4. Messaggi
Arrivò la ricreazione, e vide Raffaele alzarsi spaesato mentre tutti si dirigevano verso il cortile.
La nuova attrazione della classe si ritrovò addosso così gli sguardi malinconici delle ragazze che sarebbero andate in un altro giardino e dei ragazzi che, Hassan compreso, lo guardavano con sospetto e diffidenza.
Fu Nuru ad aiutarlo, ancora una volta. Gli spiegò con calma e pazienza che maschi e femmine si sarebbero separati, e che sarebbero andati nel cortiletto maschile a mangiare qualcosa.
Anche Hassan si avvicinò, per stare con lui in quella ricreazione, anche se non era convinto da Raffaele e quello che rappresentava.
«Allora» gli chiese, ignorando del tutto la presenza dello mzungu che li seguiva come un paperotto avrebbe seguito la mamma, «che ha detto tua madre del ritardo?»
Nuru si sentì avvampare. Sperò che Raffaele non stesse ascoltando, non doveva sapere che a causa sua si era messo nei guai. Il giorno prima gli aveva detto che andava a scuola a Nyali, mentendo per giustificare il fatto che l’avesse accompagnato, e pregò che non se lo ricordasse.
«Niente di che» rispose, alzando le spalle. «Mi ha sequestrato il cellulare.»
«Ah, ecco perché non mi hai risposto» gli disse, sembrava sollevato. «Mi stavo preoccupando, sai?»
«Scusa» mormorò, imbarazzato. «Sai che lei è dura quando ci si mette...»
Hassan iniziò a tirare fuori il suo chapati ripiegato, e Nuru estrasse i suoi soliti mabuyu dalla tasca.
Anche Raffaele aveva qualcosa in mano, e Nuru con la coda dell'occhio notò che era una barretta di Dairy Milk.
Gli altri due ragazzi lo guardarono affamati, la sua una delle merende più ambite dai ragazzi della scuola.
«Che c’è?» domandò titubante, li occhieggiò con sospetto dando un morso alla sua barretta di cioccolato.
«Niente» si affrettò a dire Nuru, distogliendo lo sguardo.
«È una barretta» insistette invece Hassan, tirando fuori il suo chapati dalla stagnola. «Di Dairy Milk.»
«Sì... non va bene?»
Nuru diede una gomitata ad Hassan cercando di essere discreto. «Va benissimo! Non c’è niente che non vada!»
«Posso averne un pezzo?»
Raffaele e Hassan si guardarono per qualche secondo. Hassan non aveva scambiato nessuna parola con Raffaele né alcuna interazione se non guardarlo con sospetto. Lo mzungu resse lo sguardo per qualche secondo, poi si strinse nelle spalle.
«Okay» concluse, con l'aria di chi avrebbe voluto dire di più ma non aveva le competenze linguistiche per farlo.
Nuru si chiese come fosse quel ragazzo nella sua terra, se parlasse più di così. Non poteva esserne certo, ma pensava di sì. Non gli dava l’idea di ragazzo riservato, solo di persona che non riusciva a esprimersi come voleva.
Passò un pezzo di cioccolata a Hassan e Nuru provò un moto d’invidia per il suo amico. Moto d’invidia che svanì non appena Raffaele si voltò e gli disse, in tono noncurante, «Allora, Instagram?»
Capì subito quello che intendeva, anche se Raffaele utilizzava sempre meno parole possibili per far arrivare il messaggio. Riusciva sempre a farsi capire.
“Allora, mi hai aggiunto su Instagram come ti avevo detto?”
Nuru si sentì avvampare di nuovo. «Oh, io...»
«Lui non ha Instagram» rispose Hassan, caustico, masticando il suo cioccolato.
«Oh.»
Nuru aprì la bocca per dire “Posso farmelo, però!” Ma prima che potesse rendersi ridicolo, Raffaele parlò di nuovo.
«Whatsapp, allora.»
Il numero di telefono! Il suo mzungu gli aveva appena chiesto il numero di telefono! L’aveva fatto, si sarebbero scambiati i numeri! Sul serio!
Mantenne un’espressione naturale con più fatica del previsto. «Uh, certo. Dammi il cellulare.»
Il ragazzo glielo passò, Nuru non riconobbe la marca, non era esperto di telefoni, ma sembrava molto più costoso del suo.
Ci segnò sopra il suo numero – ricordandosi il prefisso, +254 – e glielo porse indietro.
Raffaele gli offrì un altro sorriso, compreso di fossetta sulla sinistra, e il cervello di Nuru si perse per qualche attimo.
Si rese conto, in quel momento, di non aver ancora cercato Ahmad con lo sguardo. In genere lo faceva sempre appena arrivato a ricreazione, quel giorno se n’era dimenticato del tutto, come cancellato.
La giornata di scuola trascorse senza intoppi, e lui tornò a casa con le farfalle nello stomaco, e una vocina che continuava a canticchiare nella sua testa: mi ha chiesto il numero, me l’ha chiesto, l’ha fatto, con un motivetto allegro e orecchiabile.
Per tutta l’ora che poté usare il cellulare, saltò da YouTube a WhatsApp per essere sicuro che un numero sconosciuto non gli avesse scritto, col cuore in gola.
L’ora passò e nessuno lo cercò, così lui fu costretto a rimettere il telefono in modalità aereo e lasciarlo dimenticato nel suo zaino.
Pensò che se lo mzungu lo avesse cercato dopo l’orario di uso del suo cellulare non l’avrebbe trovato, ma perché avrebbe dovuto cercarlo proprio quel giorno? Di certo gli aveva chiesto il numero per cortesia, per cercarlo nel caso in cui gli servisse qualcosa.
Eppure si sentiva amareggiato, quasi infastidito. Si sentiva come se Raffaele chiedendo il suo numero lo avesse irretito per poi mollarlo senza niente come un’idiota.
Eppure lo sorprese. Il giorno dopo, dopo la sua doccia gelata e la sua colazione a base di mandazi, arrivò a scuola e trovò Raffaele seduto al suo banco, che lo guardava.
Le sue compagne di classe erano tutte intorno a lui come il giorno prima, a tentare di parlargli e a scherzare, ma non appena Nuru entrò, il ragazzo italiano spostò gli occhi su di lui e ve li piantò.
«Ti ho scritto» gli disse, ignorando le richieste di attenzione delle sue cortigiane. Non disse “ti ho mandato un messaggio”, ma “ti ho scritto” , come le lettere. «Non mi hai risposto.»
Nuru avvampò di nuovo, le guance in fiamme per via dell’afflusso di sangue.
«Mi dispiace. Accendo il telefono solo un’ora al giorno, non ho visto il messaggio.»
Raffaele lo guardò scettico. «E perché?»
Non poteva davvero rispondere che non aveva la corrente e dunque aveva bisogno di risparmiare la batteria. Il vivere nella slum era già motivo di vergogna coi suoi compagni di classe, non avrebbe voluto dirlo a Raffaele. Non poteva saperlo. Avrebbe pensato che lui abitava in una bella casa in centro città come i suoi compagni della scuola privata.
«Mia madre» rispose, stringendosi nelle spalle. «È convinta che faccia male.»
«Okay» rispose Raffaele, doveva essere la sua parola preferita, la usava sempre. Forse era la prima parola che aveva imparato in inglese.
«Cosa mi avevi scritto?» chiese, la curiosità che lo stava rosicchiando vivo.
Non ebbe modo di rispondere. Il professore entrò nell'aula e lui fu costretto a tornare al suo posto, con Hassan che come il giorno prima lo guardava in cagnesco per averlo trascurato.
Quando il professore di inglese si sedette, non chiese a tutti di prendere i quaderni. Disse: «Allora, ragazzo nuovo. Ti stai ambientando?»
Raffaele non parve aver capito che l’uomo si stava riferendo a lui, e il docente scoppiò a ridere.
«Andiamo bene» disse. «No, no, ti serve un tutor. Hai bisogno di qualcuno con cui studiare. Qualcuno si offre volontario?»
Nuru capì di aver fatto un errore ad alzare la mano quando vide che ogni compagna di classe meno che Rehema l'aveva fatto, e che nessun suo compagno l’aveva imitato.
Desiderò abbassarla per non sembrare ridicolo, ma lo sarebbe stato ancora di più, così la tenne in alto e si crogiolò nella vergogna.
«Layla!» esclamò il professore, sorpreso dall’alzata di mano della ragazza. «Pensavo non ti piacesse l’inglese.»
«Il mio è puro altruismo, prof» cinguettò lei, con un sorriso compiaciuto.
Il professore parve avvertire che qualcosa non andava, o almeno in parte la ragione per cui tutte le sue compagne si erano offerte volontarie, così fece scorrere gli occhi per la stanza sinché non trovò quello che cercava: un maschio.
«Nuru!» esclamò. «Perfetto, ci penserai tu. Sei anche il più bravo della classe in inglese...»
Raffaele intanto si guardava intorno con aria perplessa, senza avere un’idea del perché i suoi compagni avessero alzato la mano.
«Signor Fontana!» tuonò il professore, e lui sobbalzò. «Mutuku ti aiuterà con l’inglese e coi compiti. Questo è tutto.»
Lo sguardo dello mzungu si spostò su di lui e lo guardò con espressione indecifrabile. Nuru si sentì esposto a quello sguardo, ma non disse nulla.
Fu solo a fine giornata, quando tornò a casa da scuola e controllò i messaggi sul cellulare, che capì.
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Ieri
I messaggi e le chiamate sono crittografati end-to-end. Nessuno al di fuori di questa chat, nemmeno WhatsApp, può leggerne o ascoltarne il contenuto.
Ehi
Sono Raffaele, puoi salvarti il mio numero se vuoi.
Stavo pensando che potevamo andare a fare un giro stasera, non ho ancora visto niente di Mombasa, e mi piace di vederla con qualcuno.
Solo se vuoi e se hai tempo. Non per forza oggi.
Nuru restò immobile e fissò lo schermo del telefono. Restò a fissarlo per lunghi secondi, con Aasim e Allan che litigavano di sottofondo e il caldo appiccicato alla pelle, come una patina umida.
Lo mzungu nuovo, il suo mzungu, gli aveva chiesto di uscire. Lo aveva fatto in inglese sgrammaticato, ma lo aveva fatto.
Gli aveva chiesto il numero e poi mandato un messaggio, anche prima di scoprire che Nuru doveva fargli da tutor di inglese.
Vide che il suo stato era online e strabuzzò gli occhi, succhiando un po’ d’aria. Pensò in fretta a una risposta per non mostrargli che aveva visualizzato ignorandolo, come Raffaele il giorno prima aveva paura avesse fatto, così si affrettò a scrivere la prima cosa che gli venne in mente.
Oggi
Potremmo* andare a fare un giro, mi piacerebbe* vederla con qualcuno.
Scusa, ma sono il tuo tutor, tanto vale iniziare adesso, ahah.
Certo che possiamo andare a fare un giro. A che ora puoi?
Si diede dello stupido per averlo corretto nel primo messaggio. Quanto sarebbe suonato antipatico? Ma voleva almeno fare finta di prendere questa cosa del tutor seriamente e–
Le spunte divennero blu e lui restò col cuore in gola a fissare la chat, aspettando una risposta.
Sta scrivendo...
Quindi è vero che non mi hai risposto perché accendi il telefono una volta al giorno?
Sì, te lo giuro!
Che vuol dire “giuro”?
Lo prometto.
D’un tratto il ragazzo uscì da WhatsApp e Nuru imprecò. Passò svelto alla chat con Hassan, che gli aveva scritto qualcosa riguardo Qaali e l'andare al Chicken Inn quel venerdì, lui rispose la prima cosa che gli venne in mente senza prestarci attenzione, le mani gli tremavano.
Alle cinque?
Il messaggio che gli arrivò dalla tendina lo esaltò.
Sai come si arriva a Fort Jesus?
No. Ma può portarmi il guidatore.
Guidatore?
L’uomo che guida la macchina di papà.
L’autista*
Scusa.
Non preoccuparti. Ci vediamo lì alle cinque allora.
A dopo. Grazie.
Nuru sospirò e si abbandonò al letto, esausto. Quella breve conversazione l’aveva stancato a livello emotivo, gli aveva prosciugato tutte le energie.
Uscì da WhatsApp ignorando un messaggio di Qaali che gli chiedeva di vedersi quel pomeriggio, e portò il telefono al petto. Prese un profondo respiro, con gli occhi chiusi, iniziando a formare un itinerario nella sua testa.
Fort Jesus, il Waterfront, le zanne forse sarebbero state troppo fuori portata...
Non sapeva perché la prospettiva di far fare a Raffaele un giro della città gli facesse correre tanto il cuore nel petto, non sapeva perché si sentisse svenire solo al pensiero, sapeva solo che gli piaceva, e che non voleva farlo smettere, come una droga.
«Mama!» gridò, uscendo dalla zanzariera che copriva il suo materasso, il caldo umido che lo avviluppava nonostante fosse coperto solo da una maglietta slabbrata e un paio di pantaloncini da casa.
«Dimmi, mhibu. Cosa c’è?»
«Posso uscire questo pomeriggio?»
«Con chi? Hassan?»
«Sì» rispose senza esitare.
Si accorse di aver mentito solo dopo averlo fatto. Perché mentire per una cosa tanto innocente? Perché non dire solo: “Esco con il mio nuovo compagno di classe”? Perché mettere in mezzo Hassan?
Sapere di aver mentito a sua madre lo turbò, soprattutto perché credeva di non avere niente da nascondere. Giusto?
«Certo che puoi andare, mhibu. Salutami tanto i genitori!»
«Sì, mama.»
Chiese a Lela, la più grande tra i suoi fratelli, di aiutarlo a lavarsi come sempre, rovesciandogli addosso i secchi di acqua gelata dopo che lui fu andato a riempirlo alla fontana.
Faceva caldo, caldissimo, e l’acqua fredda gli schiarì la mente mentre si passava la saponetta sulla pelle sfregando per scacciare il sudore che gli si era appiccicato addosso.
Non usciva tanto spesso al di fuori della scuola. Una volta a settimana andava da Hassan a caricare il cellulare, a volte il venerdì o il sabato usciva con Hassan e Qaali e Hassan gli offriva qualcosa da mangiare.
Per il resto stava a casa ad aiutare sua madre coi suoi fratelli, faceva un po’ di compiti, assisteva Nurain nello studio – la sorellina aveva sempre avuto un po' di difficoltà – e guardava Lela preparare la cena per farle compagnia.
Non aveva tanti vestiti adatti per uscire, eppure non se n’era mai curato tanto. Quel giorno si accorse di voler fare buona impressione.
Non sapeva perché, coi suoi compagni e i suoi amici si era arreso, ma il pensiero che lo mzungu potesse vederlo come uno straccione – che poi era quello che era, niente di più e niente di meno – lo imbarazzava più di quanto trovasse lecito.
Si infilò il paio di jeans meno vecchio che avesse, che era solo un po' rovinato a una gamba, e una maglia bianca risalente al suo primo anno di superiori, che gli andava un po’ stretta di collo. Le scarpe erano sempre le stesse, l’unico paio che possedeva, ma almeno era andata meglio a lui che a suoi fratelli minori. A loro erano toccati i suoi vestiti smessi, a lui andava sempre la roba nuova, essendo il più grande.
Arrivò a Fort Jesus alle cinque meno un quarto, e aspettò guardando un gruppo di bambini giocare a calcio sulla spiaggia accanto, torturandosi le mani dal nervosismo.
Il sole picchiava per essere pomeriggio inoltrato, e il cielo era libero da nuvole.
Facevano trenta gradi in quel momento, ma per lui era come se ce ne fossero cinquanta. Si sentiva accaldato e ansioso, sudato nonostante la doccia appena fatta.
Il castello portoghese si ergeva su di lui e gli faceva ombra, mentre stava poggiato con la schiena a una delle mura.
L’aria aveva il profumo della salsedine, della polvere rossa della strada e delle lontane spezie in vendita al mercato. Sentiva lo stridio dei gabbiani e le risate dei bambini che giocavano a pallone nel campetto fai da te proprio accanto al castello, che si rincorrevano e inseguivano e si tiravano delle pallonate non da poco.
Le cinque arrivarono, poi le cinque e dieci. Alle cinque e un quarto iniziò a considerare l’idea che Raffaele avrebbe potuto non presentarsi all’appuntamento, e afferrò il cellulare per sbloccarlo e controllare, in via del tutto eccezionale, se gli avesse scritto qualcosa.
Proprio nel tirare fuori il telefono, però, una lunga macchina bianca si fermò davanti al castello, sulla strada assolata.
Nuru alzò lo sguardo e si infilò il telefono in tasca. La portiera del macchinone si aprì e lui uscì allo scoperto, non sembrava nervoso come Nuru si sentiva.
Lo trovò subito davanti al forte, gli offrì un sorriso e disse una parola di fretta all’autista, che ripartì per la strada trafficata.
Il sorriso offerto gli fece rispuntare la fossetta sul lato sinistro, che Nuru aveva cercato con gli occhi, e aveva trovato con sommo dispiacere del suo stomaco ribaltato.
«Ciao» gli disse, facendo una corsetta per arrivare da lui. «Allora, dove mi porti?»
Note autrice
Eccoci arrivati alla prima – ma non ultima – uscita di Nuru e Raffaele da soli. Sarà un disastro? Andrà bene? Nuru riuscirà a capire perché non può fare a meno di ronzargli intorno? Avrà quantomeno il sospetto di essere stato invitato a un appuntamento?
Lo scoprirete presto. Il capitolo con la loro uscita lo trovo molto carino, quindi spero che martedì vi piaccia.
Invece, passiamo alle note culturali.
Non ho tanto da dire stavolta, se non che la Dairy Milk è una marca di cioccolato britannica molto diffusa e amata in Kenya, paragonabile alla nostra Kinder.
Fort Jesus inoltre è un castello costruito dai portoghesi alla fine del 1500 nonché patrimonio mondiale dell'UNESCO dal 2011. È il sito turistico più visitato della città.
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