- 15 - Karate girl
«Già ti vedo che vieni a scuola con un occhio gonfio e il naso rotto» scherzò Michela. In attesa che entrasse l'insegnante della seconda ora, era venuta a parlarle.
«Non mi mettere paura, sono già nervosa per conto mio...»
«Ecco la Danieli... ti dispiace scendere dal mio banco, per cortesia?» disse Gianluca, facendo segno a Michela dell'arrivo della professoressa.
«Sei pronta?» chiese Flavia nel tentativo di rassicurare l'amica, che era saltata giù dal banco tutta tesa.
«Speriamo...» sussurrò Michela mentre Agata Danieli salutava la classe.
«Varano e Felicetta, forza, facciamo quest'ultima interrogazione» esordì pimpante la professoressa di francese che, pregustando il pensionamento, sembrava rallegrarsi della bella giornata nel suo vestitino estivo. «Chi viene prima?»
Flavia e Michela si guardarono con le sopracciglia sollevate.
«Varano, vieni tu che sei già in piedi. Andiamo, un ultimo sforzo e poi ci godiamo le vacanze.»
«Vai, Michi...» la incoraggiò Flavia.
Mentre Michela si sottoponeva all'interrogazione, Flavia ebbe l'impressione di sentirsi addosso i colpi di karate che tanto temeva di ricevere in palestra. L'incontro che vedeva svolgersi alla cattedra era cruento.
Michela era troppo agitata. Nonostante gli sforzi della professoressa per metterla a suo agio, fu evidente che non ce l'avesse fatta a prepararsi a sufficienza. Aveva la vista così annebbiata da non cogliere nemmeno i suggerimenti che di tanto in tanto Flavia riusciva a intrufolare oltre lo sguardo dell'insegnante.
«Credimi, per me non è un piacere torturarti in questo modo» concluse rassegnata la Danieli, «ma per quanto voglia aiutarti, non posso farmelo bastare per darti la sufficienza. Eppure lo sapevi che oggi dovevi essere preparata... che ti è successo?»
«Mi spiace, professoressa, io mi sono impegnata, davvero...» si giustificò Michela. La sua voce tremolante era soffocata dal caldo della mattinata: dalla finestra spalancata non entrava abbastanza aria da rinfrescarle la pelle inumidita dalla tensione.
«Varano, mancano meno di due settimane all'ultimo giorno di scuola... sono costretta a farti un compito in classe di riparazione, sperando che una settimana ti basti per studiare meglio.»
La Danieli strinse le labbra per annotare un punto interrogativo sul registro e poi sollevò gli occhi verso Flavia. «Prego, Felicetta» la invitò alla lavagna. «Tocca a te, tirami su l'animo tu.»
«Non sono preparata, professoressa.»
Il suono lontano del traffico si fece insopportabile nel silenzio improvviso che scese sull'aula e, nell'atmosfera di gelo generata dalle parole di Flavia, il caldo divenne infernale.
«Perdonami, non ho capito...» accusò la professoressa con lo sguardo impietrito.
«Le giuro che ho avuto degli imprevisti molto seri ultimamente, e se vuole gliene posso parlare in privato. Ho solo bisogno di qualche giorno.»
«Cara Felicetta» cercò di contenersi l'insegnante, «sono sicura che debbano essere stati problemi molto seri, perché finora il tuo rendimento è stato impeccabile. Tuttavia sarebbe scorretto darti un trattamento diverso da quello della tua compagna, per cui, senza un'interrogazione, dovrai fare il compito con lei la settimana prossima. Sei sicura di non voler venire?»
«Sì, sicura.»
«Bene...» commentò delusa la Danieli. «Cioè, molto male. Purtroppo per te è un impreparato che rovina senz'altro la tua bella media.»
Mentre un nuovo segno negativo era aggiunto al registro, Michela lanciò un'occhiata di sgomento a Flavia e andò a sedersi al proprio banco.
Arrivata la ricreazione, Michela andò dritta dall'amica. «Ma che storia è?» le chiese. «Non so niente di nessun imprevisto... e comunque non mi risulta fossi impreparata.»
«Infatti. Tranquilla, è tutto a posto.»
«E allora perché non ti sei fatta mettere il tuo solito nove all'orale?»
«Non potevo mica farti fare quel compito da sola, scemotta» le sorrise Flavia.
Michela scosse la testa, disarmata. «Ti rendi conto che stai rischiando la bocciatura... di nuovo?»
«Per un impreparato? Che esagerazione... per me non è un problema fare quel compito, lo sai!» la rassicurò Flavia. Poi si avvicinò per abbracciarla. «Dai, che andrà tutto bene. A tutte e due.»
La sezione che nel centro sportivo chiamavano "dojo" aveva uno spogliatoio tutto suo. Flavia non era sicura di avere indossato come si deve il suo kimono da allenamento, o karategi, e la cintura in cotone bianco, piuttosto rigida, era un po'scomoda.
Attraversò a piedi nudi il breve corridoio che conduceva alla sala principale e fece timorosamente capolino oltre la soglia priva di porta.
All'interno, si estendeva una striscia di parquet su cui una ventina di sedie aveva gli schienali appoggiati al muro alla sua destra. Gran parte delle sedie era carica, in apparente disordine, di orologi, portafogli, altri oggetti personali e una serie di guanti e altre protezioni sportive che non sapeva ancora identificare.
Il resto della sala era ricoperta da tatami sportivi, posati su uno zoccolo rialzato alto un po' meno di un gradino. Sul parquet, alla base del gradino, erano state lasciate tante paia di ciabatte quante erano le persone sul tatami.
Con i talloni a un passo dal muro, gli allievi formavano una riga così ordinata e compatta che Flavia non riusciva a vedere tutti i visi.
Quando in reception aveva chiesto informazioni su cosa fare, la signorina che si era occupata di iscriverla le aveva detto che l'istruttore si chiamava Emanuele Fabriani e che ci avrebbe pensato lui a spiegarle tutto. E adesso se lo trovava lì difronte, vestito di karategi, una cintura nera tutta sbrindellata e un fischietto appeso al collo. In piedi davanti ai suoi allievi tutti dritti in una sorta di attenti, la salutò con un'espressione cordiale e la invitò a entrare. «Flavia, dico bene?»
«Sì... scusate il ritardo.»
«Non ti preoccupare, sei puntualissima» la accolse il maestro, «siamo noi in anticipo, ma ancora non abbiamo fatto il saluto.»
«Il saluto?»
«Lo vedrai subito...» tagliò corto l'istruttore. «All'inizio, per imparare in fretta, la cosa migliore è copiare dagli altri. Prendi pure posto in fondo alla fila.»
Flavia salì sul tatami e subito sentì ridacchiare gli altri. Guardò l'istruttore che le sorrise con gentilezza.
«Non sei mancina, giusto?» le chiese divertito.
«A dire il vero, sì.»
«Ah, cominciamo bene...» disse, e subito la riga sull'attenti si lasciò scappare una risata.
Flavia lo guardò di nuovo smarrita e Fabriani, bonariamente, le indicò alla propria destra l'estremità della riga.
«Prego» la esortò, «capirai tutto dopo, giuro sul mio onore.»
Senza guardarli in viso, Flavia, passò rapidamente davanti agli altri allievi sentendoli ridacchiare ancora: erano ordinati secondo il colore delle cinture. Nere, marrone, una blu, parecchie verdi, qualcuna arancione, gialle e un paio di bianche, come la sua. Imitando la posizione a talloni uniti e punte divaricate degli altri, si sistemò a sinistra dell'ultimo della fila, un ragazzino dalla cintura bianca.
«Si passa dietro la fila...» le sussurrò.
Flavia non fece in tempo a ringraziarlo che subito udì il capofila all'altra estremità fare un pesante passo in avanti e urlare: «Sensei ni... Rei!»
Al che tutti quanti, Fabriani compreso, fecero un rapido inchino.
«Oss!» sentì dire dagli altri mentre cercava di imitarli.
Immediatamente l'istruttore fece un segno con il braccio e la fila prese a correre in tondo lungo il perimetro del tatami. Flavia si mise a inseguire la fila indiana con gli occhi incollati sulla schiena del ragazzino che le aveva suggerito che si passava dietro.
Dopo dieci minuti di corsa con esercizi di riscaldamento, Fabriani fermò tutti con un colpo del fischietto che aveva al collo.
«Mettiamo le protezioni, sciogliamo le gambe a coppie» dispose ad alta voce. «Cri, pensaci tu a Flavia, gyaku-tsuki allo specchio, come al solito.»
«Sì, Maestro!» confermò una Cristina Leanza che di certo non era ancora divenuta capitano. Il nero e l'usura della sua cintura però indicarono a Flavia che almeno lì dentro aveva già molta esperienza.
Flavia capì allora chi era la figlia del cliente di Fabrizio, e capì come Claudia e Cristina si fossero conosciute. Non era una coincidenza che ora anche a lei toccasse incontrarla lì.
Era passato quasi un intero anno scolastico dall'ultima volta che l'aveva vista a Valdaora, ed era contenta di ritrovare una ragazza piacevole come lei. All'eccitazione della sua nuova esperienza in palestra, si sovrappose l'emozione di rivedere una persona che aveva considerato speciale.
«Ciao, io mi chiamo Cristina» la salutò sfoggiando lo stesso sorriso caloroso e nello stesso tono amabile che Flavia ricordava dalla prima volta che l'aveva vista. «Andiamo di là.»
Si presero uno spazio davanti al muro coperto di specchi in fondo alla sala, mentre gli altri affollavano il parquet e indossavano l'attrezzatura che avevano lasciato sulle sedie, per poi ritornare sul tatami a tirarsi calci a vicenda a pochi centimetri dal viso.
Flavia notò con una certa ansia che la statura e la muscolatura di Cristina apparivano imponenti paragonate alle sue.
«Non dobbiamo combattere, vero?» paventò Flavia.
«No...» rise Cristina. «A quello ci arriveremo. Adesso fai attenzione e non distrarti con gli altri. Vediamo subito una tecnica che forse è la più potente nel karate, e ha un uso tanto in difesa quanto in attacco.»
Poggiò i piedi parallelamente alla larghezza delle spalle e chiese a Flavia di imitarla.
«Da questa posizione avanziamo portando avanti il piede destro all'esterno. La gamba di dietro sostiene tutto il peso del busto, ma si regge sull punta del piede per dare potenza e gittata al colpo, perciò attenta a tenere l'equilibrio. Adesso estendi il pugno sinistro dritto davanti a te... non sollevarlo e non inclinare il busto in avanti, atrimenti finisci a terra; ruotalo con tutta l'anca per portare la spalla in avanti. La mano destra qui, a proteggere il viso.»
Cristina esaminò la propria allieva passandole dietro.
«Sì, vai benino... contrai qui» istruì dandole una pacca sulla natica sinistra. «Ora riproviamo il movimento tutto insieme. Piano piano, come i bradipi.»
Meno lentamente di quanto sperava la sua insegnante, Flavia tentò di eseguire il colpo, barcollò sul piede d'appoggio, perse l'equilibrio e cadde all'indietro sulla destra.
«Con calma, ti avevo detto piano» insistette Cristina mentre aiutava Flavia a tirarsi su. «Abbiamo tutta la lezione per farlo... pronta?»
Cristina guidò la nuova arrivata pazientemente, facendole ripetere i movimenti del gyaku-tsuki e correggendone le posizioni.
Flavia imparò che gyaku voleva dire incrociato, che tsuki voleva dire pugno, e che, mancini o meno, sul tatami si saliva con il piede sinistro facendo un saluto al dojo. Cristina le chiarì inoltre l'importanza dei rituali nell'allenamento, indispensabili per imparare tutto come fosse una seconda natura.
Col procedere della lezione Flavia iniziò a sudare. Eppure il suo non era un allenamento particolarmente intenso. Quando guardava gli altri le sembrava di vedere gesti e movimenti irreali.
L'aria si era fatta umida e, a eccezione di lei e di Cristina, tutti quanti compivano sforzi tali da cominciare a scivolare sul sudore. Flavia li vide saltare più in alto di quanto avesse creduto possibile, li vide fare scatti difficili da seguire con gli occhi, tirare colpi con un'agilità tale da fare invidia a parecchie specie feline.
«Che c'è, sei stanca?» le domandò Cristina.
«No. È che...» Flavia puntò il mento verso i riflessi nello specchio. «Dici che anche io posso riuscire a fare come loro?»
«Sicuro! Non è niente di speciale, ci alleniamo per quello, no?»
Il maestro Fabriani si separò dal suo gruppo di allievi per sbirciare come andava alle due allo specchio.
«È la mente che domina» spiegò a Flavia. «È la mente che determina tutto. Prima di allenare il corpo, qui alleniamo la mente a non cadere nell'illusione dei limiti.»
Al sentire quelle parole, Flavia pensò che il karate era quello che faceva al caso suo.
Erano quasi le dieci quando la lezione finì. Cristina e Flavia si trattennero a parlare in spogliatoio e, senza che se ne accorgessero, le altre ragazze erano già uscite dalla doccia.
«Credo che tuo padre e il mio stiano diventando amici» commentò Cristina mentre raggiungeva Flavia alle docce. «Finalmente!» esclamò infilandosi sotto l'acqua, «che afa stasera, eh?»
Flavia la guardò e rimase a fissare il suo fisico statuario con il cuore che iniziava a scalpitare.
«Verissimo... è terribile» articolò prima di deglutire.
«Che c'è? Perché mi guardi così?» sorrise Cristina che, lusingata, si stringeva il busto con le braccia.
«Oh, scusami» si giustificò Flavia, ammirata. «È che sei davvero... hai un corpo stupendo!»
«Beh, grazie, anche tu però non hai niente da invidiare a nessuna» ricambiò Cristina, che in quel momento aveva notato come Flavia si stesse schermando con le mani. «Perché ti copri?»
Senza essersene accorta, Flavia stava provando imbarazzo nel mostrarsi nuda con un corpo che non era nemmeno il proprio. Non ebbe dubbi che Cristina avesse notato qualcosa d'insolito, tuttavia constatò che si era limitata a sorriderle con la stessa amabilità di sempre.
Si fece presto scivolare via il disagio di dosso. Cristina ruppe il ghiaccio tornando a parlare dei loro genitori. Simpatizzò con Flavia che, come lei, stava vivendo nell'ombra del padre. Stava iniziando l'accademia militare, pronta a seguire i passi del generale Leanza, mentre Flavia sapeva che Claudia sarebbe finita ad architettura, probabilmente per compiacere l'architetto Felicetta. Entrambe stavano lottando per farsi valere in una società che non dava loro credito, entrambe avevano una vita che sentivano calzare troppo stretta.
Certo, Cristina non avrebbe mai immaginato quanto quella vita, e quel corpo, stessero stretti a Flavia. Tuttavia, la radiosa bellezza di Cristina era riuscita a darle, per la prima volta da quando ci si era ritrovata ingabbiata, un sentimento di sollievo, una piccola luce di accettazione e pace all'interno di quello che aveva considerato come un incubo senza alcuna luce né alcuna bellezza.
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