19. Umiliazione
«Devi venire con noi. È ora dell’ispezione.»
«Ispezione? Che ispezione?»
La guardia non si degnò di rispondere. Aprì la porta della cella, gli infilò le manette ai polsi e lo strattonò fuori.
Era mattina presto, il sole non era ancora sorto, dovevano essere circa le sei. Attraverso le finestre si vedeva ancora una trapunta di stelle, e là fuori era il silenzio. Molti suoi compagni di cella dormivano ancora, rannicchiati e confusi, e lui diede loro un’ultima occhiata quando sentì la porta sbarrata sbattere con un frastuono dietro di lui e si ritrovò trascinato in corridoio.
In quel momento gli venne in mente il pride di Milano, il suo ultimo giorno felice. Ricordò cosa aveva pensato allora, che i poliziotti che vegliavano sulla parata compissero un gesto assurdo quanto meraviglioso. L’idea che la stessa istituzione che a Milano si era inpiegata per tutelarlo in quel momento lo trascinava mezzo nudo per un corridoio asettico per il solo fatto di essere stato visto insieme alla persona che amava lo stordiva.
«Dove mi state portando? Cosa volete farmi?»
«Stai zitto» sibilò l'altro, che a quanto pareva non aveva alcuna intenzione di starlo a sentire o rispondere alle sue domande.
Nuru si ritrovò a ringraziare che Raffaele non fosse là con lui, ancora una volta. Non sapeva cosa gli avrebbero fatto, ma qualunque cosa fosse non doveva essere piacevole. Sapeva che, se avesse dovuto condividere quel destino insieme a lui, avrebbe protestato per cercare di proteggerlo. Protestare in quei casi non era mai una buona idea, poteva essere pericoloso, per cui il fatto che il ragazzo non fosse lì era una vera fortuna.
Camminarono per il piano terra del complesso carcerario per qualche minuto, poi la guardia che era con lui aprì una porta sulla destra identica a tutte le altre. Lo spinse dentro, Nuru si rese conto che sembrava uno studio medico. Deglutì. Tutto iniziava a essere troppo strano.
«Perché siamo qui? Io sto bene» disse, con un filo di voce.
Non passò che un secondo, e la botta che arrivò alla sua nuca fu così forte da fargli vedere nero per un attimo. Lui barcollò in avanti, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore e di sorpresa. Sentì gli occhi inumidirsi ancora, il fiato mozzo dallo shock per il colpo subito.
«Stai zitto, ho detto. È solo un’ispezione. Il dottore sta arrivando.»
Nuru fu sul punto di chiedere di che ispezione potesse mai trattarsi, ma si trattenne. Il suo carceriere non sembrava incline al condividere quel genere di informazioni con lui, e non voleva che gli arrivasse un’altra botta per aver parlato a sproposito.
«Siediti» ordinò, indicando un lettino da ospedale che stava al centro della stanza. Nuru obbedì.
Sentiva ancora male alla nuca per il colpo di poco prima, e il non avere la maglietta lo faceva sentire esposto. Più di tutto, aveva paura. Il cuore gli rombava nel petto, era sul punto di lacrimare. Dondolava le gambe dal nervosismo, e osservava con ansia la guardia che pareva fare caso a tutto meno che a lui.
Prese un profondo respiro e tentò di calmarsi.
Raffaele si trovava fuori da lì, con Enrico, al sicuro. Non potevano fargli nulla, tutto sarebbe andato a posto. Che facessero di lui quello che volevano, non avrebbero potuto toccare la persona che amava, era l’unica cosa importante.
Decise di soffermarsi sull'ambiente, per distrarsi un po’. Accanto al letto su cui era seduto c’era quella che sembrava una macchina per le ecografie; una tendina bianca che in quel momento era ritirata serviva a oscurare il lettino dalla porta; un tavolino di plastica bianco aveva su degli strumenti che Nuru non riconobbe, forse ancora per le ecografie; una sediola era vicino al tavolo in plastica, anch’essa bianca. I muri erano un po’ ingialliti, le piastrelle grigio chiaro spaccate in alcuni punti. L’ambiente non sembrava affatto sterile, e lui si chiese col cuore in gola cosa lo aspettava.
Sentì che iniziava a farsi prendere dall’ansia, il cuore che gli batteva tanto forte da sembrare in gola. Cercò di controllare il respiro, per non far vedere alla guardia quanto era nervoso.
Non passò troppo tempo che un uomo in camicia e pantaloni eleganti entrò nella stanza, un tipo bassottino dai capelli ritirati sulla fronte. «Tu fallo spogliare» disse sbrigativo al poliziotto che in quel momento lo guardava in cagnesco senza parlare. «Io infilo il camice e arrivo.»
«Hai sentito, no? Spogliati.»
Nuru lo guardò, gli occhi spalancati. «Spogliarmi?»
«Sì. Togliti tutto.»
«Ma… perché?»
«Te l’ho detto. Per l'ispezione. Dobbiamo verificare che ci sia stata l’irregolarità.»
«Che irregolarità?»
«Togliti tutto, avanti, altrimenti dovrò strappartelo di dosso e poi ti riporto così dagli altri, ti avviso.»
Nuru con un saltello fu in piedi. Era già mezzo nudo, cosa voleva ancora quell’uomo? Cosa avrebbero dovuto controllare?
Si sfilò le scarpe coi talloni. Sarebbe stato difficile spogliarsi con le manette, ma almeno aveva le mani davanti al corpo e non dietro, il che gli permetteva di slacciarsi il bottone dei jeans.
La guardia si avvicinò e lui si irrigidì. Gli abbassò i pantaloni con malagrazia, e Nuru si lasciò sfuggire un verso di protesta. L’uomo gli afferrò l'elastico dei boxer e Nuru si ritrasse.
«Che cazzo fai?!» gli sfuggì dalle labbra.
«Devi spogliarti.»
«Non ci penso neanche!»
Non servì a molto. Nonostante i lamenti di Nuru e il suo divincolarsi, anche i boxer vennero abbassati e sfilati, e lui si ritrovò nudo davanti a quell’uomo che lo osservava con freddezza e lieve disgusto.
«Che succede? Che volete farmi?»
La guardia lo spinse sul lettino, e lui si ritrovò seduto. I jeans e l’intimo gli scivolarono in terra, lasciandolo scoperto in ogni sua parte.
«Sdraiati. Il dottore sta arrivando.»
«Eccomi!» fece una voce, e il signore di poco prima spuntò ancora, ora coperto da un camice verde chiaro e una mascherina chirurgica. Nuru si piegò su se stesso e si coprì tra le gambe con le mani ammanettate. «Bene, vedo che sei già pronto. Sdraiati, avanti.»
Due mani lo afferrarono per le spalle e lui si ritrovò con la schiena sul materasso.
«Togli le mani e apri le gambe. Ci vorrà un attimo. Dobbiamo solo controllare se c'è stato un rapporto .»
Fu allora che capì. Era così assurdo, così fuori da ogni logica che non ci aveva nemmeno pensato.
Doveva essere uno scherzo, non c’era altra spiegazione. Non potevano star controllando davvero se Raffaele…
La guardia afferrò le manette e gli tirò via le mani, il medico gli allargò le gambe. In quel momento si congelò. Protestare non avrebbe avuto senso, lo avrebbero picchiato e avrebbero ottenuto comunque quello che volevano. Si abbandonò al lettino, gli occhi spalancati verso il soffitto, non più padrone di sé.
Aveva le guance in fiamme, umiliato e inerme, e quando il medico afferrò una piccola torcia per osservargli tra le gambe non aveva neanche più voglia di piangere. Si lasciò esaminare come una bambola, lasciò che sezionassero le sue parti più intime senza dire una parola, che lo trattassero da animale, proprio come si sentiva. Senza più anima né cuore, un mucchio di carne da studiare come si studia una bestia rara, priva di umanità.
Le mani del medico gli allargarono le natiche e sentì qualcosa di lubrificato e gelido che gli entrava dentro. Guaì dalla sorpresa e dalla vergogna, lo ignorarono.
«Qui non vedo niente di insolito» commentò il medico. «Ma non mi basta per determinare se c’è stata l'infrazione. Devo esaminare l'altro.»
«L’altro non c’è. C'è solo questo qui.»
«Beh, andate a prenderlo. Devo esaminarli entrambi, altrimenti come faccio a sapere che il rapporto è stato consumato? Una sola ispezione non prova niente.»
«Non possiamo trattenerlo, ma vedrò che si può fare. Forse si può convocare per un controllo.»
«Dev’essere fatto subito, il prima possibile.»
Il pensiero di Raffaele portato laggiù, spogliato dei vestiti e della dignità e sottoposto all’ispezione riuscì a fare breccia sotto tutti i suoi strati di nulla.
Gli bruciarono gli occhi e cominciò a lacrimare. Era colpa sua, tutta colpa sua, quando aveva accettato di stare con Raffaele aveva accettato il rischio, ed era stata una cosa stupida. Aveva messo in pericolo sé stesso e, quel che era peggio, la persona a cui teneva più al mondo.
Avrebbe dovuto dire di no, che era una cosa sbagliata, avrebbe dovuto dar retta a sua madre.
«Puoi rivestirti.»
Riuscì a captare il senso di quelle parole, distanti e ovattate, così si alzò a sedere. Era come svuotato, quasi come quando prendeva una dose, e si accorse che gli mancava. Una pasticca gli avrebbe fatto bene in quel momento, avrebbe fatto passare quell’angoscia serpeggiante che provava.
Scese dal lettino che sembrava immerso da una nebbia di latte, era tutto fumoso e sbiadito. La guardia lo aiutò a rivestirsi e lui infilò i boxer e i jeans con difficoltà a causa delle manette, dovettero allacciargli il bottone perché non era più in grado di badare a sé stesso.
Non si asciugò le lacrime, sarebbe costata troppa fatica, e non riuscì neanche a vergognarsi di essersi fatto vedere così. Quegli uomini l’avevano spogliato, percosso, umiliato, e lui si sentì piccolo e vuoto, stordito, in balìa degli eventi e alla loro completa mercé. Se l'avessero picchiato ancora, deriso, insultato, non avrebbe reagito, avrebbe accettato tutto in modo passivo.
«Muoviti, avanti. E smettila con le sceneggiate, tanto lo so che ti è piaciuto, li conosco io quelli come te.»
Venne trascinato fuori da quella stanza che non aveva più detto una parola. Seguì la guardia, attraversò il corridoio senza vederlo, e quando in cella lo liberarono ancora delle manette non si massaggiò i polsi indolenziti.
Gli altri suoi compagni lo osservarono dubbiosi, ma nessuno gli chiese nulla. Se l’avessero fatto, lui non avrebbe risposto. Si accovacciò per terra e si rannicchiò, nascondendo il volto contro le ginocchia. Le lacrime gli si erano asciugate sul viso, lo sentiva tutto appiccicoso, e aveva addosso una sensazione di sporco impossibile da lavare via.
Passò qualche ora, gli consegnarono un pacchetto di crackers e una mela, lui non ne mangiò. Non bevve neanche dell’acqua, sapeva che poi sarebbe dovuto andare in bagno, e non voleva avvicinarsi al gabinetto che stava dentro la cella a vista guardie. Era stato umiliato a sufficienza.
Si avvicinò una guardia di nuovo, lo chiamò e lui si trattenne a stento dall’urlare dal terrore e dalla stizza.
«Mutuku, Nuru.»
Si irrigidì dal terrore, paralizzato.
«Mutuku, Nuru» ripeté la guardia, annoiata.
«Sono io.»
Era la prima volta che pronunciava qualche parola dall’ispezione, aveva la bocca impastata. Non voleva andare dove lo avrebbero portato, non voleva spogliarsi di nuovo, farsi prendere a botte perché non rispondeva o perché parlava troppo. Non voleva che frugassero dentro di lui, riducendolo a un pezzo di carne senz’anima.
Voleva solo prendere una pasticca e che finisse tutto.
«Puoi andare» disse l’uomo, aprendo la porta della cella e facendo cenno di passare.
«Posso... andare?»
«Vuoi un disegnino?»
Nuru lo guardò con gli occhi spalancati e umidi. Si alzò e uscì, titubante, quelli che aveva intorno non ebbero da ridire con il suo rilascio, per quella volta.
Fuori dallo stanzino gli riconsegnarono il portafoglio e il cellulare che gli avevano requisito al momento della perquisizione ma non il coltello, poi, senza una spiegazione, lo lasciarono andare.
Lui attraversò il giardino di terra battuta ed erba secca, spaesato, finché oltre il cancello non intravide la macchina bianca dei Fontana. Il suo cuore si gonfiò dal sollievo.
Percorse i metri che lo separavano dall’auto di corsa, e quando salì a bordo venne investito dall'aria condizionata.
«Nuru, figliolo, come stai?»
Raffaele non si vedeva da nessuna parte, era stato Enrico a parlare. Sembrava più sistemato del giorno prima, e molto più in sé.
«Signor Fontana...»
«Enrico» corresse lui.
«Enrico, cosa... cos’è successo?»
«Cos’è successo a me? Cos’è successo a te, piuttosto. Mi guardi come se avessi visto un fantasma.»
«Oh, io...» lo guardò, senza vederlo. Aveva ancora la vista annebbiata, la testa leggera. «Io...»
La macchina partì. Era al sicuro, sicuro, sicuro.
«Ti hanno fatto qualcosa, ragazzo?»
«No» rispose, senza batter ciglio. «Forse. Non mi va di parlarne.»
«Se ti hanno fatto qualcosa devo saperlo. Dobbiamo sistemarli per bene, questi animali.»
«Ti prego» sussurrò, distogliendo lo sguardo. «Ti prego, non voglio parlarne. Per favore. Non adesso.»
Enrico gli posò una mano sulla gamba, Nuru sobbalzò. Al vederlo a disagio, l’uomo la ritirò, borbottando delle scuse.
«Perché sono fuori? Che è successo?»
Enrico si schiarì la voce. «È successo che appena ho tirato Raffaele fuori da lì l’ho portato in ospedale a farsi controllare la gamba, poi sono andato in ambasciata. Ho chiamato il nostro ministero degli esteri e ho spiegato cos’era successo.»
«Il... ministero?»
«Tu sei uno studente del Politecnico di Milano, e ti hanno trattenuto per quelli che l’Italia considera futili motivi, così hanno spinto per il tuo rilascio. Anche la stampa è stata informata, ti avviso, la notizia è balzata ovunque.»
«L’Italia mi ha fatto rilasciare?»
«Ti hanno offerto un visto da rifugiato politico. Potrai tornare a Milano.»
«No, non posso, io... i miei fratelli...»
«I tuoi fratelli sono tutti minorenni a tuo carico. Dove ti sposti tu si spostano loro. Non devi preoccuparti di questo.»
«Lela!» esclamò, il pensiero riuscì a svegliarlo di colpo. «Lela, Muzzamil se la sarà presa con lei! Devo tornare a casa!»
«Muzzamil? Chi è Muzzamil?»
«Il mio capo. Lei mi ha... mi ha messo in un brutto giro. E io ci sono stato, ho sbagliato... ma Muzzamil mi ha detto che se ne fossi uscito... che se ne fossi uscito lei avrebbe dovuto pagare.»
«Ora ti porto a casa mia così ti dai una sistemata, Raffaele vuole vedere come stai. Non sai quanto ha insistito per venire a prenderti, ma io non ho voluto. Dopo pensiamo a tua sorella.»
Nuru tolse la modalità aereo dal telefono e la chiamò, nessuna risposta. Sentì i battiti che acceleravano, i respiri farsi affannosi.
«Andrà tutto bene, ti accompagno io da tua sorella, okay? Andiamo insieme.»
«No, no, devo andare da solo. È pericoloso, devo andare da solo...»
«Odio chiederlo ma... dobbiamo chiamare la polizia? Capisco che tu non voglia rivolgerti a loro dopo quello che è successo, ma se tua sorella è in pericolo...»
Nuru pensò con orrore a far avvicinare uno di quegli agenti a sua sorella. «Sarebbe solo peggio. Fidati.»
Quando la macchina parcheggiò davanti alla villa, Raffaele era già fuori in giardino ad aspettare. Non appena Nuru scese dal suo posto sul sedile posteriore lui zoppicò nella loro direzione, con una stampella nuova di zecca.
Nuru gli andò incontro di corsa, entrò nel giardino e fu davanti a lui in un attimo.
«Scusa, volevo venire a prenderti, ma papà ha insistito per farmi restare a casa, non sono riuscito a seguirlo, non in queste condizioni.»
«Non fa niente. Non fa niente, tu come ti senti?»
«Sto bene. Il medico ha detto che lo sforzo ha rallentato la guarigione di qualche mese, ma sto bene. Tu? Ti hanno fatto qualcosa?»
Nuru pensò a cosa rispondere. Pensò di mentire a Raffaele, dirgli che non gli avevano fatto nulla. Del resto, a parte qualche percossa, non gli avevano fatto del male.
Eppure, non sentiva che non fosse successo niente. Si era sentito esausto, confuso, impaurito, umiliato, e così scelse di non dire nulla. Si avvicinò a lui, e crollò in pianto sulla sua spalla.
Raffaele iniziò ad accarezzargli la schiena, piano, come se avesse paura di fargli del male. Gli stampò un bacio sulla tempia, e Nuru fu immerso nel suo profumo, profumo di casa, e quando iniziò a sussurrargli parole di conforto all’orecchio la sua voce riuscì a calmare i battiti impazziti che sentiva nel petto.
«Sei qui adesso, non ti possono più toccare. Ora vieni a casa con me. Non possono più farti nulla, non ti faranno più niente, hai capito?»
Lui continuò a singhiozzare là nel giardino, le parole di Raffaele che lo cullavano anche se aveva smesso di ascoltarle, la sua voce che da sola riusciva a tranquillizzarlo.
«Devo andare... devo andare da Lela» riuscì a gracchiare, perché non si sentiva in grado di fare alcunché ma era troppo importante. «Muzzamil le avrà fatto qualcosa. Aveva detto... aveva detto...»
«Ti accompagno da lei. Andiamo subito, ti porto qualcosa da mangiare lungo la strada, starai morendo di fame.»
«No, vado da solo. È pericoloso, e tu sei ferito, non sei nelle condizioni. E poi se ti lascio venire con me tuo padre mi ammazza.»
«Dove vai tu vado io.»
Nuru lo guardò allora, e per la prima volta riuscì a metterlo a fuoco. Aveva l’aria sbattuta, le occhiaie, era magro da fare spavento e malfermo sulle gambe.
Era tanto bello che gli fece male fisico.
«Non cambi mai» gli disse, poi si sporse in avanti e lo baciò con forza, per tanti secondi, come un grido che aveva represso troppo a lungo.
Quando si separarono, Nuru riaprì gli occhi e Raffaele era ancora là. Non si era trattato di un sogno, era una persona vera, proprio davanti a lui.
Non sapeva se gli avrebbe mai raccontato cos’era successo in quello studio medico, non sapeva se avrebbe aperto quella ferita fresca, se avrebbe mai mostrato quella parte piccola e terrorizzata di sé.
Sapeva che, se l’avesse fatto, avrebbe ricevuto solo amore incondizionato e indignazione, nessun giudizio, e questo era quello che contava.
Raffaele gli offrì un sorriso di affetto e comprensione, poi parlò. «Allora, partiamo? Lela non si salva da sola.»
Note autrice
Sino all'anno 2018, quando questa pratica è stata – per fortuna – ritenuta incostituzionale, in Kenya era procedura comune effettuare ispezioni rettali ai sospetti omosessuali per verificare i segni di un eventuale rapporto sessuale. La storia è ambientata nel 2015, quindi Nuru non se l'è scampata.
È una barbarie, ed è una fortuna che non sia più la prassi – almeno, non in modo ufficiale – ma c'è ancora molto da fare e i passi che sono stati fatti non sono neanche lontanamente abbastanza.
Sono consapevole del fatto che ho sottoposto Nuru a quanto c'è di peggio, forse non si rende in grado neanche lui di quanto è grave quello che ha subito, e ne porterà i segni a lungo. È pur vero, però, che questa storia deve sensibilizzare si certe tematiche ed è giusto non censurare quelle che sono – o erano – amare realtà.
Ma veniamo ai lati positivi. Ora Nuru ha il visto di rifugiato politico, può tornare in Italia anche senza la borsa di studio, e può portare i fratelli con sé.
La notizia ha fatto scalpore, la immagino un po' sulla portata della storia di Silvia Romano – la ragazza rapita in Kenya per cui l'Italia ha pagato il riscatto – o Patrick Zaki – lo studente egiziano dell'università di Bologna che è stato arrestato in Egitto per attivismo e l'Italia ha fatto rilasciare.
Vedremo un po' se Lela sta bene – so che la odiate, ma ha sedici anni ed è molto traumatizzata, capite un po' questa tizia – e se i nostri riusciranno a tornare a Milano sani e salvi.
Il prossimo capitolo sarà l'epilogo – che è stato già pubblicato, non perdetevelo – spero vi piaccia!
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