Holiday Special
Avvertenze: questo capitolo è ambientato tra la parte I e la parte II di questa storia. Se non hai concluso la parte I, non leggere o fallo a tuo rischio!
Kutoa ni moyo usambe ni utajiri.
Donare è materia del cuore, non di ricchezza.
Nuru si rigirò nel letto, gli occhi spalancati, non era ancora riuscito a chiudere occhio. In pochi giorni ci sarebbe stato il Natale, e lui non aveva nulla per fare un regalo a Raffaele.
Non gli era rimasto niente, neanche una manciata di scellini.
Manco a dirlo, si vergognava come un ladro e cercava con disperazione di pensare a qualcosa di adeguato e, soprattutto, gratuito che potesse piacergli.
Raffaele gli aveva aperto gli occhi su chi era e cosa voleva, gli aveva offerto un rifugio e dato piacere in modi che sino a qualche mese prima non avrebbe neanche potuto immaginare. Lui non aveva niente da offrirgli se non la sua presenza e la sua devozione, ma quanto poteva mai contare questo?
La sensazione di non essere abbastanza, di non dare neanche la metà di quello che prendeva, di non riuscire a farlo sentire speciale come Raffaele faceva con lui, lo tormentava.
Arrivò persino a pensare di rubare, anche se non l'aveva mai fatto.
Pensò di offrirgli qualcosa che non fosse materiale, ma cosa? Era bravo nello studio, avrebbe potuto aiutarlo per i compiti, ma quello lo stava già facendo senza bisogno di una ricorrenza. Pensò addirittura che avrebbe potuto offrirgli qualcosa di sessuale, ma lui già lo accontentava in tutto, a letto pendeva dalle sue labbra, non credeva di potergli dare qualcosa di più.
E se anche fosse riuscito a raggranellare un po' di soldi, cosa che non era in programma, cosa avrebbe mai potuto comprargli? Raffaele non era come Nuru, lui aveva tutto, poteva avere tutto. Qualunque cosa desiderasse avrebbe potuto ottenerla con uno schiocco di dita. Come si faceva a fare un regalo a una persona così?
Restò con gli occhi spalancati, nel letto, per tutta la notte. Che il momento fosse infine giunto? Che fosse arrivata l'ora per Raffaele di accorgersi che lui non avrebbe mai potuto dargli nulla, portare niente alla loro relazione, aiutarlo, contribuire in qualsiasi modo?
Si immaginò scenari apocalittici in cui veniva lasciato, in cui Raffaele si rendeva davvero conto che lui non valeva niente, in cui lo abbandonava perché era solo un parassita, perché neanche per Natale era riuscito a combinare qualcosa per lui.
Dicembre era un mese di vacanza a Mombasa, dunque non si sarebbe dovuto svegliare presto per andare a scuola. Questo era un pensiero che lo consolava, da una parte. Passare la notte insonne e poi doversi trascinare in classe sarebbe stata una tragedia. Eppure non riusciva neanche a essere del tutto felice, sentire Raffaele un'ora al giorno senza poterlo vedere gli pesava.
Quando il giorno dopo aprì gli occhi, il sole era già alto nel cielo. Poteva sentire sua madre e le sue sorelle che sferragliavano in cucina, e il parlottare di Allan e Aasim, a bassa voce per non svegliarlo. Strizzò gli occhi, allungandosi nel letto. Doveva essere più tardi del solito, se avevano già iniziato a cucinare.
Faceva caldo, troppo caldo, e lui si ritrovò disteso sulle lenzuola umide.
“Mh,” mormorò, stiracchiandosi ancora intontito dal sonno che l'aveva preso solo all'albeggiare.
“Nuru, sei sveglio?”
“Sì.”
“Vieni a giocare anche tu?”
“Datemi un attimo, ora arrivo.”
Sospirò. Avrebbe dovuto tirare avanti solo altri tre giorni, poi ci sarebbe stato Natale, e la notte del ventisei sarebbe andato da Raffaele a passare del tempo insieme, finalmente.
Anche se lui si sarebbe dovuto presentare a mani vuote.
Si fece forza e si alzò, emergendo dalla zanzariera come un fantasma. “A che giocate?”
Erano seduti a gambe incrociate sul pavimento, Aasim piegato in avanti e Allan con le mani per terra, aperte a imbuto.
“Stiamo facendo un torneo, ora tiro un rigore,” disse Aasim concentrato, tirando una schicchera a una pallina di carta che schizzò in direzione delle mani di Allan, finendo proprio al centro.
Il bambino esultò.
“Bravo!” esclamò Allan, raccogliendo la pallina e mettendola al centro del campo improvvisato.
“Chi sta vincendo?”
“Io!” esclamò Aasim, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Nuru ebbe l'impressione che Allan lo stesse lasciando vincere.
“Facciamo che chi vince poi fa una partita contro di te,” spiegò Allan, paziente.
Nuru però aveva smesso di ascoltarlo. La pallina, il tiro, la parola “rigore”, tutto gli aveva fatto venire in mente un'idea. Un'idea che non era un'idea qualsiasi, no, era l'idea stessa di idea. La più grande idea del secolo.
“Nuru? Tutto bene?”
“Una partita a calcio,” sussurrò.
“Non lo chiamerei proprio ‘calcio’,” commentò Aasim. “Si fa con le mani.”
“Organizzerò una partita a calcio!”
“Ma di che parli?” chiese Allan, con la fronte aggrottata.
“Mi servono dieci persone. Sette, se togliamo me, Raffaele e… te.”
“Io? Che c'entro io?”
“Zitto, Al, sto cercando di pensare. Hassan non giocherà mai, lui segue il calcio ma non ci gioca… forse Rahim viene però. Lui gioca a FIFA, quanto potrà essere diverso? Io posso fare il portiere. Ci serve qualcuno che ha la palla… chissà se Juma ce l'ha ancora… e il campo accanto a Fort Jesus, quello è gratis! Speriamo che sia libero, ma… insomma, chi va a giocare a calcio il giorno dopo Natale?”
“Noi?” chiese Allan, che si stava già arrendendo all'idea.
“Cazzo, sì.”
Aasim spalancò la bocca per la parolaccia, forse l'avrebbe detto a sua madre, non gli importava. Aveva trovato il regalo perfetto, nient'altro era importante.
Avrebbe organizzato una partita di calcio a cinque il giorno di Santo Stefano, Raffaele l'avrebbe adorato. Diceva sempre che gli mancava giocare coi suoi amici, e con un pallone in prestito e il campetto accanto al forte non avrebbe speso un solo scellino, avrebbe solo dovuto raccattare qualche suo vecchio amico delle medie e qualche compagno di classe delle superiori che lo sopportava.
Gli avrebbe fatto una sorpresa, non gli avrebbe detto nulla e l'avrebbe portato a giocare una partita vera... in un campo polveroso e sgangherato, con la porta senza rete, senza linee a delimitare l'area di gioco, e con persone che non conosceva. Però sarebbe stata una vera partita di calcio.
“Il telefono. Dov'è il mio telefono?” chiese, tornando verso il suo letto e frugando nel suo zaino.
“Tu non usi mai il telefono a quest'ora,” commentò Allan.
“Ma che ha Nuru?” chiese la vocina di Aasim.
“Non ne ho idea.”
“Zitti, zitti. Devo pensare, ho detto.”
Avrebbe fatto un gruppo WhatsApp, con quelli che avevano il telefono. Quelli che non lo avevano li avrebbe dovuti cercare da sé. Il piano si delineò nella sua mente, in ogni piccola sfumatura. Non era mai stato bravo a calcio, lui sarebbe andato in porta, poi c'era il problema delle maglie. Magari gli appartenenti a una squadra si sarebbero potuti mettere una maglia bianca e quelli dell'altra una maglia nera. Chi mai non aveva una maglia bianca o nera in casa? Così sarebbe stato facile distinguerli.
“Quindi non giochi più?”
“Poi arrivo, Aasim. Prima devo fare una cosa. Giuro che poi vengo.”
Quella mattina passò nella frenesia dei preparativi. Riuscì, tra compagni di classe e amici delle medie, a raccattare sette persone per giocare una partita, più Allan, Raffaele e lui in persona. Juma, il suo compagno della scuola media super in fissa col Manchester United, avrebbe portato il pallone. Tutto era perfetto.
Chiese a Raffaele se gli andava di fare un giro al forte prima di andare a casa sua, lui rispose di sì senza fare resistenza o sospettare nulla. Il giorno stesso gli avrebbe chiesto di vestirsi sportivo e mettersi una maglietta bianca, all'ultimo in modo che non avesse il tempo di fare due più due.
Arrivò il Natale, e con esso la messa. Nuru si faceva sempre influenzare dalle parole di padre Johnson, dall'immagine del crocifisso che lo giudicava, ma quella volta fu diverso.
Quella volta le parole del sermone furono di accettazione e di perdono, e Nuru lo visse come un segno.
Ci sarebbe stata speranza per lui, forse, e come avrebbe potuto essere altrimenti? Non aveva mai creduto possibile l'idea di essere tanto felice della prospettiva di far felice qualcun altro, eppure lui lo era. In fibrillazione, elettrizzato, solo al pensiero di fare qualcosa che odiava ma che avrebbe fatto contenta un'altra persona.
Come poteva un sentimento del genere essere sbagliato? Come poteva quella purissima gioia del tutto altruista portare la sua anima sulla via del peccato?
Quando prese la comunione, quel giorno, lo fece senza recitare l'Atto di Dolore, la preghiera per espiare i suoi peccati. Essere felice del fare un regalo non era un peccato, non poteva esserlo. Non avrebbe avuto alcun senso.
La messa finì, all'uscita la parrocchia aveva organizzato un rinfresco. Lui si abbuffò di barfi – non erano buoni quanto quelli della mamma di Hassan, ma erano comunque ottimi – tanto che dopo quella mangiata di dolcetti sentì male allo stomaco.
Dopo la celebrazione, i bambini della parrocchia avevano organizzato una piccola presentazione che metteva in scena la natività, anche Aasim partecipava come uno dei pastori, così tutta la famiglia restò a guardare.
La mattina seguente, Babbo Natale a bordo del suo cammello aveva portato ad Aasim e Kharunnissa dei regali, sua madre risparmiava sempre per fare qualche pensierino ai bambini il venticinque di dicembre. I suoi fratellini si ritrovarono così con due libri da colorare, attività che svolgevano sempre con grande entusiasmo.
A lui sarebbe piaciuto regalare qualcosa a sua madre, per una volta. Lei si faceva sempre in quattro per la famiglia, si assicurava che i bambini fossero felici e spensierati e lavorava tanto per dare agli altri un piatto pieno almeno due volte al giorno.
Lei gli diceva sempre “Studia e sii ubbidiente e io sarò felice,” così lui cercava di farlo, perché se lo meritava.
La mattina del ventisei dicembre si svegliò agitato. Se qualcuno non si fosse presentato all'ultimo? Se Raffaele fosse arrivato con una maglia diversa da quella pattuita? Se Juma avesse perso il pallone?
Allan, che avrebbe dovuto giocare con lui, non capiva la sua ansia.
“Se non potremo giocare ci faremo un giro al lungomare,” gli disse, andando verso il punto di ritrovo di quelli che dal suo quartiere sarebbero andati a piedi a Fort Jesus.
“Dobbiamo giocare a calcio e giocheremo a calcio,” borbottò Nuru. “Se Juma non avrà il pallone appallottoleremo i miei vestiti.”
Aveva con sé lo zainetto di scuola, in cui aveva infilato il cellulare e qualche cambio. Sarebbe stato due giorni a casa di Raffaele per le vacanze, quindi era venuto equipaggiato.
“Nuru!” una voce li fece sobbalzare. Si voltarono e videro Juma procedere verso di loro con sua sorella Imani, che avrebbe assistito alla partita. Anche Qaali e Hassan erano stati invitati a guardare.
La prima cosa che Nuru provò fu sollievo, quando vide che Juma stringeva il pallone sfilacciato tra le mani.
“Juma, Imani! Heri ya Krismasi!”
“Wewe pia,” rispose la ragazza, con un sorriso entusiasta. “Pronti a stracciare gli avversari?”
“Non si dice mai,” la sgridò Juma. “Porta male festeggiare prima della partita.”
Lei lo ignorò. “Allan, che mi racconti?”
“Il solito. Sawa sawa.”
“Come sempre,” rispose lei, dandogli un colpetto sulla spalla.
Attesero gli altri quattro e poi si incamminarono verso il forte, un chiacchiericcio incessante di “tanto che non ci si vede”, “che bella idea che hai avuto, Nuru” e “quindi che stai combinando ultimamente?”.
Quando giunsero a destinazione i quattro mancanti erano là che li attendevano. Hassan, Qaali, Karim e Rahim stavano all'ombra appoggiati al muro del castello, il loro sguardo al vederli si illuminò.
Rahim si avvicinò a loro con una corsetta. Portava una maglia nera col logo SAMSUNG sul petto e quello del Chelsea sulla spalla. Nuru notò che sia lui che Karim avevano vere maglie da calcio, al contrario dei ragazzi che erano appena giunti dal suo quartiere.
Si chiese se anche gli altri ci avessero fatto caso, se questo li disturbasse.
Raffaele non c'era ancora, ma questo non lo stupì. Gli aveva dato appuntamento dieci minuti dopo gli altri, per essere sicuro che arrivasse a lavoro ultimato.
“Quella è la palla?” chiese Karim, che li aveva appena raggiunto sotto al sole cocente, benché fossero già le cinque del pomeriggio.
Se Juma avvertì la nota scettica e perplessa del ragazzo davanti a quel pallone disastrato, non lo diede a vedere. “Sì,” rispose, mostrandoglielo con un sorriso soddisfatto.
Era sempre stato adorato per quella palla, l'unico del suo gruppo che ne possedeva una, e anche se era ormai sfibrata e spellata ne andava fiero come il primo giorno.
Karim e Rahim si scambiarono un'occhiata perplessa e insicura.
Anche Hassan e Qaali li raggiunsero, Qaali strinse la mano a Imani e iniziarono a parlottare, mentre Hassan si avvicinò a lui col sopracciglio alzato. “Devi spiegarmi come ti è venuta questa idea balzana. Tu odi giocare a calcio.”
Nuru alzò le spalle, guardando di sottecchi i suoi compagni vecchi e nuovi che fraternizzavano.
“Mi è venuta voglia,” rispose, con noncuranza. “Ogni tanto capita anche a me.”
“Ci siamo tutti? Possiamo iniziare?” chiese Juma, e fu allora che la macchina bianca arrivò.
“Ora sì,” rispose Nuru, “datemi un attimo.”
La portiera dell'auto si spalancò, e il ragazzo spuntò. Aveva davvero una maglia bianca e un paio di pantaloncini sportivi, con le sue solite scarpe da ginnastica.
“Che vuoi fare? Andare a correre?” chiese, con un sorriso largo in volto, poi vide la piccola folla che li attendeva, tra cui qualche compagno che riconobbe, e aggrottò la fronte. “Nuru, che succede?”
Lui sentì le guance che andavano a fuoco, distolse lo sguardo. D'un tratto non era più convinto della sua idea. E se a Raffaele non fosse andato di giocare in quel momento? E se non fosse andato d'accordo con nessuno? E se avesse voluto passare del tempo da solo con lui? Se fosse stato troppo stanco? Se avessero perso in modo disastroso e ci fosse rimasto male?
“Ho fatto una cosa, cioè, era una sorpresa… insomma, per Natale. Cioè, se vuoi… se vuoi… ci sono tutti e abbiamo un pallone e… ecco, pensavo che avremmo potuto fare una partita. Solo se ti va. Altrimenti… altrimenti mi invento che mi viene una storta e li mando tutti a casa.”
“Scusa, ma se parli così non capisco niente. È un pallone da calcio quello? E poi cos'è una storta?”
Nuru chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, poi li riaprì. Raffaele lo stava ancora fissando. “Ho chiamato qualche vecchio amico per giocare. Ho pensato di farti una sorpresa, che forse poteva farti piacere.”
Il ragazzo lo guardò per qualche secondo, incredulo, poi portò gli occhi ai ragazzi che si stavano sistemando in campo, poi li riportò su di lui.
“Per me?” disse soltanto, in un sussurro.
“Sì. Hai detto che ti mancava il calcetto con gli amici, e ho pensato…”
“Oh, Nuru,” lo interruppe, poi sibilò qualcosa in italiano. “Non sai quanto vorrei baciarti adesso, davanti a tutti.”
Sentì il cuore allargarsi nel petto. Aveva funzionato, aveva funzionato davvero! L'aveva fatto felice, tutto da solo!
“Non farlo, per favore,” gli disse, con un sorrisino.
“Oh, lo farò eccome, appena potrò.”
“È una promessa?”
“È un giuramento.”
Nuru sarebbe voluto saltare a piè pari a quella sera, al momento in cui gli avrebbe potuto mettere le mani addosso. Desiderò farlo là, in quel momento, sentì una forza violenta che lo attraeva verso di lui e le sue labbra, non seppe neanche lui come avesse fatto a restare fermo dov'era.
“Buon Natale.”
Raffaele gli sorrise, mosse appena la mano come se avesse voluto toccarlo, ma prima di farlo la riportò lungo il suo fianco. “Grazie. Davvero.”
Raggiunsero gli altri che si erano già posizionati in campo. “Tu sei la punta sinistra,” gli spiegò Juma, che era quella destra.
“Cos'è una punta?” chiese, e il ragazzo indicò un posto accanto a lui.
Nuru corse alla sua porta. Non aveva guanti, ma del resto non avevano neanche arbitro o linee di campo. Avevano solo dieci persone, tre spettatori, e voglia di giocare. Nuru si chiese se sarebbe bastato.
Dovevano aver deciso chi iniziava mentre lui era stato con Raffaele a flirtare, perché un attimo dopo, senza apparente preavviso, Karim prese una breve rincorsa e diede il primo calcio.
Tutto fu meno chiaro a quel punto. Nuru aguzzò la vista per tenere gli occhi puntati sulla palla al centro del campo, ma si muoveva troppo in fretta. Juma e Karim restarono a litigarsi il pallone con gli scarponcini per qualche secondo, poi Karim ebbe la meglio e si infilò nella loro metà campo.
Lo guardò a occhi sgranati mentre bucava la loro difesa, quando Allan gli fu sopra come un treno, facendoli finire entrambi a rotolare per terra.
“Fallo!” urlò Hassan, da bordo campo.
“Non abbiamo l'arbitro, non si può fare fallo,” commentò Allan, che si massaggiava la gamba là dove aveva fatto inciampare l'altro.
“Bene,” ringhiò Karim, tra i denti. “Niente falli? E niente falli sia.”
Da quel momento, più che una partita a pallone, si trasformò in una grande rissa. Ogni tanto arrivava qualche palla in area di rigore, e ogni volta Qaali gridava “Vai, Nuru! Forza!” per poi urlare “Noooo!” quando lui non riusciva neanche a passarci vicino e quella entrava sfrecciando come a porta vuota.
Ormai la palla entrava e usciva dalla sua porta così spesso che, più che una rete da calcio, sembrava una enorme bocca bulimica che continuava a mangiare e poi vomitare palloni in modo ininterrotto.
Juma e Raffaele ogni tanto riuscivano a prevalere, erano una buona squadra là davanti alla porta avversaria, ma al contrario di Nuru il portiere dal lato opposto del campo aveva un minimo di talento, quindi non tutte le reti andavano a segno.
Quando Hassan segnalò la fine della partita perché i quaranta minuti erano passati, Nuru si sentiva a pezzi. Si era buttato a terra qualche volta per cercare di parare dopo essere entrato nel mood, ma era riuscito a bloccare una singola pallonata solo perché l'attaccante gliel'aveva calciata addosso, per il resto non aveva fermato niente.
Avevano perso tredici a quattro, ed era tutta colpa sua, avrebbe dovuto trovare una persona in più e non giocare. Ma quanto sarebbe stato strano organizzare una partita a calcio per stare a guardare?
Restò sulla porta e guardò tutti che si riunivano a centro campo. Vide che Rahim stringeva la mano a Juma, che gli diceva “bella partita.”
Sentì Juma rispondere “Hai visto che il mio pallone è andato benissimo?”
“Hai ragione, si calcia bene. La prossima volta però ci organizziamo meglio.”
Nuru non avrebbe mai pensato di vedere Rahim e Juma fare amicizia, due persone tanto diverse stringersi la mano e parlare addirittura di una ‘prossima volta’. Questo non bastò a placare l'amarezza che sentiva dentro.
“Bene, ora chi ha voglia di un gelato?” esclamò Qaali, la voce squillante di entusiasmo.
“Ecco, brava, mangiamoci un gelato per annegare i dispiaceri della disfatta,” scherzò Hassan, che doveva aver capito che la sconfitta l'aveva fatto rimanere male.
“Non c'è un Creamy qua dietro?”
“Noi ce ne andiamo,” disse Juma, rivolto ai compagni. Non aveva bisogno di chiederglielo per saperlo, Nuru sapeva che quel gelato non se lo poteva permettere.
Rahim si voltò, deluso. “Come, di già?”
“Ci sentiamo per un'altra partita! Grazie, Nuru.”
“Già… grazie, Nuru. Senza le tue eccelse abilità sportive non avremmo mai vinto!” esclamò Karim, tutto fiero. Nuru avrebbe voluto tanto dargli un pugno.
“Su tredici goal tu ne hai segnato solo uno,” gli disse Hassan, sempre dalla parte dell'amico. “Forse avete vinto grazie a Nuru, ma di sicuro non grazie a te.”
“E tu chi sei, il suo avvocato?”
“Allora, questo gelato?” incalzò Qaali.
“Anche noi andiamo,” disse Raffaele, guardando verso di lui. “Giusto?”
“Giusto,” borbottò, non vedeva l'ora di andarsene da lì.
“Ora chiamo l'autista, ci faccio venire a prendere.”
“Io un gelato me lo mangerei,” commentò Rahim. “Fa un caldo atroce.”
Era vero, faceva caldo ed erano tutti sudati, soprattutto loro che avevano corso tanto, ma anche Nuru in una certa misura. Raffaele si allontanò per chiamare l'autista e Nuru salutò gli altri, diretti in parte al suo quartiere e in parte al Creamy Inn.
La macchina non tardò ad arrivare, e Nuru non aveva parlato molto. Si vergognava, sicuro di aver fatto brutta figura e di aver rovinato il suo regalo. Passò il viaggio in macchina a guardare la città assolata dal suo finestrino, imbronciato.
“Allora, mi vuoi dire che hai?” gli chiese Raffaele, una volta che furono in camera. Lui era intento a cercare un cambio per farsi la doccia, Nuru era seduto sul letto con un cipiglio turbato.
“Abbiamo perso,” disse.
“Non abbiamo perso, ci hanno asfaltato,” corresse Raffaele, con un sorrisino.
“Per colpa mia.”
“È per quello che fai così? Perché abbiamo perso?”
“Non proprio.”
“E allora cosa c'è? Dimmelo, avanti.”
“Ti ho fatto perdere. Io volevo che ti divertissi e ti ho fatto perdere tredici a quattro.”
“Ma io mi sono divertito,” rispose, accovacciandosi davanti a lui. “Non mi importa chi ha vinto. Volevo tanto giocare e l'ho fatto, mi basta questo. È andata bene così.”
“Non ci sei rimasto male?”
Raffaele gli sorrise. “Sei davvero uno stupido,” lo sgridò. “Ma sei anche dolcissimo. Dove lo trovo un altro come te?”
Nuru aggrottò la fronte. “Da nessuna parte!” esclamò, perché la sola idea lo disturbava.
“Infatti,” gli rispose. “E tu? Lo vuoi il tuo regalo?”
“Il mio regalo?”
“Certo, il tuo regalo di Natale. O pensi che me ne sia dimenticato?”
“Sì. Cioè, no. Cioè, fammelo vedere.”
Raffaele scosse la testa, divertito, poi aprì il cassetto della scrivania e gli porse un pacchetto incartato. Era abbastanza piccolo, di forma allungata ma stretto. Nuru lo osservò con curiosità, impensierito.
“Allora? Non lo apri?”
Non rispose, si limitò a scartarlo stando ben attento a non strappare la carta color rosso fuoco. All'interno trovò una scatola bianca con un lato trasparente, dentro cui si intravedeva una sorta di parallelepipedo di un blu metallizzato.
Nuru alzò gli occhi e li puntò in quelli azzurri del ragazzo davanti a lui. “Ehm, grazie, io…”
Raffaele rise, il che voleva dire che il mondo era ancora un bel posto. “Non sai cos'è, vero?”
“... no.”
“È una powerbank.”
“Una che?”
“In pratica è una carica portatile per il cellulare. Anzi, due in questo caso. Quando vieni qua a casa la puoi caricare, e ti dura come due batterie extra del telefono. Così anziché un'ora al giorno puoi accenderlo tre.”
“Tre ore al giorno?” gli chiese, incredulo.
“L'idea è quella.”
Avrebbe potuto raddoppiare il suo uso del cellulare il pomeriggio, per i suoi vlog di viaggio e per sentire i suoi amici. Avrebbe potuto usare il telefono prima di andare a dormire, anzi, scrivere a Raffaele prima di andare a dormire, addormentarsi dopo un suo messaggio. Aveva sempre sognato di farlo, di essere l'ultima persona da cui riceveva la buonanotte prima di addormentarsi.
L'ultima traccia di malumore sparì dal suo cuore, lo tirò verso di sé sul letto e lo abbracciò, iniziando a coprirlo di baci sul collo. Lo sentì ridere ancora, quel suono gli dava una carica paragonabile a nient'altro al mondo.
“Ti piace?”
“È bellissima,” sussurrò al suo orecchio, “grazie, grazie, grazie.”
Si ritrovarono sul letto tutti attorcigliati, con Nuru che continuava a baciarlo, e Raffaele che si strofinava su di lui come un gatto.
“Anche a me è piaciuto tanto il tuo regalo. Sei dolce.”
“Questo l'hai già detto.”
“Beh, è vero. È stato un pensiero dolce. E mi mancava giocare a calcio. Quel Juma poi è un portento.”
“Anche se abbiamo perso?”
“Ancora? Non mi importa se abbiamo perso. E poi non è stata tutta colpa tua, Rahim è molto bravo, e noi non avevamo la giusta attrezzatura.”
“Lo pensi davvero?”
“Non sarai Buffon, questo non lo nego, però non sei neanche così male.”
“Cos'è un Buffon?”
“Oddio,” mormorò Raffaele, inorridito. “Ma che ci sto a fare io con te?” gli chiese, ma prima che potesse rimanerci male gli diede un bacio sulle labbra e aggiunse “sto scherzando. Buffon è un portiere italiano, è bravo. Gioca nella squadra che tifo.”
“Mh,” mormorò Nuru, tranquillizzato. Gli cinse i fianchi con le braccia e gli diede un altro bacio, sulla clavicola.
“Che schifo, smettila di baciarmi, sono tutto sudato.”
“Non mi importa,” gli disse, le labbra ancora premute sulla pelle. A essere del tutto sinceri, sentirlo sudato e accaldato su di lui, appiccicato addosso, ancora rosso per lo sforzo aveva iniziato a eccitarlo. “Ti voglio adesso lo stesso.”
Raffaele dovette essersene accorto, perché gli avvicinò le labbra all'orecchio e sussurrò “Prendimi, allora.”
Non ci fu bisogno di dire altro. Con un colpo li capovolse, inchiodandolo sul materasso. Lo guardò, aveva i capelli chiari sparsi sul cuscino candido, le labbra socchiuse e gli aveva appena chiesto senza troppi giri di parole di mettergli le mani addosso, la sua attività preferita in tutto il mondo. Si abbassò allora, su quella bocca che lo aspettava, e lo trovò pronto ad accoglierlo.
«It's the most wonderful time of the year
There'll be much mistltoeing
And hearts will be glowing
When loved ones are near
It's the most wonderful time of the year.»
Note autrice
Buon Natale, miei cuori!
Spero passerete delle feste fantastiche e che siate felici!
Era da un po’ che mi interrogavo su un potenziale regalo da parte di Nuru per Raffaele, e la risposta è venuta in modo naturale quanto logico: una partita a calcetto! Gratuita, divertente, efficace. Il regalo perfetto!
Inoltre, trovo bello che lo sport serva ad avvicinare due mondi diversi come quello degli studenti di Nasserpuria, ricchi e musulmani, e quello degli amici di Nuru del suo quartiere, squattrinati e cristiani.
Mi piace pensare che abbiano continuato a giocare ogni tanto, e che sia nata una bella amicizia.
Chissà, magari ci scriverò su qualcosina in futuro!
Per venire alle note culturali, invece...
In Kenya a dicembre non si va a scuola. Questo non per il Natale, dato che non è un paese a forte prevalenza cristiana (è cristiana poco meno della metà della popolazione, un altro poco meno è musulmana e il resto è induista o animista), ma perché, proprio perché non hanno una religione che prevale sulle altre, nel corso dei dodici mesi vanno a scuola per tre di seguito e poi ne fanno uno di pausa, così per tutto l'anno.
Per la precisione, vanno a scuola a gennaio, febbraio, marzo (e aprile vacanza), a maggio, giugno, luglio (e agosto vacanza), a settembre, ottobre, novembre (e a dicembre vacanza), per poi ricominciare a gennaio e ripetere il ciclo. È un modo equo per avere vacanze fisse e accontentare tutti, con una pausa di un mese ogni tre.
Interessante come metodo, vero?
Inoltre, il campionato di calcio più seguito in Kenya è la Premier League, e le tre squadre più tifate sono l'Arsenal, il Manchester United e il Liverpool. Dove andavo a scuola a Mombasa erano quasi tutti tifosi dello United, per esempio.
Lo sport più praticato in Kenya però non è il calcio, ma la maratona.
Qualcuno di voi avrà notato che ho nominato Babbo Natale a cavallo di cammello... infatti, per i bambini del Kenya, Babbo Natale non arriva su una slitta con le renne (non avrebbe senso, non essendoci la neve) ma sul cammello, ed è chiamato in inglese “Father Christmas” anziché “Santa Claus” come tutti immagineremmo.
I barfi, invece, sono dolcetti tipici indiani molto comuni sulle coste del Kenya (che, dando sull'oceano indiano, ha molte influenze di quella cultura), hanno una base di farina di cocco, frutta secca e latte condensato, e possono essere aromatizzati col cardamomo.
Con la speranza che tra cene, pranzi, visite ai parenti e tombolate abbiate tempo di passare per questi lidi, ancora buon Natale e a presto!
P.S. qui sotto una foto di barfi e di Father Christmas in groppa al suo cammello.
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