5. Canna da zucchero

Raffaele sembrava ancora uscito dal classico stereotipo del turista bianco. Portava dei pantaloncini al ginocchio, una camicia di lino a maniche corte bianca e un cappellino con visiera. L’unica cosa che mancava per renderlo il perfetto mzungu erano quegli orrendi sandali col calzino che mettevano sempre, al posto dei quali sfoggiava un paio di Nike bianche.

Era tanto perfettino, con la pelle pallida arrossata dal sole, quel sorriso luminoso e la sua divisa da turista europeo che la mente di Nuru ebbe bisogno di qualche istante per resettare i neuroni rimasti in funzione.

Deglutì, si accorse di avere la gola secca. Ma perché diavolo era tanto nervoso, proprio quel pomeriggio?

«Ciao» buttò fuori, riuscendo persino a non balbettare. «Facciamo un giro. Va bene? E intanto ti insegno un po' di inglese.»

Il sorriso di Raffaele si allargò e gli assestò due pacche sulla spalla. «Andiamo! Sono curioso!»

Nuru mantenne presenza d’animo, anche se davanti a quell’entusiasmo ebbe l'impressione che la temperatura si fosse alzata di altri trenta gradi Celsius.

«Non so se hai capito, ma sono il tuo tutor di inglese da oggi. Dovremo fare i compiti insieme.»

«Compiti» bofonchiò Raffaele, con una smorfia.

«Vuol dire...»

«So cosa vuol dire. Non mi piacciono.»

Nuru gli sorrise. «Quelli non piacciono a nessuno.»

«E questo posto?» chiese allora il ragazzo, col naso per aria a osservare.

«Questo qui è Fort Jesus. È un forte costruito dai portoghesi nel sedicesimo secolo» rispose. «Millecinquecento.»

«So il sedicesimo secolo» sospirò, amareggiato. «Non parlo inglese, ma non sono mica stupido.»

«Okay, scusa, era per essere sicuro.»

Iniziarono a camminare per il perimetro del castello, con Nuru che spiegava alcune centellinate informazioni che sapeva a riguardo e Raffaele che ascoltava, anche se non gli sembrò che capisse tutto quello che diceva.

Fort Jesus aveva le mura alte, macchiate di muffa. Aveva un colore giallastro, i cannoni in vista ed era grosso e compatto. Serviva a difendere il porto di Mombasa dagli invasori, e si trovava proprio sul mare, sulla spiaggia dove i bambini giocavano a calcio con una vecchia palla scolorita.

«Qui è sempre così caldo» si lamentò Raffaele, e liberò il primo bottone della camicia con fare teatrale.

Nuru si obbligò con violenza a non far scivolare lo sguardo sulla pelle scoperta. «Settembre è uno dei mesi più freddi. Prova a stare qui a gennaio, poi ne riparliamo...»

«Gennaio?»

«Siamo sotto l’equatore, anche se di poco. A gennaio fa più caldo che a settembre.»

«Più caldo? Più caldo di così?»

«Non tanto. Cinque o sei gradi in più, tutto qui. Siamo vicini all’equatore, non c’è tanta escursione termica tra estate e inverno.»

«Escu... escru... esc...»

«Escursione termica» ripeté, più piano. «È la differenza tra le due temperature. Capito?»

«Sì» rispose subito, anche se Nuru aveva la netta impressione che non fosse vero.

«Non ti devi vergognare di non capire le cose. È normale.»

Raffaele lo guardò per un attimo, sul punto di dire qualcosa, poi distolse lo sguardo e si adombrò. «Tutti parlano e io capisco metà di quello che dicono. Pensano che sono stupido.»

«Nessuno pensa che sei stupido» lo rassicurò. «Io non lo penso di certo.»

Lui sbuffò una risata poco convinta. «Pensi che non so il sedicesimo secolo.»

«Molti non lo sanno, quello.»

«Gli stupidi non lo sanno» borbottò, gli occhi fissi sul pavimento in una smorfia ostinata.

Grande. Erano insieme da nemmeno cinque minuti e aveva già detto la cosa sbagliata. Il suo tono si addolcì. «Scusa se ti ho dato quell’impressione. Sono sicuro che imparerai l’inglese molto presto. È una lingua nuova, è difficile. Io non so l’italiano, per esempio.»

«L’italiano è inutile.»

«Scommetto che è una bellissima lingua. Puoi insegnarmela, se vuoi. Io insegno l’inglese a te e tu l’italiano a me.»

«Ma a te importa?»

«Certo che mi importa» rispose Nuru, che in quel momento avrebbe imparato qualsiasi lingua per avere un briciolo di attenzione, dall’inuit al sumero antico. «Ma vieni! Facciamo un giro al mare! O vuoi entrare a vedere il museo?»

Raffaele sbatté le palpebre. «Hai parlato troppo in fretta.»

«Vuoi andare al mare? O entrare al museo?»

Lui sembrò pensarci su. «Andare al mare.»

Superarono il Forte e arrivarono sulla spiaggia. Raffaele si tolse le scarpe e le calze, le resse entrambe con una mano.

«Io vivo lontano dal mare» spiegò, il suo accento italiano più marcato del solito. «Milano. Nord Italia. Mi piace il mare.»

«Non mi immagino a vivere lontano dal mare.»

Raffaele lo guardò di nuovo come se volesse dirgli qualcosa, poi distolse di nuovo lo sguardo. A Nuru sembrò di sentire una parola che non conosceva, che suonava come un’imprecazione borbottata in italiano. «Spero che imparo presto» sospirò, infine. «Stare zitto non mi piace.»

Mombasa beach era un paradiso, proprio come sempre. I piedi affondavano nella sabbia bianca a granelli sottilissimi, gli occhi che sorvolavano sull’acqua cristallina. L’Oceano Indiano si estendeva sino alla linea dell'orizzonte, piatto come una tavola perfetta, le palme gli alberi immobili nell'aria senza vento.

«È bello» commentò Raffaele dopo qualche attimo di contemplazione. «Prima volta che vengo qui in spiaggia.»

«È molto bello» mormorò in risposta, e quelle parole lo fecero tremare dentro.

Raffaele sembrava un bambino al parco giochi. Si avvicinò all’acqua e la toccò, poi andò a osservare le palme e gli alberi di mango. Aveva un’aura di energia vibrante ed elettrica, che friggeva sottopelle e lo rendeva tanto misterioso quanto... la parola “carino” affiorò di nuovo nel miscuglio dei suoi pensieri, ma lui fu lesto a soffocarla con un cenno del capo.

Lo osservò prendere confidenza con l’ambiente, e si ritrovò a desiderare di parlare la sua lingua, per sentire di più la sua voce. Pensava che se solo avesse parlato quanto voleva l’avrebbe ascoltato per ore senza stancarsi.

Incrociarono dei bambini che giocavano a calcio in spiaggia, e lo sguardo del ragazzo si illuminò. Nuru, che l'aveva guardato per tutto il tempo che Raffaele aveva guardato il mare, notò il cambio di espressione non appena accadde.

Fu a un passo dal chiedergli “ti piace il calcio?” ma lui non gliene diede il tempo. Corse verso i bambini sulla sabbia bruciata dal sole, e si inserì tra loro.

Intercettò subito il pallone nel bel mezzo di un passaggio, e si mise a fare dei palleggi al centro del campo, disegnato con dei bastoncini sulla sabbia.

I bambini urlanti gli furono addosso, un po’ divertiti un po’ indignati, e lui, su un piede solo per fare i palleggi al ginocchio, cadde riverso sulla sabbia di schiena e scoppiò a ridere.

Un bambino riuscì a strappargli la palla di dosso, gli strillò contro e la passò a un compagno, continuando a giocare. Nuru non se ne crucciò. Era troppo impegnato a guardarlo, giù steso sulla sabbia in preda alle risate, i granelli sui vestiti e nei capelli, un sorriso che gli illuminava tutto il volto e la fossetta al lato sinistro della sua bocca che gli segnava la guancia più del solito.

Restò in piedi immobile come pietrificato, senza riuscire a muovere un muscolo e quasi a respirare. Quando le risate finirono, Raffaele riaprì gli occhi azzurri e gli tese la mano. Non sembrò turbato dal fatto che lo stava fissando, lo guardò a sua volta e gli disse: «Aiuto?»

Nuru si decise a svegliarsi dal suo torpore. Si riscosse, avanzò di due passi e gli afferrò la mano tesa, per aiutarlo ad alzarsi. A quel tocco si sentì andare a fuoco, ma cercò di non darlo a vedere.

«Scusa» mormorò Raffaele. «Mi piace giocare a calcio.»

Una volta che fu in piedi, la mano lo abbandonò, e Nuru d’un tratto si ritrovò senza sapere che fare di quell’appendice del suo corpo che in quel momento pareva arroventata.

«Non fa niente» borbottò in risposta, benché sentisse come di aver appena perso dieci anni di vita.

«Cosa quello?» domandò allora Raffaele, più attivo e loquace di quanto non fosse mai stato.

«Cos’è quello» corresse Nuru.

«Cos’è quello?» ripeté allora, si infilò le scarpe saltellando su un piede solo, diretto verso il lungomare fuori dalla spiaggia.

Nuru seguì il suo dito con lo sguardo e li vide. Il Kenya era pieno di quegli edifici di quei tre colori, tutti uno vicino all’altro. Capiva come potessero saltare all’occhio.

Tre fast-food erano uno accanto all'altro al margine della via, uno dipinto di rosso, l'altro di verde e l'ultimo di rosa. Erano adiacenti, con un muro in comune, e sembravano tutti parecchio frequentati.

Chicken Inn - Pizza Inn - Creamy Inn

«Sono tre ristoranti» spiegò Nuru. «Sono sempre insieme, non so perché. Quello è per il pollo fritto, quello è per la pizza e quello là è per il gelato e i milkshake.»

«Pizza?» chiese, il suo volto di nuovo luminoso. Era come un bambino il giorno di Natale, ogni cosa che vedeva era una meraviglia . «Avete la pizza anche qui?»

Nuru accennò una smorfia. «Certo. Come in tutti i posti civilizzati… pensavi che mangiassimo solo gazzelle arrosto?»

Raffaele lo ignorò. Camminò sino alla porta del Pizza Inn, che stava proprio al centro tra i tre, ed entrò. Nuru lo seguì controvoglia.

Si guardò intorno facendo saettare gli occhi da un angolo all’altro del locale. Se il ragazzo gli avesse proposto di mangiare una pizza, sarebbe stato un disastro. Non aveva soldi con sé, non aveva soldi e basta, la sua famiglia non poteva permettersi di mangiare al ristorante, e Raffaele non doveva saperlo nel modo più assoluto.

Non voleva fargli pena come faceva pena a Hassan, anche se lui diceva sempre di no.

Il ragazzo si piantò davanti al menù e si mise a osservare. Più lo guardava, più i suoi occhi si allargavano e la bocca si piegava in un’espressione sconvolta.

«Ananas e pollo marinato?» chiese, con una smorfia vistosa sul volto. «Cheddar, maionese e jalapeños?»

«Sì» rispose Nuru, confuso dalla reazione. «Hai fame? Vuoi mangiare qualcosa?»

Raffaele tirò fuori il telefono e fece una foto al menù, sibilando qualcosa in italiano il cui tono a Nuru non piaceva per niente.

«Ma che fai?»

«Faccio vedere ai miei amici!»

«Che cosa?»

«Il menù. È... non buono!»

«Si può sapere cosa vuole quello mzungu?» bofonchiò un uomo al bancone.

«Scusi, signore, adesso ce ne andiamo!» si affrettò a dire Nuru, per poi sibilare a Raffaele «leviamoci di torno, avanti!»

«Maionese e jalapeños!» ripeté il ragazzo, mentre il compagno lo trascinava fuori da lì.

«Si può sapere cos’hai contro la maionese?»

«Niente! Ma non si mette sulla pizza con gli jalapeños e il cheddar, Nuru! Non si fa! Questo è... questo è un oltraggio all'Italia!»

Pronunciò la parola “oltraggio” con enfasi, come se stesse utilizzando per la prima volta una parola imparata da poco.

«E cosa metteresti tu sulla pizza, sentiamo?»

Raffaele sembrò fare mente locale. «Pomodoro, mozzarella... e altre cose che non so dire in inglese!»

«Un po’ comodo così, non ti pare?»

Raffaele alzò le spalle e gli rivolse un sorrisino furbo che fece venire voglia a Nuru di dargli un pugno, e gli ribaltò le viscere in una morsa che lo mise a disagio. D’un tratto si sentì come se fosse pronto a perdonargli qualunque cosa aveva detto e il suo fastidio evaporò.

Ripresero a camminare sul lungomare, e il fastidio di Nuru si calmò. La spiaggia era frequentata da turisti, come ogni volta che arrivava il periodo da maggio a settembre. I bianchi amavano andare in vacanza in quel periodo, e affollavano Mombasa Beach ogni anno, coi loro cappellini di paglia e le insolazioni che li facevano diventare rossi come tante aragoste.

Anche Raffaele portava un cappellino per proteggersi dal sole, aveva la pelle un po’ arrossata e sembrava davvero venuto da un altro mondo.

«Scusa se ti ho offeso. Non volevo» mormorò, voltato verso il mare.

La sua voce arrivò morbida alle sue orecchie, circospetta, e Nuru scoprì che avrebbe fatto di tutto per non farlo sentire così.

«Non mi hai offeso» rispose, anche se non era del tutto vero.

Incontrarono un venditore ambulante di muwa, col suo carrellino. Raffaele si avvicinò, incuriosito. «Che cosa quello?» chiese ancora.

«Che cos’è quello» scandì Nuru un’altra volta.

Raffaele alzò gli occhi al cielo. «Che cos’è quello?»

«Vende canna da zucchero. Se ne mangia il cuore.»

«Il cuore? Non ho capito.»

«È dolce» disse Nuru, osservando il venditore che si trascinava dietro il suo carrellino. «Prova.»

In quel momento, si immaginò di poterla comprare per lui. Non aveva idea del perché quel pensiero assurdo e intrusivo si fosse impresso nella sua mente, però l’aveva fatto con una prepotenza fastidiosa. Sapeva che non avrebbe mai potuto comprare a quel ragazzo bianco un bel niente, perché un bel niente era quello che aveva, e si ritrovò a desiderare di poterlo fare senza nessun motivo a apparente. Del resto, perché mai avrebbe dovuto pagare per lui? A malapena lo conosceva.

«Se ti do i soldi, me lo compri tu?»

Ancora una volta, Nuru assaporò sulla lingua le parole “non devi darmi niente, te lo offro io”. Ancora una volta se le ingoiò senza pronunciarle, perché non avrebbe potuto.

«No. Devi fare esercizio, e questo è un ottimo sistema.»

«Ma non so come si fa!»

«Sai farti capire benissimo. Ora vai. Se hai bisogno di qualcosa, ci sono io.»

«Vieni con me.»

Nuru sospirò. «Va bene, però non parlo. Devi chiederglielo tu.»

Raffaele camminò titubante verso il carrellino, e quando il venditore li individuò rivolse loro il classico sorriso finto da operatore col pubblico.

«Ciao, ragazzo. Sessanta scellini un tocchetto, cento due. Vuoi provare?»

Raffaele lo guardò con gli occhi sgranati. «Io... non bene inglese. Scusa.»

Il sorriso finto di quell’uomo al carrellino si fece ancora meno sincero. Prese un pezzo di canna da zucchero e lo sventolò davanti alla sua faccia. «Sessanta» disse, poi ne prese un altro e li agitò insieme. «Cento. Quanti ne vuoi?»

Il volto di Raffaele si fece scarlatto. Nuru non l’aveva mai visto così, e riflettè sul fatto di aver esagerato. Forse avrebbe dovuto ordinare lui al suo posto.

«Due» rispose, con voce tremante.

Il sorriso del venditore si fece un po' più genuino e lui scavò quelle canne con un coltello affilato, per infilare entrambi i cuori in un sacchettino. «Cento scellini.»

Raffaele tirò fuori una banconota da mille dal suo portafoglio, lo sguardo dell’uomo si illuminò.

Nuru gli afferrò il polso, sentendo il suo stesso cuore accelerare a quel gesto. «Ha detto cento» gli disse, «quelli sono mille.»

«Oh.»

Lo sguardo che quel venditore gli rivolse avrebbe potuto fulminarlo, ma prese i suoi cento scellini senza fiatare. «Grazie» rispose sbrigativo, poi riprese a trascinare quel suo carretto con l’ombrellino parasole, gridando di comprare la sua merce in tutte le direzioni.

«Devi stare attento coi numeri, “cento” e “mille” sono molto diversi, e non dovresti uscire con tanti soldi con te, e...» gli si mozzò il resto della frase in gola. Raffaele aveva tolto il cuore di canna da zucchero dal sacchetto con due dita e glielo stava porgendo. «Quello è tuo» fece notare, accigliato.

«Ne ho due» rispose l'altro. «Per te.»

«Per me?» disse, afferrando la muwa che gli era stata offerta. D'un tratto si sentì prendere dal panico. «Ho scordato a casa il portafoglio, scusa, non posso accettarla, io...»

«Mangia e zitto» rispose Raffaele, con una scrollata di spalle. «Cinquanta scellini» liquidò, come se non fosse importante.

Cinquanta scellini erano pochi, era vero, secondo i calcoli di Nuru dovevano essere circa quaranta centesimi di euro – aveva fatto una ricerca nella sua ora libera col cellulare, dopo che aveva saputo che Raffaele veniva dall'Italia – ma per lui sarebbero stati troppi comunque. Aveva usato i suoi ultimi venti scellini per accompagnarlo sul matatu giorni prima, non gli era rimasto niente.

Vide Raffaele mettersi in bocca il suo cuore di canna e poi leccarsi le dita con soddisfazione. Nuru deglutì, osservando con tanto d’occhi come l’indice spariva tra le sue labbra.

Sentì che sarebbe potuto svenire da un momento all’altro.

«Mh» commentò il ragazzo, in un sorriso. «Vero, dolce. Tu il tuo?»

Solo in quel momento Nuru si rese conto di avere ancora la muwa in mano. Se la infilò in bocca e la freschezza stucchevole del morso gli invase la lingua.

«Buono?» domandò Raffaele, con un’occhiata complice.

Nuru, che aveva mangiato canna da zucchero troppe altre volte nella sua vita per ritenerlo straordinario, e che tra l’altro in quel momento aveva lo stomaco chiuso dall’ansia, rispose: «Ottimo. Mi piace tantissimo.»

Finirono il giro al lungomare che Raffaele si era sciolto, un pochino. Anche se c'era ancora tanto da vedere – il mercato, le zanne, il waterfront, lighthouse – il ragazzo gli disse che il tempo era finito e che il “guidatore” sarebbe venuto a prenderlo a Fort Jesus a breve.

Tornarono indietro passando dalla strada e non dalla spiaggia come all’andata, con Raffaele che osservava tutto con curiosità e attenzione.

Aspettarono insieme all'ombra del castello che la macchina bianca arrivasse là davanti e, quando successe, qualcosa nel cuore di Nuru si incrinò.

«A domani» gli disse, con una pacca sul braccio scoperto. La sua pelle andò a fuoco là dove l’aveva toccato.

«Ci vediamo a scuola» rispose, e l’osservò allontanarsi.

Lo vide spalancare la portiera di quell’auto di lusso, sedersi e richiuderla dietro di sé. La macchina partì, e Nuru la guardò sparire nel traffico.

Restò in quella posizione per almeno due minuti, gli occhi ancora puntatati là dove l'auto era svanita. Ascoltò i battiti del suo cuore rallentare nel suo petto, nel disperato tentativo di riprendere un po’ di forze.

Non tardò molto, e un angolo delle sue labbra si piegò all’insù, in un primo sorriso incontrollabile. 

Note autrice
Così la prima uscita di Nuru e Raffaele si è conclusa.
Lo ha portato a vedere Fort Jesus e il lungomare, e a Raffaele il giro sembra essere piaciuto, nonostante l'incidente del Pizza Inn.  Non male come primo appuntamento, eheh. Peccato che Nuru non abbia alcuna idea del fatto che Raffaele sta flirtando con lui xD questo potrebbe portare a qualche problemino... ops. Abbiamo anche avuto un assaggio di qualche incompatibilità data dalle differenze culturali e sociali, come l’incidente della pizza o del sedicesimo secolo.
Nel prossimo capitolo, vedremo un piccolo litigio tra Nuru e sua madre, quando lui le rivelerà finalmente l'esistenza del compagno.
Penso di avere spiegato tutto nel testo, non dovrei avere note culturali, ma se mi sono persa qualcosa chiedete pure!
Intanto, vi metto un'immagine di Pizza Inn, Chicken Inn e Creamy Inn all'interno di un centro commerciale, e di una pubblicità di una nuova apertura. I tre vanno sempre insieme, uno accanto all'altro.
Voi ne provereste qualcuno? Io ho provato solo il Pizza Inn, perché dei miei compagni di classe di quando stavo a Mombasa un giorno hanno insistito per farmelo provare. Posso confermare che la loro pizza è atroce, mentre cercando con attenzione si possono trovare ristoranti gestiti da italiani che fanno una pizza ottima, anche se sono rari!

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