Capitolo 12
Charlotte aveva dormito poco quella notte. Aveva continuato a rigirarsi nel letto pensando a tutto quello che era successo quella sera. Il suo cuore non dava l'impressione di volersi fermare e si sentiva così in colpa. Non era solo per quel bacio, per quanto spinto potesse essere, ma soprattutto per la consapevolezza che sarebbe volentieri andata oltre. Che voleva andare oltre, sentire la reale consistenza della sua pelle, toccare i suoi fianchi appena tondi, lasciargli il libero e incondizionato accesso a tutto il suo corpo. Che a dare retta al proprio istinto sarebbe corsa giù dalle scale e dritta tra le braccia di John, ed era sicura lui l'avrebbe accolta senza pensarci su. Sentiva una spina che le faceva sanguinare il cuore e si conficcava sempre più in profondità, come se volesse trapassarlo e farsi vedere dall'altro lato. Aveva cominciato a graffiarla a Natale, un piccolo raspare non dissimile da un lieve mal di gola, e man mano prendeva posto con prepotenza, tanto che ogni volta che vedeva John la lacerava appena di più, le faceva desiderare di mollare tutto e lasciarsi andare al suo istinto.
Forse David avrebbe potuto perdonarle il bacio. Erano entrambi ubriachi, entrambi soli in quel momento e avevano cercato di consolarsi a vicenda. Ma come avrebbe potuto anche solo capire tutto il resto? Il fatto che lei voleva condividere quel momento così intimo con John e non con altri, che ancora bramava il suo tocco e, ogni volta che stava sdraiata supina, sentiva ancora la dolce pressione del suo corpo sul proprio? Gli avrebbe spezzato il cuore, avrebbe pianto e probabilmente avrebbe continuato a stare con lei anche se gli faceva male perché non conosceva altro modo di essere felice se non con lei. Ma lei non voleva farlo, non voleva rovinargli la vita. Amava David, lo amava sul serio con tutto il cuore. Se guardava il suo futuro, vedeva lui al suo fianco sino alla vecchiaia. Aveva già in mente immagini di come sarebbe stata la loro vita: un matrimonio sobrio ed elegante, una luna di miele romantica, due o tre bambini in una grande casa sempre piena di luce, fiori e risate. E poi avventure, rientri a casa accolti da un bacio, una spalla sempre lì su cui piangere o con cui ridere, i figli che si sarebbero sposati, i nipoti e la vecchiaia trascorsa sempre assieme, sempre uno di fianco all'altra fino all'ultimo respiro. Ma John... John era diverso. Con lui si era sentita subito a suo agio, aveva sentito una scarica di energia la prima volta che aveva sfiorato la sua mano. Quando lo guardava negli occhi, quei meravigliosi occhi blu scuro, le girava la testa e il cuore batteva più forte. Quello che sentiva con John era stimolante, eccitante e al contempo familiare. Era come se avesse già conosciuto quelle braccia forti, il calore del suo abbraccio, la musica della sua risata e fosse semplicemente tornata a casa dopo tanto tempo. Era un sentimento irruento e indomabile, come una bestia selvaggia che ha trovato la sua preda e ci si scaraventa addosso. Si sentiva attratta da lui come non era mai successo prima con altri, neanche con David. Soffriva la lontananza dal suo fidanzato e quando si erano rivisti era come se tutto fosse tornato al suo posto, mentre con John era stato diverso. Erano passate solo alcune settimane, eppure quando aveva piantato nuovamente lo sguardo nel suo il tempo non era passato, si erano salutati solo la sera prima, non si erano mai detti addio. Quel tempo separati non era esistito, lei non era mai tornata ad Oxford e lui non era mai rimasto a Londra.
Sentì Sherlock rientrare durante la notte e scivolare silenzioso nel letto di fianco a lei, abbastanza lontano da non sfiorarsi neanche per sbaglio. Se ne era accorto? Come avrebbe potuto, non aveva parlato con nessuno, lo avrebbe sentito. I muri della casa non erano così spessi, dopotutto, e nel silenzio dell'oscurità sarebbe stato possibile sentire anche il minimo sussurro. Ma lui era Sherlock Holmes, dopotutto, era ovvio se ne fosse accorto. Niente sfuggiva al suo occhio attento.
Anche se aveva capito, tuttavia, fu abbastanza umano da non sollevare la questione. C'era un palese imbarazzo tra Charlotte e John, i loro sguardi erano fugaci e non rimanevano mai fissi per più di un paio di secondi. Ma Sherlock non disse niente. Continuava a lavorare, un po' sul caso di Laura Palmer - Charlotte e i suoi riferimenti alla cultura pop che gli rimanevano in testa! - e del prete crocifisso, un po' su Magnussen. Aspettava paziente che la ragazza finisse di tradurre lo spartito e lo adattasse al modo di suonare moderno. Non sarebbe stato così tranquillo con altri, ma non voleva metterle fretta. Sentiva che quel dettaglio era la chiave per tutto il mistero e non voleva rischiare che sbagliasse. Era troppo importante per ammettere un errore, e forse in parte si sentiva anche in colpa per come si era comportato con lei, sia nei giorni precedenti che negli anni.
Doveva ammettere che l'espediente degli spartiti lo intrigava. Era intelligente, non scontato e per niente semplice da comprendere senza una buona conoscenza della musica. L'assassino era di sicuro una persona brillante, capace di pensare fuori dagli schemi e in grado di solleticare il suo interesse come solo Magnussen e Moriarty erano in grado di fare. Aveva per un istante considerato potesse trattarsi di Jim, ma aveva subito scartato quell'idea. Moriarty non lasciava biglietti e, sebbene fosse molto teatrale nelle sue azioni, non era nel suo stile. Lui preferiva instaurare un rapporto diretto, quasi una danza a due con Sherlock, mentre quello era qualcosa di diverso. Qualcosa che non era ancora riuscito ad inquadrare bene, ma che aveva la sensazione fosse ancora più intimo e subdolo dei giochetti di Moriarty.
Fu il pomeriggio del martedì che cambiò la situazione. Pioveva e non avevano messo il naso fuori di casa per tutto il giorno. Sherlock stava per scoppiare, non riusciva a venire a capo delle sue ricerche. Non fino a quando Charlotte non gli avesse mostrato quello stramaledetto spartito. John si era accorto dello stato d'animo dell'amico e cercava in tutti i modi di aggirare il suo mirino per non cadere preda delle sue deduzioni nervose. Arrivò addirittura a concedergli di fumarsi una sigaretta senza dirgli niente, si sa mai che riesca a sciogliergli un po' i nervi. Lo vedeva tamburellare le dita l'una contro l'altra e muovere le gambe allo stesso tempo, come se fosse pieno di un'energia esplosiva che non aspettava altro di avere la spinta giusta per liberarsi.
John guardò le scale e per la prima volta in quegli ultimi giorni sperò che Charlotte lo portasse via da quella situazione. Che arrivasse e gli dicesse che aveva finito oppure che gli chiedesse di accompagnarla a fare una passeggiata sotto la pioggia. Non gli importava cosa di preciso, ma voleva fuggire da lì, da quella situazione. Invece lei se ne stava rintanata nella 'Stanza della Musica', così l'aveva chiamata, al sicuro 'là fuori' dove non arrivavano le influenze degli Holmes, mentre aveva lasciato lui in balia di 'lì dentro'. Ogni tanto si sentiva qualche nota di pianoforte, un'imprecazione, un motivetto canticchiato a voce. Ci stava dedicando tutta la sua attenzione, scordandosi anche dei suoi compiti universitari e di sé stessa. John era stato tentato di salire, aprire la porta e dirle di prendersi una pausa, di mangiare qualcosa e farsi un giro. Aveva desistito ogni volta, sentendosi a disagio sotto lo sguardo inquisitorio di Sherlock che, ora ne era certo, sapeva tutto. Sapeva e negli occhi nascondeva un misto di delusione, tenerezza e rimprovero. Se fosse stato un altro, si rese conto John, lo avrebbe preso a pugni. Se al posto di Sherlock ci fosse stato David l'avrebbe preso a pugni. O anche Mary. In qualsiasi situazione le avrebbe prese, di questo era sicuro, e avrebbe accettato qualsiasi cosa perché, in fondo, sapeva di meritarlo. Ma Sherlock stava zitto, accettava quella situazione con una pacatezza che non gli avrebbe mai attribuito e John gliene era grato come mai prima di quel momento.
John sospirò e si chiese se fosse il caso di dirgli qualcosa. Anche solo un 'è colpa mia, non arrabbiarti con lei', ma come l'avrebbe presa? Cosa gli avrebbe detto poi, come si sarebbe giustificato? 'Mi dispiace, amico, ma è così bella e credo di-'. Non lo avrebbe neanche fatto finire, probabilmente, e avrebbe cominciato con le sue deduzioni che non avrebbero fatto altro che farlo star male perché lui amava Mary. Sapeva di amarla, non l'avrebbe mai sposata altrimenti, ma qualcosa si era rotto. Non era più come prima e Charlotte profumava di libertà e nuove occasioni, di leggerezza e dolcezza. Ma allo stesso tempo sapeva che non avrebbe mai lasciato sua moglie, neanche se ne fosse andato della sua vita. Se aveva sposato Mary, un motivo c'era. Doveva solo ritrovarlo e ridare vita alla fiamma, sperando che non fosse soffocata sotto i carboni.
Fu salvato dalla porta al piano di sopra che si aprì e sbatté contro i cardini. Charlotte si affacciò dalla balaustra, un enorme sorriso le occupava il volto. Bella, bellissima, come il sole di maggio e i fiori di campo. John strinse un pugno lungo il fianco, cercando di cacciare quei pensieri.
"Ce l'ho fatta! Venite su!" li chiamò, entrando nuovamente nella stanza di prima e sedendosi al pianoforte.
Sherlock balzò in piedi e percorse la breve rampa in poco tempo. John lo seguì con più calma ma curioso di sentire il risultato del lavoro di quell'ultima settimana. Quando arrivò, Sherlock era già seduto su una poltrona bordeaux che pareva abbastanza costosa posta all'altro capo dell'elegante e lucido pianoforte a coda. John prese posto sulla sedia vicina ad una chitarra classica dalla cassa nera e i lucchetti dorati.
Charlotte si scrocchiò le dita e portò lo spartito alla sua pagina iniziale. Sfiorò i tasti, lasciando apparire un piccolo sorriso spontaneo. Amava quello strumento, ci aveva affidato tanti pensieri e tante emozioni. Prese un grosso respiro e vide che lo zio aveva chiuso gli occhi e posizionato le mani giunte a coprire le labbra e il naso. Era la sua solita posa di quando pensava e da quello capì che era pronto ad entrare nel suo palazzo mentale. Iniziò a suonare, consapevole che la musica entrava nel suo palazzo mentale e lo aiutava a delineare forme e colori, parole e pensieri, idee e conclusioni. Suonò e gli trasmise tutto quello che c'era in quel biglietto, le parole nascoste nelle note, i sentimenti con cui erano state scritte.
Sherlock aveva sempre detto che suonare lo aiutava a pensare. Lo aiutava anche quando non riusciva a cacciar fuori da violino nient'altro che suoni sconnessi e acri. Quando Charlotte aveva imparato a suonare, era stato molto più semplice. Ascoltarla schiacciare i tasti o pizzicare le corde, creare una musica comprensibile solo alle loro orecchie, lo aiutava a scivolare più velocemente nel suo palazzo mentale.
C'era qualcosa di strano in quella melodia. Vedeva del rosso, tanto rosso. E c'era... C'era una persona. I contorni erano sfumati e non riusciva a riconoscerla. Non era niente più che una silhouette scura su uno sfondo rosso. Si avvicinava a lui, elegante, sinuosa, seducente, gli diceva qualcosa ma lui non riusciva a capire cosa fosse. Gli urlava parole incomprensibili, un nome, una richiesta disperata ma lui non capiva. Si portò le mani alla testa, stringendo così forte che sembrava volesse spremersi il cervello come un'arancia. La musica cessò d'improvviso e le immagini si sciolsero attorno a lui come se fossero liquide, scomparvero come se non fossero mai esistite. Spalancò gli occhi e guardò la nipote.
"Continua!" la esortò. Doveva tornare lì, capire chi fosse quella persona e cosa voleva dirgli. Sentiva che era importante, che sarebbe stata la chiave per risolvere il caso, ma man mano che il tempo passava, le immagini sparivano dalla sua memoria.
"È finita, zio." replicò la ragazza con voce calma. "Ce ne saranno altri. È terminata a metà di una battuta." concluse, rimettendo a posto i fogli.
La consapevolezza di quello che era successo e che sarebbe accaduto si abbatté su di loro. Charlotte si sentiva male all'idea che un altro innocente avrebbe perso la vita per il gioco perverso di un pazzo. John pensò a quanta sofferenza avrebbe ancora sparso e quanto difficile sarebbe stato seguire l'amico in quelle indagini. Sherlock, d'altro canto, era furioso. Tutto quel lavoro non era servito a niente e avrebbe dovuto aspettare che un'altra persona venisse uccisa. Era un fallimento personale e in più odiava dover aspettare. Odiava giocare al gatto col topo, per lo meno quando il ruolo della preda l'aveva lui. Si alzò di scatto e corse fuori, sotto la pioggia, ma non gli importava. Aveva bisogno di stare lontano da tutti, di ripensare alla melodia e cercare di recuperare tutto ciò che sembrava aver dimenticato in quei pochi secondi. Doveva capire e non ci sarebbe riuscito chiuso in quella casa con quei due e i loro pensieri così rumorosi. Quasi li sentiva come se leggesse realmente nelle loro menti, tutti quei problemi e paletti che si mettevano e quel continuo rimuginare su quello che era successo quella sera. Sarebbe stato tutto più semplice se le persone avessero imparato a non nascondere i propri istinti e a parlare tra di loro.
John e Charlotte rimasero qualche secondo con lo sguardo fisso sulla porta da cui era uscito Sherlock. Entrambi non avevano avuto il coraggio di fiatare e cercare di trattenerlo. Sapevano bene che avrebbero solo peggiorato la situazione e nessuno dei due si sentiva nello stato d'animo giusto per diventare il suo sacco da boxe emotivo.
Dopo qualche momento, John si alzò e si passò una mano sul collo.
"Io, ehm... allora andrei giù..."
Non l'aveva guardata negli occhi, faceva di tutto per evitare il suo sguardo e fissare qualsiasi altra cosa presente in quella stanza. Sapeva che se solo avesse incontrato il suo sguardo per sbaglio, non avrebbe resistito. Sarebbe corso da lei, l'avrebbe stretta tra le braccia e non l'avrebbe più lasciata andare. Avrebbe terminato quello che aveva iniziato quella sera, consapevole che era quello che segretamente desiderava anche lei, e l'avrebbe chiamata sua più e più volte, finché gli fosse stato possibile di respirare. Charlotte deglutì a vuoto e guardò un altro piccolo plico di fogli.
"Aspetta." prese il nuovo spartito e lo sostituì a quello che aveva sul leggio. "Stavo lavorando ad una cosa, prima di questo, e... Vuoi sentire?" tentò, cercando di attirare la sua attenzione.
"Charlotte, non credo sia il caso..." disse piano, fermandosi vicino alla porta.
"È solo una canzone, John. Ti prometto che non ti salto addosso." ridacchiò, cercando di alleggerire l'atmosfera.
John la guardò poco convinto, ma poi sospirò e annuì. Si appoggiò al muro con la schiena e incrociò le braccia sul petto, invitandola con un cenno della testa a iniziare. Charlotte allora si mise più comoda e cominciò nuovamente a suonare. Questa volta era una canzone pop, una ballad triste e avvolgente. A John non fu difficile riconoscerla dalle prime note, sebbene lei avesse aggiunto una intro musicale inesistente nell'originale. The long and winding road dei Beatles. Quando si unì anche la voce della ragazza, il medico non riuscì a reprimere un brivido lungo la schiena. Era brava, molto brava e aveva una bella voce. Non gli era difficile immaginarla sul palcoscenico di un teatro di fronte ad un pubblico di donne impellicciate e uomini in giacca e cravatta.
Quando la canzone finì e Charlotte lo guardò con occhi grandi, in attesa del suo giudizio, lui si avvicinò. Si sedette sullo sgabello, di fianco a lei, e schiacciò malamente qualche tasto.
"Io non saprei neanche da che parte cominciare." commentò, guardando il nero contrastare col bianco in maniera così armoniosa. "Come facevi a saperlo?"
"Beh, quando eravamo al pub ti ho visto muovere la testa e tamburellare sul tavolo quando hanno passato Get Back, quindi ho immaginato ti piacessero i Beatles..."
"No, intendo... come facevi a sapere che questa è la mia canzone preferita." si girò verso di lei e la guardò negli occhi. Erano così vicini, troppo vicini, e per John fu difficile non stringerla tra le braccia. Charlotte sorrise.
"Non lo sapevo." rispose e gli prese una mano. Voleva evitare che se ne andasse, ma sapeva che in fondo non lo avrebbe fatto. "Non glielo hai detto, vero?"
"Oh, Dio, no! E non ho intenzione di farlo." replicò, sentendo un peso opprimergli il petto al solo pensiero di quello che sarebbe potuto succedere se avessero aperto bocca. "Né a lui né... a Mary."
Charlotte annuì e si sistemò i capelli su una spalla.
"Non voglio neanche io che David lo sappia." guardò a terra, tormentandosi le dita. Chiuse gli occhi e prese un grosso respiro, raccogliendo tutto il coraggio che riusciva a trovare. "Deve rimanere il nostro segreto."
"Mi dispiace, Char. È stata solo colpa mia, non avrei dovuto spingerti a fare niente."
"Non mi hai spinta a fare niente. Io volevo baciarti, volevo arrivare fino in fondo con te. È questo che mi fa paura, John." fissò lo sguardo nel suo, cercando una conferma che anche per lui era così. "Io... Noi non possiamo controllare come ci sentiamo, quello che proviamo. Ma non voglio perdere la nostra amicizia. Mi hai fatta sentire meno sola in queste settimane, anche solo con i messaggi che ci scambiavamo."
John rimase in silenzio mentre lei parlava e solo alla fine si rese conto di aver trattenuto il fiato. Si passò una mano tra i capelli - aveva desistito dal pettinarli all'indietro, era stato un cambiamento che gli era piaciuto ma non credeva fosse adatto a lui. Finì col sorriderle, incoraggiato da quegli occhi imploranti e incapace di continuare a reggere quel muro di vetro che avevano eretto. La abbracciò e poggiò il mento sulla sua testa.
"Voi Holmes... È impossibile tenervi a distanza." ridacchiò, accarezzandole la schiena. "Ma hai ragione. Preferisco combattere l'istinto piuttosto che perderti." mormorò, sincero come non lo era mai stato in vita sua.
Il cuore di John fece una piccola capriola quando sentì le braccia di Charlotte passargli attorno e stringerlo a sua volta. Erano come una calamita e un pezzo di ferro che si attiravano, c'era una forza tra loro che non permetteva ad entrambi di allontanarsi. Per quanto i loro pensieri vagassero, per quanto si costringessero a tornare sulla retta via, cadevano di nuovo nel flusso che li attirava verso l'altro. Non sarebbero stati in grado di spiegare a parole il perché, cosa fosse che li univa in quel modo.
"Alla fine si riduce sempre tutto a questo... Holmes e Watson. In qualsiasi ambito della vita." mormorò la ragazza, sovrappensiero. John sbuffò una piccola risata.
"Già, ma grazie al cielo eri tu l'Holmes dell'altra sera." scherzò e anche Charlotte rise di gusto. "Non avevo mai fatto vedere o toccare la cicatrice sulla spalla. Cioè, insomma, a parte a Mary... Ma anche lì ci è voluto un bel po'."
"Ti prego, non dirmi che andavi a letto con lei con la maglietta indosso!" esclamò, spostandosi appena per guardarlo. Si rimise poi comoda contro la sua spalla. "Io la trovo bella. E poi so che tu hai visto le mie. Mi sembrava giusto ricambiare il favore." agitò appena i polsi facendo tintinnare i bracciali, così da attirare la sua attenzione.
John annuì appena. Le aveva viste, sì. A Natale, quando aveva quello stupendo vestito rosso che le lasciava scoperte le spalle e le braccia. Nonostante i braccialetti e i suoi tentativi di non farsi vedere, lui le aveva notate. Una ragnatela di cicatrici che le attraversavano i polsi. Le più piccole in orizzontale, così numerose da rendere la sua pelle ruvida come una grattuggia. In quantità minore, ma più lunghe e più grosse, ce n'erano due o tre per polso in verticale. Seguivano perfettamente il corso delle vene, che ora pulsavano intatte e verdi sotto quei cordoni rosa.
Vi passò sopra le dita senza pensarci, accarezzandole piano e con delicatezza. Avrebbe voluto farle sparire con il suo tocco, cancellare quei segni indelebili di un passato da dimenticare.
"Perché lo hai fatto?" sussurrò. Voleva conoscere quello che le era successo, comprendere cosa l'aveva portata a diventare quella Charlotte che ora stringeva tra le braccia e chiedeva aiuto e amore a gran voce. Lei abbozzò un sorriso triste.
"Era un periodo molto brutto..." disse solo. Non aggiunse altro, rimase in silenzio.
Non amava ricordare quel periodo della sua vita. Era molto doloroso e cercava in ogni modo di allontanarlo dalla sua mente. Avevano tutti iniziato a trattarla in modo diverso, si preoccupavano di più, si muovevano quasi in punta di piedi attorno a lei. Puntò lo sguardo sulle dita di John, ancora ferme sulle sue cicatrici. Le riaffiorarono alla mente ricordi confusi e frammentati di quell'episodio. Sentiva il sapore del sangue in bocca e la freddezza del metallo tra le dita. L'acqua scorreva nel lavandino mentre la porta veniva buttata giù a suon di spallate. Una voce maschile che urlava di chiamare l'ambulanza e una stretta calda, innumerevoli carezze e due braccia che la cullavano. Ricordava il profumo di Sherlock - non farmi questo, Lotte, non odiarmi fino a questo punto - e gli occhi preoccupati di Mycroft - sono qui, amore mio, sarò sempre qui con te - e il bianco accecante della stanza d'ospedale. E poi sentiva delle urla nella sua testa, urla che riecheggiavano nelle sue orecchie e nel suo cervello e una rabbia cieca e immotivata nei confronti della sua famiglia, del personale dell'ospedale, del mondo intero e di sé stessa.
"Ti preparo un the, ti va? Hai bisogno di una pausa, non ti sei fermata un secondo oggi." le propose, rivolgendole un sorriso.
Aveva percepito il cambio del suo umore, Charlotte ne era certa. Quello sguardo non mentiva e quel tono era troppo dolce per non essere stato formulato apposta. Forse se la sarebbe presa se fosse stato un altro, ma lei sapeva che John aveva solo le migliori intenzioni. Lui voleva che lei stesse bene, che sorridesse e lei non riusciva ad arrabbiarsi con lui. Non quando la guardava in quel modo, quando era stretta a lui e riusciva a sentire il suo profumo. Odorava di dopobarba speziato e dello shampoo alla camomilla che gli aveva fatto provare - fidati di me, John, per i biondi come noi è la salvezza! Fallo provare anche a Mary.
Charlotte annuì e si spostò leggermente, così da permettere a John di alzarsi e lasciare spazio di manovra anche a lei. Un the sarebbe andato bene, era un territorio neutrale. Era un'offerta di pace da parte di John, come lo era stata la canzone per suo conto. Un modo di chiedersi scusa per quello che era successo e di dimostrarsi che le cose sarebbero andate bene.
O almeno così sperava.
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