecchiato e poi aveva deciso di rimanere semplicemente seduta a tavola a guardare John destreggiarsi tra pentole e padelle. Lei non era molto brava a cucinare, se la cavava quel tanto che bastava per non far saltare in aria la cucina o morire avvelenata. Ma non aveva la curiosità, la passione, e la sua avversione verso il cibo soprattutto in età adolescenziale non l'aveva certo aiutata a sviluppare un rapporto sano rispetto a tutto quello che concerneva il mondo della cucina.
Le piaceva però vedere altri immersi nell'attività. Aveva guardato più di una volta Leslie preparare dei dolci, ad esempio. Sia quando aveva appena iniziato e si sporcava di farina e latte fin sui capelli, sia quando ormai era talmente a suo agio nell'ambiente da riuscire a fare tutto senza quasi guardare. Era così fluido e sicuro quando cucinava che sembrava sollevato da terra di un paio di spanne e avvolto dalla luce pura della soddisfazione. Non c'erano dubbi che quello era il suo destino: aveva un'espressione così felice e in pace quando si destreggiava tra zucchero e coloranti che anche il più ottuso avrebbe compreso in che direzione puntava il suo cuore.
John era un po' incerto nei movimenti, sicuramente era a causa della poca familiarità che aveva ancora con quella cucina che non era la sua. Ma a Charlotte non importava, non ci faceva neanche caso. Era rimasta incantata a guardarlo, sorpresa dal suo iniziare a fischiettare un motivetto che non conosceva, forse addirittura improvvisato, mentre mescolava. Non si era accorta del sorriso spontaneo che le era apparso sulle labbra, né di aver assunto un'espressione quasi sognante, la guancia appoggiata su una mano e i capelli che scivolavano lenti di lato. Aveva ragione prima, non potevano controllare i loro sentimenti, le loro emozioni. Quello era impossibile e, aveva notato, più si provava a nasconderle e farle sparire, più quelle tornavano forti e prepotenti. Potevano però trattenersi, evitare di toccarsi, combattere contro sé stessi e mantenere le distanze. Ma, pensò, niente le impediva di guardarlo. Non era bello come David, su quello non poteva mentire. David era un ragazzo stupendo, alto, con gli occhi verdi e la pelle candida e un naso adorabile la cui punta era rivolta vezzosamente all'insù che poteva farlo sembrare snob come pochi ma che lei amava schiacciare in maniera giocosa col dito indice. John, al contrario, aveva un fascino particolare di cui era facile cadere vittima. Non che fosse brutto, per carità, ma riconosceva non fosse la persona che provoca dei giramenti di testa appena entra in una stanza. Quella era suo zio, doveva essere sincera. John aveva però un modo di porsi che affascinava, un certo non so che in grado di attrarre, che lo rendeva sexy e irresistibile. Era forse il suo sorriso che portava ogni cuore a perdere un battito, un sorriso così dolce che faceva credere alla persona a cui era rivolto di essere la più importante dell'universo. O forse quegli occhi di un blu così scuro da somigliare al cielo notturno e così caldi da riuscire a sciogliere anche i cuori più freddi.
"Devo farti pagare il biglietto, se continui così." ridacchiò John vicino al suo orecchio mentre metteva i piatti in tavola. Charlotte arrossì di colpo, cercando di nascondere il volto tra le mani, cosa che fece ridere John ancora più forte. "Dai, stavo scherzando! Mangia, ora... Mi sa che saremo da soli ancora per un po'."
Cenarono quindi insieme, sempre chiacchierando come due vecchi amici. Dopo mangiato Charlotte riuscì a convincerlo a dare un'occasione a Twin Peaks, tirando fuori i Dvd che Mycroft era riuscito a regalarle in anteprima mondiale. Guardarono i primi tre episodi prima che la stanchezza prendesse il sopravvento su entrambi. O meglio, più su John, dato che Charlotte si era spenta già a metà del secondo e sembrava in procinto di addormentarsi. Se ne era accorto perché all'inizio continuava a indicare lo schermo e commentare animatamente mentre ad un certo punto si era limitata a tenere la testa appoggiata sulla sua spalla e guardare la televisione, dicendo ogni tanto quanto Dale Cooper fosse il sogno proibito suo e del suo migliore amico quando guardavano la serie insieme o di come BOB avesse tormentato le sue notti anni prima.
Durante i titoli di coda allora l'aveva scossa appena e aveva represso una risata alla sua esclamazione "ero sveglia, lo giuro!". L'aveva quindi invitata ad andare di sopra e mettersi a letto, aveva bisogno di dormire. Non aveva avuto neanche la forza di ribattere, aveva semplicemente annuito e si era avviata sulle scale sbadigliando. In quella che le era parsa un'eternità si era infilata il pigiama, lavata i denti e messa a dormire.
Quando sentì dei rumori in camera, pensava fosse mattina. Le bastò un'occhiata alla sveglia per rendersi conto che era solo l'una di notte e non le servì altro che sentire il materasso di fianco a lei curvarsi per capire che Sherlock era tornato. Rimase tuttavia girata di lato, gli dava le spalle, e probabilmente lo stava facendo anche lui. Ogni traccia di sonno ormai se ne era andata, sentiva il sangue pulsarle nelle orecchie e una confessione che spingeva per uscire dalle sue labbra. Un'ammissione che non poteva rendere nota davanti a John, qualcosa che di sicuro lo zio sapeva già e che avrebbe senza dubbio peggiorato la situazione. Ma doveva dirglielo, era qualcosa che non poteva tenergli ancora nascosto.
Strinse il lenzuolo tra le dita. Fingeva di dormire, ma sapeva che Sherlock aveva notato che era sveglia. Sapeva che stava aspettando fosse lei a parlare e non sarebbe stato soddisfatto prima di averla sentita.
"Ci ho riprovato." sussurrò infine, consapevole che comunque lui l'avrebbe sentita. Lo percepì contrarre appena i muscoli e si morse il labbro. Non se lo aspettava? Non era quello che voleva sapere?
"Poco prima che arrivaste voi qui. Non... Non ricordo il perché e come sia successo, ma... Mi sono trovata sporta sul davanzale dell'altra stanza, quella che da sul garage. Era come... Come guardare qualcuno che usava il mio corpo. Era il mio corpo, ma non lo era. Non lo controllavo. Si sporgeva sempre di più e io volevo tornare indietro." sospirò. "Poi ho sentito il telefono. Sono riuscita ad allontanarmi e andare a rispondere." terminò il suo racconto stringendosi le braccia attorno, come se cercasse di proteggersi dai ricordi in quel modo.
Ricordava perfettamente il senso di sollievo a quella chiamata ma anche quella punta di stizza. Una voce nel suo cervello urlava ingiurie contro chi l'aveva disturbata e che cercava di convincerla a tornare dov'era e finire il lavoro. Quando aveva preso il telefono in mano e aveva guardato lo schermo, però, non aveva potuto fare a meno di sorridere. Suo padre. Era sempre lui, il suo angelo custode. Sembrava sapesse il momento esatto in cui aveva bisogno.
Sentì Sherlock muoversi sul letto. Si era girato verso di lei ed era rimasto qualche istante a guardare la sua testa bionda. Si avvicinò e le passò un braccio attorno, le prese una mano, tenendogliela stretta. Non era il tipo da esternazioni d'affetto, erano rare le volte in cui la abbracciava. Quelle situazioni poi lo mettevano particolarmente a disagio, lo sapeva bene. Per questo motivo quel tocco era così significativo per lei. Si aggrappò a quella stretta con tutte le sue forze, cercando quel calore e quell'amore che aveva intravisto innumerevoli volte nella sua vita ma che si era palesato solo occasionalmente. Quello era più importante di un abbraccio o bacio dato per cortesia, per accontentare, e le confermava che lui era lì. Che lui c'era, per lei e con lei. Che anche se disapprovava di tante cose, se le faceva del male senza accorgersi, se la dava per scontata... Lui le voleva bene.
"E poi l'ho vista di nuovo. Una sola volta, ma l'ho vista. La donna con i capelli rossi. Non è cambiata. Mi guardava, sempre con gli occhi sbarrati e quel sorriso..." represse un brivido ma non riuscì a mascherare l'incertezza della sua voce. La stretta di Sherlock si fece più forte e lei la ricambiò come se fosse l'unico appiglio alla realtà.
"Ti ha fatto del male?" le chiese finalmente. La sua voce era bassa, calda e per lei ebbe un effetto calmante. Mosse appena la testa per dirgli che no, non le aveva fatto niente, la guardava e basta. Sherlock sospirò. "Meglio così."
Rimasero in silenzio per una manciata di secondi. Stare svegli durante la notte faceva dilatare il tempo, tanto che quei pochi istanti di silenzio vennero percepiti come minuti interi. Alla fine Charlotte prese coraggio per affrontare l'ultimo argomento, quello più importante e che le stava opprimendo il cuore.
"Quando te ne sei accorto?" chiese semplicemente. Sapeva che lui avrebbe capito.
"L'altra sera. Aveva il tuo profumo addosso e tu il suo." Charlotte chiuse gli occhi e si morse un labbro. Era quindi impossibile pensare di tenerglielo nascosto. "Ma avevo già visto come vi guardavate."
"Mi spiace, zio... Mi spiace così tanto." mormorò. Lui scosse la testa.
"Non è a me che dovete chiedere scusa."
"Non lo dirai a nessuno, vero? Né a papà, né a Mary o David..." chiese, sentendo un groppo in gola alla sola idea che potesse succedere.
"Non è compito mio farlo." sentenziò.
E aveva ragione. Non spettava a lui essere sincero con gli altri, confessare quello che era successo. Dovevano essere loro due, ma non avrebbero mai messo a repentaglio le proprie vite per qualcosa che poteva anche essere estemporaneo.
Se c'era una cosa che Charlotte aveva sempre adorato di suo zio, era la totale assenza di giudizio. A meno che non fossero cose veramente gravi, lui non prendeva mai una posizione e non giudicava le scelte di nessuno. Non lo aveva mai fatto con lei, almeno, anche quando sbagliava clamorosamente. Le aveva sempre parlato con calma e, a volte, era stato in grado di farle capire perché aveva commesso un errore piuttosto che sgridarla e basta.
"Domani mattina dobbiamo andare via." le comunicò e lei annuì piano.
"Hai qualcosa di importante da fare a Londra, vero?" chiese, ma non ottenne risposta. Accennò un sorriso mesto. Quel silenzio le diceva che aveva ragione. "Se è quello che penso... Fai attenzione, ti prego. È più pericoloso di quanto credi, non voglio che ti succeda qualcosa." gli confessò, cercando di fargli capire in ogni modo che sapeva cosa aveva in mente.
Sherlock sorrise, uno di quei sorrisi sinceri e carichi di affetto che né lui né suo fratello riuscivano a farle vedere. Non riusciva a fare a meno di preoccuparsi, lei. Forse un po' glielo avevano insegnato loro, sempre preoccupati per la sua incolumità e la sua sicurezza. Ma il modo in cui lo esprimeva era affascinante. Era così sincera e fluviale, non nascondeva mai i suoi sentimenti originari ed era naturale. Non si sforzava a farlo vedere, era qualcosa di troppo forte che non poteva tenere nascosto a lungo. Era così diversa da loro, così spontanea ed irruenta nelle sue manifestazioni d'affetto, ma non riusciva a vederla come tutti gli altri.
Le aveva voluto bene dalla prima volta che l'aveva vista. Aveva tredici anni e all'inizio la odiava. Non la conosceva, ancora non era neanche nata, ma lui già la odiava e serbava rancore nei suoi confronti. Non lo avrebbe mai ammesso a voce alta, ma il sé stesso preadolescente aveva avuto paura di perdere per sempre il suo fratellone. Si era già sentito abbandonato quando Mycroft li aveva lasciati per andare a Oxford, ed erano ancora lontani i tempi in cui non sarebbero riusciti a rimanere nella stessa stanza senza litigare. L'arrivo di quella bambina, di quell'intrusa, non era altro che l'ennesima conferma che ormai si era stancato di lui, che non lo voleva più tra i piedi e quindi Sherlock avrebbe dovuto cavarsela da solo da quel momento in poi.
Quando Wanda e Timothy lo portarono da Mycroft e i genitori di Charlotte, lui non voleva andarci. Puntò i piedi, urlò, tentò di scappare, ma fu tutto inutile, poiché Wanda gli rifilò uno scappellotto e lo minacciò di non fargli più utilizzare il piccolo laboratorio di chimica che avevano allestito assieme. Accettò controvoglia, tenne le braccia incrociate per tutto il viaggio e continuava a ripetersi mentalmente che odiava quella bambina, che sarebbe stata orribile e lui non avrebbe mai voluto averci niente a che fare. Ma poi la vide e sentì i muscoli della fronte rilassarsi e tutti i sentimenti negativi scivolare via. Gliela misero in braccio, sotto lo sguardo attento di tutti gli adulti nella stanza. Lei gli aveva preso il dito e lo aveva infilato in bocca, come se fosse il suo ciuccio, e Sherlock si era quasi messo a piangere. Era una persona totalmente diversa allora, a volte rimpiangeva il sé stesso di vent'anni prima.
Le aveva voluto bene da quel momento, non passava giorno in cui non chiedesse di lei e non volesse vederla. E quando anche lei fu in grado di amare, di avere sentimenti e pensieri che andassero oltre i bisogni fisiologici, aveva visto il perfetto riflesso del suo amore negli occhi della ragazza. Incondizionato, eterno, a volte anche sofferente, ma era sempre lì con una forza tale da fare quasi paura a Sherlock. Sapeva che non si sarebbe fermata davanti a niente per lui, per tutti loro, si sarebbe messa anche in mezzo a costo della sua vita.
"Zio?" lo richiamò, riscuotendolo dai suoi pensieri. Gli ci volle una frazione di secondo prima di capire cosa voleva dirgli, quali erano le parole che non avevano abbandonato le sue labbra ma che aleggiavano tra loro.
"Lo so." sorrise e anche lei piegò gli angoli della bocca.
"Più degli altri."
"Più di chiunque altro, Lotte." terminò, con un tono di voce che indicava che sarebbe stata la fine di quella piccola chiacchierata notturna.
La mattina dopo, Charlotte aiutò Sherlock e John a recuperare tutte le loro cose e chiamò una delle auto di suo padre che li riportasse a casa. Aveva dovuto combattere contro le rimostranze dello zio, ma era riuscita a spuntarla dicendo che, in quel modo, tutte le ricerche di quella settimana sarebbero state al sicuro. Il detective aveva quindi sbuffato e accettato di malavoglia quel compromesso, mentre John aveva esibito un sorrisetto divertito.
In poco tempo l'auto era arrivata e avevano caricato tutto quello che dovevano. Charlotte era anche riuscita a catturare Sherlock in un abbraccio, uno così stretto da togliergli il respiro. Fu sorpresa nel sentirlo ricambiare, nel percepire le sue labbra sfiorarle lievemente la tempia. Tornò poi indietro, dove vide John appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto e la borsa ai suoi piedi.
"Non sono tranquillo a lasciarti qui da sola." le disse, aggrottando appena le sopracciglia. "Forse è meglio se rimango qui."
Charlotte scosse energicamente la testa e poggiò una mano sul suo braccio. Gli sorrise.
"Devi tornare a casa da Mary. Io starò bene, non preoccuparti." lo rassicurò, e lui fece cadere le braccia lungo i fianchi. "E poi, male che vada, siete solo ad un'ora da qui. Potete venire quando volete."
John sembrò pensarci sopra, ponderare le parole della ragazza. Sapeva in cuor suo che aveva ragione, ma allo stesso tempo non voleva lasciarla da sola in quella casa troppo vuota e troppo silenziosa per lei. Sospirò e poi annuì piano, accettando la sua risposta.
"Prenditi cura di te stessa, okay?" sussurrò, accarezzandole una guancia. Lei sorrise e si sporse per dargli un bacio sulla guancia, terribilmente vicino all'angolo della bocca tanto che John dovette combattere l'istinto di girarle il viso e baciarla sulle labbra.
Scese quindi gli ultimi scalini, la borsa stretta in una mano. Si diresse verso l'auto, pensando a come sarebbe andato il suo ritorno a casa. Avrebbe fatto un salto a Baker Street, dove la signora Hudson gli avrebbe offerto un the con dei biscotti artigianali e non lo avrebbe fatto andare via prima di aver sentito tutto quello che era successo. Poi sarebbe tornato a casa sua, dove avrebbe abbracciato e baciato Mary. Le avrebbe detto che le era mancata, che aveva pensato spesso a lei. Forse avrebbero fatto l'amore, sarebbero rimasti abbracciati nel letto mandando a benedire il lavoro per quel giorno.
"John?" lo richiamò Charlotte e tutti i pensieri del medico si allontanarono rapidamente.
Ci ha ripensato, vuole che rimanga qui, pensò con un moto di speranza nel petto. Avrebbe lasciato le sicurezze di Londra in un batter d'occhio se solo lei glielo avesse chiesto. Si girò e la guardò con gli occhi grandi, le labbra appena separate. Era ferma sulla soglia ed era bellissima. Gli sorrise e si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
"Avvisami quando siete arrivati, va bene?"
John riprese a respirare normalmente e abbassò le spalle. Cosa si aspettava? Lo aveva detto chiaramente, era stato solo un errore. Lei voleva stare con David, era lui l'amore della sua vita così come Mary doveva essere l'amore di quella di John. Sarebbero stati davvero in grado di stravolgere la loro esistenza, sfidare i giudizi e dividersi a metà per qualcosa che ancora non aveva nome?
Le sorrise e annuì.
"Certo, non preoccuparti." le fece l'occhiolino prima di voltarsi e riprendere il suo cammino, evitando all'ultimo momento l'autista che si stava avvicinando alla soglia.
Aveva una piccola scatola in mano, il rosso e blu scuro del pacchetto contrastavano con il completo nero che indossava. Si fece vicino a Charlotte, che era rimasta a guardare il punto dove c'era John, incantata da quel suo sorriso e quell'occhiolino.
"Miss Holmes?" chiese l'autista, Ted Potter.
Charlotte lo guardò. Conosceva bene il vecchio Ted. Aveva circa sessant'anni e lavorava per suo padre da quando aveva memoria. Aveva una moglie che soffriva di endometriosi e fibromialgia, impossibilitata quindi a lavorare, e un figlio che consideravano un miracolo e che era tutto il loro mondo. Doveva avere circa la sua età, qualche anno in più forse, ma avevano avuto molte difficoltà a concepire a causa delle malattie della donna.
Le era sempre piaciuto, tra gli autisti era uno dei suoi preferiti. Aveva sempre una caramella o un cioccolatino in tasca che le dava di nascosto da Mycroft. Un piccolo vizio, il loro segreto che di sicuro era conosciuto anche a Mycroft ma che, almeno per lei, rimaneva personale. Non si era mai scordato un suo compleanno, mandava sempre gli auguri di Natale e quando andava a prenderla a scuola le chiedeva sempre come era andata.
Charlotte gli sorrise.
"Lo sai che puoi chiamarmi Charlotte, Ted." rispose e lui ridacchiò.
"Devo mantenere un certo contegno davanti ad altri." si schiarì la gola e le porse la scatolina, su cui aveva appoggiato una caramella e una busta. "Il regalo è da parte del signor Holmes. La caramella e la busta sono da parte mia, di mia moglie e di Zeke. Buon compleanno, Charlotte, anche se in ritardo." le sorrise prima di tornare indietro.
Charlotte riuscì a mormorare solo un grazie e guardò l'auto nera andare via. Solo quando fu fuori dalla sua portata rientrò in casa. Scartò la caramella e la mangiò immediatamente - miele e menta, Ted la conosceva bene ormai - e aprì la busta. Non riuscì a nascondere un sorriso nel vedere il bellissimo biglietto realizzato da Zeke. Aveva sempre avuto la passione del disegno e della calligrafia e aveva visto ogni anno i suoi progressi. C'erano poi le firme di tutti e tre. Notò con dispiacere che quella di Loretta era incerta e tremula. Di sicuro era in preda ad uno dei suoi attacchi di dolore.
Decise poi di aprire la scatola. Tirò piano il nastro blu, tenendolo da parte per poterselo mettere tra i capelli. Appoggiò allora il coperchio sul tavolo a cui si era seduta e prese in mano un bigliettino e un bracciale. Era un semplice bracciale in stile tennis con dei brillanti che luccicavano alla luce come stelle. Sulla chiusura erano incise una S e una A in caratteri eleganti e svolazzanti. Spiegò allora il biglietto e cominciò a leggere.
Tuo padre regalò questo bracciale a tua madre quando compì vent'anni. Sarebbe molto felice se ora lo avessi tu.
Buon compleanno, bambina mia.
Papà
Rilesse quelle poche righe e guardò nuovamente il bracciale. Lasciò cadere il pezzo di carta e si portò una mano sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Grosse lacrime scendevano sulle sue guance, gocce d'acqua calde e salate. Ma sorrideva, contro il suo palmo si era aperto il sorriso più grande della sua vita.
Non aveva mai avuto prima di quel momento qualcosa che fosse appartenuto ai suoi genitori. Pensare che quel bracciale era stato toccato da suo padre, indossato da sua madre... oh, era come prendere la prima boccata d'aria dopo una lunga apnea. Riusciva a sentirsi più vicina a loro, come se fosse il primo passo per scoprire chi realmente fossero. S e A... dovevano essere le loro iniziali.
Prese il cellulare e inviò velocemente un messaggio a Mycroft. Grazie, papà, grazie! Ti voglio bene, così tanto che non puoi immaginartelo!
Si allacciò poi il bracciale al polso e rimase ad ammirarlo. Sorrideva mentre immaginava la mano bianca di sua madre al posto della sua.
Sorrideva perché, finalmente, si sentiva vicina alle sue radici.
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