9. Caduta libera
Nuru spalancò gli occhi dallo shock, e per un minuscolo, interminabile attimo sentì una vampata di euforia, sentì che tutto fosse dove avrebbe dovuto essere. Voleva soltanto chiudere gli occhi e baciarlo, forte e a lungo e sino in fondo, strusciarsi a lui come si era strusciato sul suo letto proprio quel giorno.
Quel minuscolo, interminabile attimo gli colmò il cuore di una gioia purissima, tanta che traboccò inondandolo intero.
Per quel minuscolo, interminabile attimo sentì il cuore corrergli in gola, e fu a un passo dall’afferrarlo e stringerlo a sé, senza lasciarlo andare mai più.
Quel pensiero passò com’era arrivato. L’istante dopo si rese conto di quello che stava succedendo e fu preso dal panico.
Raffaele lo stava baciando. Raffaele era un ragazzo. Tutti i sistemi di allarme nel suo corpo iniziarono a gridare impazziti, e lui saltò in piedi.
«Che stai facendo?»
Raffaele lo guardò, gli occhi azzurri sbalorditi, sbatté le palpebre e disse «Scusa. Pensavo che tu...»
«Che cosa mi hai fatto?»
«Scusa, scusa, scusa. Volevo solo...»
Nuru fece qualche passo indietro e incespicò su una scatola che stava per terra, barcollando e riuscendo per miracolo a stare saldo sulle gambe.
Anche Raffaele si alzò, e lui indietreggiò di nuovo. «Stammi lontano! Oh, mia madre aveva ragione, aveva ragione...»
Si era fidato del ragazzo davanti a lui, e lui gli aveva fatto una cosa orribile. Una cosa disgustosa, sbagliata, sporca. Una aberrazione contro natura.
Fu questo che gli disse, prima di uscire dalla stanza. «Tu sei malato. Sei malato, devi farti curare.»
Scappò fuori dalla stanza e andò a sbattere contro un uomo, forse il signor Fontana, padre di Raffaele.
Quello balbettò qualcosa in italiano, poi gli disse in inglese «Ehi, attento, ragazzo!»
Intanto Raffaele lo chiamava, diceva il suo nome, ma Nuru non voleva ascoltarlo. Non si voltò indietro, scese di corsa le scale, e strattonò via quando una mano gli afferrò il braccio.
«Nuru, per favore...»
«Non toccarmi, mzungu!»
Continuò a correre sino alla porta di casa, poi uscì nel giardino, quello stupido giardino con l’erba verde e l’innaffiatoio elettrico, tutto quello spreco di acqua per qualcosa che non erano le persone.
Raffaele fece per seguirlo, ma sentì qualcuno chiamarlo dall’interno. Una voce da uomo, che disse qualcosa in italiano che lo fece desistere.
Lui trovò a tentoni il cancello e provò ad aprirlo, ma era chiuso. Riuscì dopo qualche secondo a trovare il pulsante e lo fece scattare. Si ritrovò fuori, in strada, a Nyali, lontanissimo da casa sua. A piedi ci avrebbe messo ore a tornare, sarebbe arrivato a notte fonda, in ritardo per la cena di sua madre.
Fu allora che decise di prendere un matatu, ma non aveva soldi con sé. Fermò una coppietta di ragazzi bianchi che camminava mano nella mano, chiese loro qualche scellino trattenendo a stento le lacrime, ma loro lo mandarono via in malo modo. Si avvicinò a un uomo vestito bene, con una camicia azzurra e una ventiquattr’ore in mano, ma anche lui lo scacciò con disgusto e con rabbia. Lui lottò contro le lacrime che volevano uscire, sinché un’anziana signora bianca insieme a un ragazzo nero sulla ventina si avvicinò. Erano presi per mano, lo trovò strano.
«Cosa c’è, ragazzo?»
Lui deglutì. Non piangere. Non piangere. Non piangere. «Signora, ti prego, sto male, sono lontano da casa, dieci scellini per un matatu, ti prego, è un’emergenza…»
Il ragazzo accanto a lei agì prima che quella potesse dire altro. Prese il portafoglio dalla tasca e gli porse una banconota da mille scellini. «Tieni, amico. Torna a casa. E ricorda che tutto si sistema, eh?»
Lui guardò la banconota con gli occhi strabuzzati. «Io… non so se…»
«Tienili. Io ne ho altri. Torna a casa e riposa.»
Sentì che stava andando in iperventilazione, sentì di aver imbrogliato quel ragazzo. Se avesse saputo cos’aveva appena fatto, se avesse saputo di Raffaele, non gli avrebbe dato tutti quei soldi. Anche lui lo avrebbe insultato.
Li accettò, perché ne aveva bisogno. Le prime lacrime iniziarono a rigargli le guance, dalla vergogna per essersi ridotto a chiedere l’elemosina e da ciò che era successo in casa, ma le asciugò di fretta con la mano. «Grazie. Grazie.»
Si allontanò dalla coppia per evitare che lo vedessero in quello stato, le gambe tremanti.
Camminò sbandando e senza meta, sinché non adocchiò un matatu e si buttò in mezzo alla strada, fermandolo nella sua corsa.
Chiese indicazioni per il punto più vicino al suo quartiere, ma il controllore scosse la testa, indicando un posto più in là.
Lui camminò e camminò, malfermo sulle gambe. Si sentiva male, come se fosse malato anche lui, aveva la nausea, si sarebbe voluto lavare via la sensazione sporca di quello che Raffaele aveva fatto, stracciare i soldi che aveva ottenuto per pena.
Trovò il matatu che andava nella direzione che voleva e il controllore volle quindici scellini.
Sua madre non voleva che lui andasse sui mezzi senza la supervisione di un adulto, ma non gli importava. Gli importava solo di andare a casa sua, barricarsi in camera e cercare di scacciare con la mente quello che era successo.
L’autista corse come loro solito, e tutti là sul mezzo gli sembravano una minaccia. Arrivò in periferia, nei pressi del suo quartiere, prima di quanto avesse promesso a sua madre.
Entrò in casa tremante e fuori di sé, e Lela capì subito che qualcosa non andava.
«Nuru!» esclamò sua sorella, «che ti è successo?»
«Sono stato male» liquidò, perché quello che era successo non doveva saperlo nessuno.
«Mamma è ancora al lavoro, la cena non è pronta...»
«Vado a stendermi. Non disturbarmi per la cena, non ho fame.»
«Ma...»
Attraversò la tenda che separava la sua stanza dal cucinino, ignorò i suoi fratellini che giocavano, inginocchiati per terra, ed entrò nella zanzariera, sul materasso.
Si raggomitolò in posizione fetale, stringendosi le ginocchia, chiudendo gli occhi e irrigidendo tutto il corpo. Le immagini di quel bacio gli tornarono alla mente, soprattutto quel primo momento, il momento in cui era stato felice, quell’attimo in cui tutto era andato a posto.
Lo rivisse e lo rivisse nella sua testa, e gli occhi gli si riempirono di lacrime di nuovo.
Era sbagliato. Sbagliato nel modo peggiore, più brutale, e a lui per un momento era piaciuto, non riusciva a smettere di pensarci, e una parte di lui, una parte piccola e rimessa al suo posto dalle altre continuava a sperare che sarebbe successo di nuovo.
E come poteva una cosa così bella come un bacio, una persona come Raffaele, carina e gentile, essere così sbagliata?
Come poteva una gioia tanto grande essere così orribile da meritare pena eterna?
Eppure era così che funzionava il male, il peccato. Era bello, allettante, era facile. Se fosse stato turpe e disgustoso chi sarebbe stato tentato di peccare?
Restò sul letto a lacrimare in silenzio, a immaginare di baciarlo ancora, decine e decine e centinaia di volte, senza riuscire a evitarlo. Capì che era proprio quello che aveva desiderato sulla spiaggia, un bacio da lui, e ora che l’aveva avuto si sentiva solo così male, tanto che non riusciva a respirare.
Sua madre tornò dal lavoro ed entrò in camera a controllarlo. Quando lo vide in quelle condizioni, decise che il giorno dopo non sarebbe andato a scuola.
Restò in quello stato tutta la notte e tutta la giornata successiva, sognando di occhi azzurri e labbra morbide, fiamme degli inferi e malattie senza cura. Che Raffaele l'avesse contagiato, tramite un solo tocco di labbra?
Sì, doveva essere per forza così, per questo era tanto ossessionato da quel momento. Per questo, nonostante tutto, non poteva fare a meno di volere che si ripetesse ancora.
La sera dopo, riuscì in qualche modo a calmarsi. Andò a cena, si presentò a sua madre, mangiucchiò qualcosa, infilò i soldi che gli aveva dato quel ragazzo nel conto familiare – non li avrebbe tenuti, si faceva schifo per averli presi – e decise che la mattinata successiva sarebbe andato a lezione. Aveva già saltato il compito di inglese, non poteva permettersi di fare altre assenze come quella. Non poteva continuare a evitare la verità per sempre.
Quando entrò a scuola, lo fece col cuore in gola. Al suo ingresso in classe Hassan e Qaali si alzarono e gli andarono incontro, riempiendolo di domande e di ramanzine.
«Ieri non hai acceso il telefono! Ero preoccupato!»
«Si può sapere che hai avuto di tanto grave?»
«Il signor Muli era arrabbiato, ha detto che ti interrogherà domani!»
«Come ti senti ora, stai meglio?»
Il suo sguardo evitò la parte della classe dove si erano riunite tutte le ragazzine, intorno al banco di Raffaele, ma riconobbe il suo fastidio per quello che era: una gelosia acida, bruciante, che gli consumava il fegato e lo stomaco e risaliva su per l’esofago.
Non voleva parlargli mai più, non voleva più vederlo, e allo stesso tempo voleva affrontarlo, urlargli addosso che l'aveva rovinato, che era tutta colpa sua, di cancellare quello che aveva combinato.
L’occasione si presentò alla terza ora, quella di matematica. La professoressa Harunani, col suo hijab variopinto e la lunga veste nera, spiegava ai suoi alunni i principi di geometria analitica.
Raffaele alzò la mano e si scusò per andare in bagno. Nuru lo guardò svanire dalla classe e aspettò il tempo necessario perché arrivasse a destinazione, per poi alzare la mano a sua volta.
«Mutuku?»
«Potrei andare in bagno, professoressa?»
«Quando torna Fontana» rispose, riabbassando gli occhi sul libro.
«La prego, ieri non sono stato bene, devo proprio andare...»
La donna sospirò. Lo guardò con gli occhi d’ambra attenti ed espressivi e mormorò «E va bene. Ma non metterci troppo.»
Si alzò con le gambe tremanti, pensando a cosa dire. Non avrebbe potuto urlare, tutti avrebbero sentito e non doveva, non poteva succedere.
Avrebbero potuto denunciarli per questo, una condotta deviata come quella era punibile col carcere, e lui non aveva nessuna intenzione di finirci. Aveva già diciotto anni, sarebbe stato giudicato come un adulto, ormai.
Attraversò i corridoi della scuola ed entrò nel bagno. Era vuoto, se non per Raffaele che si lavava le mani, osservandosi allo specchio. Quando sentì la porta del bagno aprirsi si voltò e lo vide.
«Nuru» mormorò, chiudendo il rubinetto e voltandosi verso di lui. «Scusami, io...»
Allora Nuru si avvicinò, pronto a vomitargli addosso tutto quello che pensava. A insultarlo, quello mzungu invertito che l’aveva fatto ammalare, lo aveva costretto a chiedere l’elemosina, a stare un giorno intero paralizzato a letto dal disgusto e dal terrore.
Fu davanti a lui pronto a dargli una spinta e forse un pugno e vomitargli addosso quanto lo odiava, poi Raffaele lo guardò con gli occhi spalancati, il volto una maschera di risentimento, ed era così bello e perfetto e così lontano da tutto ciò che Nuru disprezzava che lo afferrò con rabbia per la camicia della divisa e lo baciò.
Fu solo un breve tocco di labbra, violento ma immediato, poi lo spinse via, spaventato da quello che lui stesso aveva fatto.
Raffaele sbatté le palpebre incredulo, e Nuru pensò che se fosse stato lui a dargli un pugno se lo sarebbe meritato. Invece, senza dire nulla, il ragazzo lo prese per un braccio e lo tirò in uno dei bagnetti, chiudendo la porta col passante.
Si guardarono per un attimo, senza fiato, in completo silenzio, poi si avvicinarono insieme.
Diedero inizio a un bacio sporco, affamato, che si accese subito e un po' goffo, fatto di denti, lingue che si cercavano e respiri che si mischiavano.
Sentì le mani di Raffaele che gli toccavano il ventre e il petto attraverso la camicia della divisa scolastica. Si lasciò andare a un verso strozzato e lo sbatté alla porta del bagno, baciandolo con una voglia animalesca che non aveva mai saputo di avere.
Gli parve di sentire la porta della zona comune aprirsi, non gli importava. Loro erano chiusi dentro quel piccolo universo, sporco e soffocante, e allo stesso tempo tutto quello che contava.
«Mi hai rovinato» mormorò, riprendendo fiato. «Mi hai rovinato...»
«Zitto e baciami, stupido.»
Non se lo fece ripetere due volte. Gli afferrò saldo il volto a due mani e riprese a baciarlo, l’adrenalina a mille, caldo al basso ventre e il cervello svuotato da ogni pensiero.
L’avrebbe divorato se avesse potuto, ingoiato senza neanche masticarlo. Lo voleva addosso, dappertutto, dentro e fuori e sopra e sotto e in ogni cazzo di centimetro della sua pelle e nelle budella e sotto le unghie e in fondo alla gola.
Lo voleva e basta, così tanto che perse il controllo.
Non passò troppo tempo in quel bacio frenetico, prima che Raffaele lo spingesse via e lo guardasse, arrossato e ansimante, senza fiato. «È tardi» gli disse. «Noi andiamo. Adesso. La prof... lei...» cercò le parole nella sua testa, sul suo volto apparve una smorfia frustrata.
«Lei manderà qualcuno a chiamarci se vede se tardiamo» disse Nuru, aiutandolo a finire la frase. «Sì.»
«Verrai stasera a casa mia? Parliamo?»
Nuru lo osservò senza sapere cosa dire. Lui avrebbe voluto rivederlo in privato, sbrogliare quella matassa di casino che era successa, schiarirsi un po’ le idee. Allo stesso tempo, però, non gli andava di indulgere in una cosa brutta come quella. Era terrorizzato all'idea che qualcuno li scoprisse, provava disgusto per se stesso, disgusto all’idea di quello che aveva appena fatto e che voleva fare di nuovo.
«Io... non lo so.»
«Perché?»
Come poteva non capirlo? Cosa c’era che non andava in lui?
Forse tutti gli altri avevano ragione, forse Raffaele era solo uno mzungu viziato e superficiale che gli avrebbe portato solo guai.
«Perché questo è sbagliato.»
«Perché?»
Nuru alzò gli occhi al cielo. «È ovvio il perché.»
«Se è ovvio spiega.»
Fece una smorfia frustrata. Cosa c'era da spiegare? Era sbagliato perché era così e basta, lo sapevano tutti, era persino illegale.
Poi gli venne l’illuminazione.
«Dio ha creato un uomo e una donna» disse infine. «Lui... lui ha deciso che questa sarebbe stata la natura. Il resto è contro natura.»
Raffaele alzò le sopracciglia e inclinò la testa, osservandolo come l'avrebbe osservato se avesse risposto che la fatina dei denti gli aveva detto così.
«Dio?! Sul serio?»
«Sì. Dio. Lui...»
«Nuru? Raffaele?»
La voce di Karim gli gelò il sangue nelle vene. Vide Raffaele irrigidirsi davanti a lui, spalancare gli occhi e trattenere il fiato.
Lui sentì il cuore che gli si fermava nel petto. Lui e Raffaele nel bagno, chiusi dentro, da soli. Era sospetto, troppo, che diavolo ci facevano lì? D’un tratto gli sembrò ancora più sbagliato, la peggiore idea della sua vita.
Era fregato, sul serio stavolta, avrebbe perso la borsa di studio, sarebbe stato processato, sua madre e i suoi fratelli non lo avrebbero più guardato in faccia, Hassan e Qaali avrebbero pensato che era uno scherzo della natura.
Doveva pensare, e doveva farlo in fretta.
«Ragazzi? Ci siete?»
Strizzò gli occhi e si schiarì la voce. «Siamo qui!» disse, e sentì che Raffaele gli afferrava la mano e la stringeva in una morsa.
«Tutti e due? Che ci fate là dentro?»
«Stavo male. Io... ho vomitato.»
«Ma che schifo, Nuru!»
«Lo so, lo so... ma Raffaele mi ha aiutato. Tutto qui.»
Riaprì gli occhi e lo guardò, era ancora fermo al suo posto. Sperò che avesse capito, per reggergli il gioco, ma non c’era modo di determinarlo.
«Beh, la Harunani è molto arrabbiata. Mi ha mandato a chiamarvi.»
«Arriviamo» disse, non ebbe bisogno di fingersi malato, la sua voce era uscita come un rantolo.
Tirò lo sciacquone perché aveva detto di aver vomitato, poi fece per aprire il passante della porticina. Raffaele gli afferrò il polso, fermandolo.
«Cosa c'è?» sibilò, per non farsi sentire.
Il ragazzo si sporse in avanti e posò le labbra sulle sue, in un leggero bacio di saluto. Nuru restò di sasso all’inizio, poi sentì qualcosa dentro di lui sciogliersi e lo guardò, rassegnato.
Combatté con un sorrisino imbarazzato che minacciava di spuntargli sulle labbra.
Sì, Raffaele l’aveva contagiato, non c'erano dubbi a riguardo. Anche lui lo desiderava.
Non disse nulla. Fece scorrere il chiavistello e aprì la porta del bagno.
Karim aspettava, sembrava preoccupato, si avvicinò e gli chiese come stesse. Lui a malapena lo sentì, in testa continuavano a ronzargli tanti pensieri. Si chiese cosa fare, se andare davvero da lui quella sera o se dimenticarlo per sempre, chiudersi a riccio e non rivolgergli mai più la parola.
Sapeva tra le due qual era la cosa giusta da fare, Raffaele era una brutta influenza per lui, questo ormai era certo. Non sapeva però se avrebbe avuto la forza di farlo.
Tornarono in classe in silenzio, un silenzio teso che poteva tagliarsi con un coltello. Una volta giunti, la professoressa Harunani non ebbe neanche il tempo di dire qualcosa.
«È colpa mia» disse, «sto ancora male. Raffaele mi stava aiutando.»
La professoressa lo squadrò come se cercasse di capire se diceva la verità. Dovette decidere che sembrava ammalato sul serio, perché gli credette.
«Vuoi che chiami i tuoi genitori? Vuoi farti venire a prendere?»
«Ora mi siedo, vediamo se mi passa.»
Camminò a passi lenti verso il suo banco e cadde seduto accanto a Qaali.
«Tutto a posto?»
«Ho vomitato» rispose, con un filo di voce.
«Bleah. E ora come ti senti?»
«Uno schifo.»
«Dai, ti prendo io gli appunti oggi. Tu cerca di star meglio, va bene?»
Lui annuì, con un sospiro. Non sapeva cosa avesse fatto per meritare un’amica come Qaali. Forse niente, perché forse non la meritava proprio. Le aveva mentito, tanto per cominciare, mentito su una cosa importante e orrenda che aveva fatto.
La lezione finì, e così la giornata di scuola. Vide con la coda dell'occhio Raffaele che lo cercava con lo sguardo per attirare la sua attenzione, ma lui non si voltò per salutarlo. Si avvicinò a Hassan invece, che gli diede una spallata amichevole.
«Vuoi che ti accompagni a casa in macchina?»
«Te l’ho già detto, Haz. La tua macchina non può avvicinarsi a casa mia. Non sono sicuro che passi per lo sterrato, e comunque è pericoloso.»
«Vuoi venire a casa mia insieme a me, allora? La chiamo io tua madre. Non mi va che torni a piedi...»
«Sto meglio, adesso. Non preoccuparti, davvero. Camminerò con un po’ di calma e arriverò a casa tranquillo.»
«Sicuro?»
«Al cento percento.»
«Va bene. Scrivimi, quando accendi il cellulare. Che sennò mi preoccupo.»
«Sì, sì, ti scrivo, promesso.»
Tornò a casa proprio come aveva detto a Hassan: con lentezza e in silenzio, le sue cuffie nelle orecchie senza musica per non essere disturbato.
Non sapeva se sarebbe andato a casa di Raffaele quella sera, era combattuto, perché la prospettiva aveva un grande pro e un grande contro che lottavano contro di lui come bestie affamate.
Il grande contro era che, se fosse davvero tornato in quella casa, era certo che l’avrebbe baciato di nuovo. Avrebbe commesso uno sbaglio, un crimine, un peccato, sapeva che era la decisione peggiore di tutte, quella che l’avrebbe condannato.
Il grande pro d’altro canto era, com’era ovvio, che se fosse davvero tornato in quella casa era certo che l’avrebbe baciato di nuovo. E lui lo voleva, non c’erano parole per descrivere quanto. Ne sentiva il bisogno fisico, viscerale, drogato della sensazione di adrenalina pura e di euforia che aveva provato le altre volte che era successo.
Arrivò a casa che il pranzo era pronto.
Sua madre alzò gli occhi dalla pentola di ugali, che stava girando con l'aiuto di Lela, e parve accorgersi che qualcosa non andava.
«Habari?»
«Sto bene, ma.»
«Stai qui, è quasi pronto» disse sua sorella, con Kharunnissa che giocava con dei legnetti legati per lei da Allan a forma di bambola.
«Vado a poggiare lo zaino.»
«Allora chiama gli altri!»
Entrò nella sua stanza rigido come un automa. I suoi fratelli, appena rientrati da scuola, erano entrambi sul letto di Allan davanti a un libro con le figure.
«Ehi, voi» li chiamò, gettando lo zaino accanto al materasso che stava per terra. «Venite, è quasi pronto.»
Tornò in cucina e si sedette per terra a gambe incrociate, ad aspettare il pasto. Baraka continuava a osservarlo, la sua faccia di bronzo non doveva averla convinta appieno. Era sua madre, lei l’aveva visto crescere, lo conosceva.
«Avanti, cosa c’è?»
Gli chiese, afferrando due stracci e usandoli per spostare la pesante pentola proprio al centro del cerchio formato dai suoi figli sul pavimento.
«Se uno pecca ma poi smette, può andare lo stesso in paradiso?»
Aasim ridacchiò alla domanda che forse riteneva sciocca.
Baraka alzò un sopracciglio. «Hai fatto qualcosa di male?»
«Si tratta di Hassan» si affrettò a dire. «Lui ha... conosciuto una ragazza. E vuole farci qualcosa... anche se non sono sposati.»
Gli sembrava una similitudine calzante. Anche le unioni prima del matrimonio erano viste male agli occhi di Dio, era l’esempio più simile che fosse riuscito a tirare fuori in quel momento.
«Oh, mhibu» rispose la donna, «Hassan è musulmano. Non andrà in paradiso comunque.»
Nuru si sciacquò la punta delle dita nella bacinella dell’acqua accanto a lui e poi afferrò un po’ di ugali con le mani.
La risposta l'aveva colpito. Non aveva mai riflettuto sul fatto che anche Hassan e Qaali sarebbero andati all’inferno. Eppure erano brave persone, non avevano fatto niente di male.
Oltre a non credere in Dio, certo. Almeno, nel Dio quello vero.
«Quindi Dio lo odia?»
«Dio odia il peccato, mai il peccatore» rispose Nurain, col tono di chi recita una cantilena imparata a memoria.
«Esatto» commentò Baraka. «Dio ama tutti.»
«Quindi, se avesse peccato con questa ragazza solo una volta, se iniziasse a credere, andrebbe in paradiso?»
«Se Hassan si convertisse e non peccasse più, se fosse davvero pentito di quello che ha fatto, Dio lo perdonerebbe. Lui è buono, è un maestro in perdonare.»
«Quindi non basta smettere di peccare? Bisogna anche pentirsi?»
«Sei sicuro che questa storia riguardi Hassan?» chiese Lela.
Lui la fulminò con lo sguardo. «Certo. Chi altro dovrebbe riguardare, scusa?»
«Non so, pensavo, magari tu e Qaali...»
Sua madre sedò la discussione sul nascere. «Certo che bisogna pentirsi, pentirsi con sincerità. Se smetti di peccare solo per la salvezza, allora non funziona.»
«Mh» rispose Nuru, infilandosi il suo pranzo in bocca. Intinse di nuovo le mani nella ciotola d’acqua, per pulirle.
Il pentimento rendeva tutto più difficile. Non credeva che sarebbe riuscito a pentirsi di aver baciato Raffaele. O meglio, una parte di lui se n’era già pentita, ma un’altra continuava a urlargli di andare a casa sua e ripetere l'esperienza prima di subito.
Anche l'idea che Hassan e Qaali sarebbero andati all'inferno lo turbava. Loro erano persone buone, non avrebbero fatto male a una mosca. Perché Hassan e Qaali sarebbero dovuti andare all'inferno? Lui almeno aveva peccato, loro non avevano fatto neanche questo.
Pensò di andare in chiesa a confessarsi per avere l'assoluzione, ma scartò subito la possibilità. Sapeva che in teoria il prete avrebbe dovuto tenere il segreto, ma quello che aveva fatto era sempre un crimine. Non avrebbe potuto rivelarlo a nessuno.
La sua famiglia cominciò a chiacchierare intorno alla pentola del più e del meno, lui non li ascoltò. I suoi pensieri lo turbavano, intasandogli il cervello, e sospettava non l'avrebbero lasciato andare tanto presto.
Note autrice
Nuru ha in corso una vera e propria crisi, non riesce a capire se è il caso di andare da Raffaele oppure no. O meglio, sa che non è il caso, ma anche che è quello che vuole.
Ha reagito male al bacio nella sua stanza, ma poi è andato da lui ed è stato lui stesso a baciarlo di nuovo, questo perché è confuso e non capisce cosa vuole e cosa prova, portandolo a comportarsi in modo incoerente.
Nuru andrà a casa di Raffaele ad affrontarlo? Cosa succederà?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Intanto, una piccola nota culturale. Tutti reagiscono male quando Nuru dice di aver vomitato perché in inglese “I puked” è una frase forte, schifosa e volgare. In genere per dire che hanno vomitato usano una perifrasi e dicono “I was sick” cioè “stavo male”.
Nel prossimo capitolo Nuru farà una chiaccherata con un personaggio che diventerà sempre più importante per la storia, che gli farà digerire un po' di cose e cambiare almeno in parte la sua vista sul mondo. Secondo voi di chi potrebbe trattarsi? Si accettano scommesse!
P.S.
Oggi è il mio compleanno! Tanti auguri a me! Festeggerò con un pranzo insieme ai miei amici, e poi stasera incontrando un po' di parenti.
Per l'occasione ho anche organizzato, su Instagram, un evento con i compleanni dei miei personaggi e i loro segni zodiacali, con relative compatibilità. Se volete conoscere i compleanni di Nuru, Raffaele, e altre curiosità vi invito a seguirmi, mi chiamo @t.rachemys!
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top