8. Punto di svolta

Quando lui e Hassan si affacciarono all'interno del Chicken Inn, lo sguardo di Qaali si illuminò. Fece loro segno di avvicinarsi e i due la raggiunsero al tavolo, dove aveva già ordinato “il solito”.

Hassan prese posto accanto a Qaali, e lui proprio di fronte. Il locale puzzava di fritto, i tavolini luccicavano del distintivo color rosso vivo, pieno per quel sabato sera.

Quella mattina non erano andati a scuola. Nuru, subito dopo pranzo, aveva controllato il cellulare col cuore in gola e aveva scoperto, deluso, che Raffaele non gli aveva scritto.

Aveva pensato al fatto che era stato il ragazzo italiano a scrivergli sempre per primo, che forse toccava a lui esporsi un pochino, ma non aveva il fegato di farlo.

Tutto questo era molto strano. Raffaele era un suo amico, e lui scriveva ai suoi amici. Non aveva mai avuto problemi a mandare un messaggio a Qaali o Hassan, per esempio.

«Ma che ha oggi?» chiese Qaali, e Nuru nemmeno ci badò.

Hassan sospirò. «Sono giorni che è così. È distratto.»

«Chi è distratto?» chiese Nuru, la testa ancora mezza immersa nei suoi pensieri.

«Tu!» sbottò Hassan. «Si può sapere che ti prende?»

«Niente! Stavo solo pensando a una cosa.»

«E a cosa?»

«A niente, va bene?»

«Stavi pensando a qualcosa oppure no?»

«Intendevo niente di importante!»

«Parliamo di cose serie...» si inserì Qaali, con un sorrisino furbetto. Qaali non aveva la pelle di un delicato color beige come Hassan, la sua era nera come quella di Nuru. Portava un lungo vestito color verde scuro e un velo rosa che le copriva i capelli, lo stesso colore della sua vistosa montatura di occhiali. «Quand’è che lo porti con noi?»

«Chi? Cosa?» chiese Nuru, grato per il cambio di argomento.

«Raffaele, è ovvio! Ti ronza sempre intorno, potresti anche portarcelo, ogni tanto!»

«Basta, me ne vado» sbuffò Hassan, strisciando indietro la sedia. Qaali lo fermò.

«Vuoi smetterla di fare l’idiota?»

«Anche qui no, eh! Ma si può sapere perché siete così fissati con quel tizio?»

«Perché è così carino! L’hai visto?»

Nuru non disse che concordava con la versione di Qaali. Alzò gli occhi al cielo, come ogni ragazzo avrebbe dovuto fare.

Dal bancone richiamarono la loro attenzione, il loro ordine era pronto. Si alzò Hassan, che avrebbe litigato con Qaali per pagare a fine pasto, e portò loro i loro ordini.

Qaali arraffò il suo chicken burger con soddisfazione, scartandolo e riempiendolo di patatine che le erano state consegnate a parte.

Nuru e Hassan si erano divisi un Family Feast: un cesto grande di pollo fritto, due patatine grandi e due insalate di cavolo e carote.

Nuru addentò il primo dei suoi pezzi di pollo fritto, chiudendo gli occhi e godendosi il sapore e la sensazione della panatura che scrocchiava nella sua bocca. «Mhm» commentò, a bocca piena, «amo questo posto.»

«Animale» gli disse Qaali, con un sorriso incredulo.

«Noi dobbiamo ancora finire la terza di FRIENDS» gli ricordò Hassan, che intingeva le sue patatine nella salsa chili con finta aria distratta.

«Mercoledì, no?»

«Sempre che tu non abbia di meglio da fare...» borbottò.

«Che c'è di meglio di FRIENDS, popcorn e spiare i profili dei nostri compagni su Instagram?»

«Ah, ecco cosa fate quando vi vedete da soli, strambi!» commentò Qaali, ridendo.

Hassan alzò gli occhi verso di lui e gli offrì un sorriso di pace. «Allora mercoledì.»

Nuru si sentì in colpa per averlo trascurato, per non essere stato con lui prima della lezione, per aver sempre scelto Raffaele al suo posto. Si ripromise di aspettare con lui l’inizio delle lezioni il lunedì seguente, al massimo avrebbe potuto invitare Raffaele a sedersi vicino a loro.

Si gettò in bocca un pugnetto di patatine fritte e si rilassò. Era con Hassan e Qaali, i suoi amici di sempre, e tutto era sotto controllo. Non c’era nulla che sarebbe potuto andare storto, non a breve, almeno.

La mattina della domenica scorse tranquilla. Fece colazione coi soliti mandazi preparati da Lela e da sua madre, aiutò i fratellini coi compiti, studiò un’oretta per il compito di inglese del giorno successivo, e all’ora di pranzo divorò il suo ugali seduto per terra intorno al piatto con tutti gli altri, prendendo la polenta bianca con le mani e sciacquandosi le dita nella scodella piena d’acqua profumata tra un boccone e l’altro.

Tornò in camera con Aasim e Allan a riposare, quel giorno il sole picchiava sulla casupola di lamiera e la faceva friggere come un uovo.

Aprì la zanzariera giusto il tanto di farci passare il corpo, e si rifugiò sul letto. Il nylon bianco che avviluppava il suo materasso era coperto all’esterno di zanzare e piccoli insetti, libellule e persino qualche scarafaggio. Lui li osservò da dentro la zanzariera, al sicuro, poi tirò fuori il telefono e controllò la carica.

Diciassette percento.

Avrebbe retto sino a mercoledì, se l'avesse usato ancora solo un'ora al giorno.

Tolse la modalità aereo e abbassò la luminosità, per ridurre il consumo di batteria. Andò su YouTube per guardare i suoi soliti travel vlog, viaggi di sconosciuti in luoghi che lui avrebbe potuto visitare solo in quel modo, dietro lo schermo del suo cellulare.

Guardava il video di una ragazza in viaggio a Porto, in Portogallo, quando il telefono gli vibrò tra le mani e lo schermo gli disse Raffaele Classe.

Abbassò la tendina senza neanche pensarci, senza esitare nemmeno l’attimo necessario a fare finta che non stesse aspettando un suo messaggio come avrebbe aspettato l’acqua alla fine di una giornata torrida.

Ciao

Domani c’è il compito di inglese e non capisco niente del programma

Mi puoi aiutare?

Se vuoi puoi restare a cena

O comunque trovo il modo di rendere il favore

Quella lunga sequela di messaggi era scritta in un inglese perfetto, e Nuru ebbe l'impressione che Raffaele si fosse fatto aiutare a scriverla.

I suoi respiri accelerarono e le mani gli tremarono. Senza entrare nella chat, si impose di bloccare lo schermo del telefono e di riflettere. Lo fece e chiuse gli occhi, prendendo dei profondi respiri.

Era chiaro che l’ultima volta che erano usciti, due giorni prima, tra loro c’era stato qualcosa. Nuru non sapeva che cosa fosse stato, ma qualcosa doveva pur essere.

Quel momento in cui si erano trovati ansimanti e accaldati sulla spiaggia, i volti vicini, in cui lui aveva desiderato avvicinarsi ancora e Raffaele gli aveva toccato la gamba, gli aveva detto che lui era un tipo “carino” lo aveva scosso sul serio, aveva continuato a pensarci tutto il giorno, sino a quando era andato a dormire e aveva rivissuto quel momento un milione di volte nella sua testa. Non contento, poi, quell'immagine aveva continuato a tormentarlo anche nei giorni successivi.

La mano del ragazzo su di lui, il suo volto arrossato a un respiro di distanza, gli occhi azzurri fissi nei suoi. La sensazione di vuoto allo stomaco, cuore in gola, la voglia di stare vicini, appiccicati, voglia che vedeva riflessa nel volto dell’altro.

Esalò un respiro profondo e riprese il telefono in mano. Avrebbe dovuto dire a sua madre che usciva ancora per andare ad aiutare lo mzungu a studiare, lo avrebbe fatto. Non sapeva ancora cosa era successo tra lui e Raffaele quel venerdì, ma sapeva che avrebbe fatto di tutto per averne ancora.

Okay, ma non posso restare a cena

Non preoccuparti, non mi devi niente

Sono il tuo tutor, dopotutto

Trattenne il respiro in attesa che lui tornasse online. Restò per qualche minuto col fiato sospeso, quando lo vide spuntare di nuovo trattenne un versetto dettato dall’ansia.

Mandami la posizione, mando l'auto a prenderti

No, così non andava bene, non andava bene per niente. Una macchina del genere non poteva entrare nella slum, l’avrebbero fatta a pezzi, e non poteva mostrare a Raffaele o al suo autista dove viveva, sarebbe stato troppo imbarazzante.

Vivo vicino a scuola, falla venire lì alle cinque

Aspettò di vedere un Perfetto, a dopo sullo schermo e chiuse gli occhi con un sospiro.

Le parole di Raffaele: “sei carino, lo sai?” avevano smosso qualcosa e l’avevano turbato.

Visualizzò ancora quel momento, come fosse successo l’attimo prima.

Si rigirò sul letto e si strusciò sul materasso, con un fastidio tra le gambe che iniziava a farsi insistente.

Chissà come sarebbe stata casa sua. Forse gli avrebbe mostrato il suo letto.

Se l’immaginò sdraiato che lo guardava, si strusciò ancora trovando un po’ di sollievo. Il cuore gli batteva così forte da sentirlo in gola.

Lo sentì addosso, il calore di quel corpo contro il suo, il suo fiato sul collo, la sua voce con l’accento marcato che gli sussurrava complimenti all’orecchio.

Stava andando a fuoco, aveva bisogno di liberarsi, non sapeva come o da cosa. Sfregarsi contro il materasso gli dava sollievo, tanto che soffocò un verso di soddisfazione che sentiva montare in gola.

Chissà che sapore aveva, quella pelle immacolata, chissà cosa sarebbe successo se l’avesse avuta tra i denti, sulla lingua.

Quel pensiero lo spaventò e spalancò gli occhi. Era solo in stanza, ma per qualche motivo sentì come se l’avessero sorpreso a fare qualcosa di brutto. Tra le gambe sentiva un caldo che pulsava, si sistemò ancora sul materasso per scacciare via quella sensazione. Doveva smetterla di pensare a quelle cose strane, doveva smetterla subito, perché si sentiva così? Cosa gli stava succedendo?

Basta, basta, basta, basta. Basta con questi pensieri. Tra l’altro, se non avesse chiesto a sua madre il permesso di uscire, non sarebbe andato proprio da nessuna parte in ogni caso.

Si alzò con stizza e uscì dalla zanzariera che neanche riusciva a camminare dritto, ignorando le il fastidio al basso ventre, e andò nella stanza di Baraka. La sua camera, separata da quella dei tre fratelli da una lastra arrugginita, aveva il suo materasso buttato in terra come quello di Nuru, e i vestiti ammucchiati in delle ceste vicino all'entrata. Una finestrella era tagliata verso l'esterno, con una tenda leggera a coprire quel che c'era da fuori.

La donna era stesa sul materasso, sotto la sua zanzariera azzurra, e sembrava stesse riposando prima di lavorare.

«Mama» chiamò Nuru, vedere sua madre in qualche modo aveva calmato il mostro che gli ruggiva nel petto.

«Mhibu, cosa c'è?»

«Io... vado anche oggi con lo mzungu a studiare. Facciamo inglese. Non dovrei metterci molto.»

Baraka, più sveglia, si alzò a sedere. «Ancora quello mzungu? Ma non sarà quello che ti ha fatto arrivare in ritardo a lezione l'altro giorno?»

«Macchè, quello manco lo conosco!» mentì senza batter ciglio. «Questo è un mio compagno di classe, non c’entra nulla.»

«Beh, non mi piace.»

«Non l’hai mai visto, ma.»

Lei ignorò quella sua risposta alla provocazione. «Dove vive? Come ci arrivi?»

«Mi viene a prendere la macchina.»

«Devi entrare in una macchina con degli sconosciuti da solo?»

«Non sono sconosciuti! È un mio compagno di classe, lo vedo tutti i giorni!»

«Non sono d’accordo con questa storia. Non può venire lui qui? Perché devi essere tu ad andare?»

La motivazione era semplice: si vergognava della sua casa, del suo quartiere, persino della sua famiglia e di sua madre. Non lo disse. «Studiamo più comodi da lui. Nella mia stanza ci sono Allan e Aasim, e disturbano.»

«Non è che aiutare questo mzungu ti distrae dallo studio?»

«Quello è studio.»

Baraka lo guardò, alzando un sopracciglio inquisitore. «E va bene. Ma per cena devi essere a casa.»

«Lo so, mama. Grazie.»

La parte più difficile era stata superata, ora bisognava preparasi. Era un bagno di sudore, si sarebbe fatto una doccia, anche se negli ultimi giorni i suoi fratelli si erano lamentati che ne faceva troppo spesso e poi non restava abbastanza acqua per tutti gli altri. Quella volta avrebbe dovuto fare l’egoista e lavarsi, non si sarebbe potuto presentare a casa di Raffaele in quelle condizioni.

Non chiese aiuto a Lela quella volta, si spogliò e si lavò a secchiate come sempre, con l’acqua fredda che fu di sollievo in quella giornata afosa. Si cambiò cercando vestiti puliti, arraffò il libro di inglese, e mise il suo cellulare in tasca in modalità aereo, attaccato alle cuffie per non farsi disturbare da passanti molesti.

Camminò per la slum senza fermarsi a salutare nessuno, tra nugoli di bambini che correvano da ogni parte, galline, terra polverosa e baracche che riflettevano i raggi del sole, ferendogli gli occhi mentre passava.

Arrivò a destinazione in un mezz’ora di cammino a passo sostenuto, come al solito, e si fermò appoggiando la schiena ai muri della scuola, con dieci minuti di anticipo. Non dovette aspettare molto. Alle cinque in punto il solito macchinone bianco si fermò proprio davanti a lui, col motore acceso.

Si fece coraggio e aprì la portiera. Raffaele non era là come lui aveva sperato, doveva essere rimasto a casa ad aspettare.

«Buongiorno» borbottò l’autista, un uomo che aveva l’aria di essere di origini indiane, vestito con una lunga tunica bianca.

«Buongiorno.»

Non ci fu bisogno che Nuru dicesse nulla, la macchina partì e lui restò in silenzio, a osservare oltre i vetri oscurati, che però rendevano visibile il panorama dall’interno verso l’esterno.

L'auto attraversò la città e imboccò il Nyali Bridge, verso la zona residenziale di Nyali, una piccola cittadina nella città separata da Mombasa da un ponte sul mare, con il suo cinema, i suoi centri commerciali e le sue spiagge per turisti.

Non era sorprendente che la casa di Raffaele si trovasse proprio lì.

L’auto si fermò davanti a una villetta di due piani con giardino, nel punto del quartiere più lontano dal mare.

«Siamo arrivati» disse l’autista, e premendo il pulsante su un telecomando fece aprire un grande cancello davanti alla villetta e infilò la macchina nel giardino rigoglioso, annaffiato da degli spruzzini che gettavano l’acqua a rotazione sul prato.

Nuru, che a casa sua non aveva abbastanza acqua per far fare la doccia a tutti i suoi fratelli, osservò il getto di acqua corrente e cristallina destinato a quel pezzo di terra con una pesantezza nel petto.

Scese dalla macchina, l’autista restò ad attendere a bordo. Attraversò il cortile bagnato e si ritrovò a suonare il campanello di una porta solida in legno massiccio.

La sua casa non aveva la porta ma una tenda a isolarli dal mondo esterno, e pensarci gli fece provare invidia mista a umiliazione.

Ad aprire fu un ragazzino che Nuru aveva già visto il primo giorno di scuola di Raffaele, quello con il neo sotto l’occhio, il quattordicenne.

Il ragazzino lo vide, gli sorrise imbarazzato, poi si voltò verso casa e gridò «Raaaff!» seguito da una frase in italiano che Nuru non capì.

Fu allora che lui spuntò, lasciando Nuru come imbambolato a fissarlo. Sembrava essere ancora – o già – in pigiama, con una maglietta grigia leggera che gli andava un po’ larga e dei pantaloncini viola di cotone. Gli sorrideva sfoggiando la fossetta sulla guancia sinistra, e si avvicinò.

«Nuru!» lo salutò, pronunciando il suo nome come se fosse qualcosa di bello. «Vieni, entra!» disse, poi sibilò qualcosa a suo fratello in italiano, e il ragazzino, strisciando i piedi a terra, si allontanò.

Nuru fece il suo ingresso, guardandosi intorno circospetto. La casa di Raffaele non sembrava grande e ricca come quella di Hassan, che aveva tre piani di attico in un grattacielo in centro, ma era tutto in confronto alla sua. Non che la sua fosse definibile “casa”, comunque.

Raffaele lo guidò per un salotto con due divani, una poltrona di colore blu e una televisione a schermo piatto grande come la lavagna della scuola, e poi imboccò un corridoio ben illuminato e delle scale.

«Staremo in camera mia» disse, e Nuru continuò a seguirlo, rapito e affascinato, chiedendosi cosa si provasse a vivere ogni giorno in un posto così. «C’è molta roba ancora negli scatoloni, scusa.»

Raffaele aprì la porta della sua stanza, e Nuru notò che in effetti era parecchio incasinata. Era grande, più o meno quanto tutta casa sua, e aveva almeno una dozzina di scatoloni accatastati al suo interno. Il letto senza zanzariera - questo perché le zanzariere erano alle finestre, come Nuru non mancò di notare - era a una piazza e mezzo addossato al muro, poi c’erano un’altra piccola TV a schermo piatto con una Play Station 3 posata per terra, un armadio aperto con dei vestiti in vista, più di quanti Nuru e i suoi fratelli ne possedessero in cinque, e alla parete era appeso un drappo a strisce bianche e nere con scritto Juventus, che Nuru sospettava fosse una squadra di qualche sport, forse di calcio.

«Scusa il... non ordine.»

«Non fa niente.»

«Non ho ancora una scrivania, studio sul letto. A te va bene?»

«Sul... letto?»

Raffaele alzò le spalle. «O ci sediamo per terra. Non possiamo andare in cucina, è piena.»

Il “piena” al posto di “occupata” non impedì alla frase di arrivare limpida nel suo significato.

«Il letto va bene» mormorò, sentendo che lo strano affanno di qualche ora prima, quello che l’aveva assalito proprio sul suo letto, era in procinto di tornare.

Raffaele gli sorrise e si sdraiò a pancia in giù, verso il libro che Nuru vedeva sopra il cuscino. Lui si sfilò le scarpe e, con circospezione, lo seguì.

Erano spalla a spalla, protesi verso il libro di inglese, non troppo stretti su quel letto tanto più grande del suo.

Quella vicinanza lo intossicava.

«Cosa non hai capito?»

Raffaele sorrise imbarazzato. «Niente. Non quello che serve per il compito.»

«Non sai neanche l’argomento del compito in classe?»

«No.»

«Oh beh, andiamo bene...» sospirò. «È un compito di letteratura. Henry James e Joseph Conrad, vedi? Sono qui» rispose, senza bisogno di prendere il suo libro, aprendo quello di Raffaele e andando alla pagina designata.

«Henry James e Joseph Conrad.»

«Sì. Questo è Henry James, qui, nella foto. Quello pelato con gli occhi cattivi qua a sinistra.»

«È difficile?»

«No. Cioè, per me no. Ma forse ci sono parole che non conosci. Se incontri una parola che non conosci dimmelo e te la spiego.»

«Grazie di aiutarmi» gli disse. «Mi aiuti sempre, dal primo giorno. Mi hai detto che andavi a scuola qui, ma non era vero. Perché?»

Lo disse in modo fluido, come se avesse già preparato quella frase in precedenza, come se ci avesse pensato su.

«Oh» rispose Nuru, distogliendo lo sguardo. «Io...» mi vergognavo. Non volevo espormi troppo. Ti avevo seguito solo perché eri carino ma tu non dovevi, non potevi capirlo. Sono un casino. «Non lo so.»

«Sai» continuò, a bassa voce, «quando ci siamo guardati la prima volta, ti volevo chiedere una cosa.»

«Visti» interruppe Nuru, che in quel momento cercava di distrarsi con la grammatica. «Non guardati.»

«Visti, scusa.»

«Me lo ricordo. Volevi chiedermi una cosa ma alla fine non me l’hai detta. Cos’era?»

«Volevo chiederti il numero.»

«Perché? Ci eravamo appena conosciuti.»

«Perché sei carino. E sei stato gentile con me. E non conoscevo nessuno...»

«Ora conosci me» gli disse, ricalcando le sue parole di quel giorno.

«Ora conosco te» disse, poi aggiunse, «quello che voglio dirti è che mi piaci.»

Nuru trattenne una smorfia sbigottita e lusingata con grande sforzo, e riportò lo sguardo su di lui. Erano ancora vicini, vicinissimi, più che in spiaggia. Provò ancora il desiderio di allacciarsi a lui, non lasciarlo più andare, azzerare la distanza tra loro.

«Anche tu mi piaci.»

«Non intendo nel senso che intendi tu.»

«E in che senso intendi, allora?»

«Così» disse, poi si sporse in avanti, inclinò la testa di lato e lo baciò. 

Note autrice
Fatto il misfatto!
Pensate che questo risolva tutto? Beh, vi sbagliate, perché questo è l'inizio di una lunga serie di sfortunati eventi, muahahah!
Almeno per ora però vi lascio esultare, dato che questi due gonzi sono riusciti a quagliare.
Nuru capirà finalmente quello che prova per Raffaele, dopo questa bastonata? Più chiari di così non si può, voi dite? Beh, vedrete...
Nel prossimo capitolo ci saranno le reazioni di Nuru e di Raffaele a questo gesto. Intanto spero che questo via sia piaciuto, i commenti sono sempre molto apprezzati!
Piccolo spoiler del prossimo capitolo: si chiama “caduta libera”. Promette bene, no?
Per consolarci dai danni in arrivo, vi omaggio con un chibi molto cute di Nuru e Raff in questo capitolo ~

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