18. Catarsi
Appena tre giorni dopo, gli diedero una notizia gli fece gelare il sangue nelle vene.
«Nuru, c’è uno mzungu che vuole la roba. Ha chiesto di te.»
«Uno mzungu?»
«Sì, con la stampella, non so che ci faccia qui. Gliene serviva parecchia, così l'hanno portato da Muzzamil.»
Merda. Merda, merda, merda.
Non Raffaele da Muzzamil, cosa cazzo ci faceva lì? Cosa gli avrebbe detto? E Muzzamil? Che gli avrebbe fatto? Non poteva lasciare che si avvicinasse a lui, non poteva.
Uscì di casa di corsa, lasciando Lela a badare ai fratelli. Non sentì neanche i polmoni scoppiare e le gambe fargli male, sapeva solo di dover fare presto, sapeva solo che doveva correre come non aveva mai corso in vita sua.
La baracca di Muzzamil non era troppo lontano da casa sua, più verso il centro del quartiere, inglobata dalle altre baracche di lamiera e dalla terra bruciata e dal fango.
Nuru arrivò là in pochi minuti, col cuore che gli bruciava nel petto, ansimante, la milza che gli doleva per la corsa. Entrò in casa di Muzzamil senza nemmeno annunciarsi, ruzzolando all’interno, e lo vide. Aveva sempre la sua stampella e sempre il braccio legato al collo, stava tra due degli uomini di Muzzamil e lui gli stava parlando.
«Che succede?» ansimò, le guance bollenti dopo la corsa forsennata.
Muzzamil portò gli occhi su di lui. Sorrideva, il che non era mai un buon segno. «Questo mzungu è tuo amico?»
No. Quello mzungu era l’amore della sua vita. «Tutto a posto. Lui è con me.»
Sentì il coltello bruciare nella tasca dei jeans, e pensò per la prima volta che avrebbe potuto usarlo sul serio.
Raffaele sembrava perso, era più pallido del solito, e davanti a Muzzamil sembrava ancora più magro. Lo guardava con gli occhi azzurri spalancati dal terrore.
«Venendo ha detto di volere venti grammi di roba, ma ora è saltato fuori che non ha i soldi per pagarla.»
«Mi hanno rubato tutti i soldi. È stato lui a farlo» protestò, indicando Yusuf, uno dei favoriti di Muzzamil.
«Io non ho fatto proprio niente.»
«Invece sì. Mi hai minacciato col coltello, mi hai preso il portafoglio e mi hai portato qui.»
Yusuf alzò le spalle. «Mi sembra solo strano che uno mzungu con la gamba rotta sia venuto sin qui sapendo da chi comprare, a chiedere tutta quella roba. Pensavo valesse la pena indagare un po’.»
«Garantisco io per lui» intervenne Nuru, prima che gli animi si scaldassero. «È pulito.»
Muzzamil iniziò a giocherellare con la pistola sul tavolo sbilenco. «Nuru, tu non puoi andare in giro a dire ai turisti quello che fai, lo sai, vero? Se qualche voce esce da qui e si può risalire a me...»
«Non è un turista e non dirà nulla. Te lo giuro. È una persona di fiducia.»
«Pensa bene a quello che dici. Se c’è il rischio che spifferi qualcosa non posso lasciarlo uscire da qui, lo capisci, vero?»
Non sarebbe uscito neanche lui, senza Raffaele. Se avessero voluto fargli del male… cazzo, se avessero voluto fargli del male avrebbero dovuto ammazzarlo prima.
Lo guardò, notò che era impallidito ancora. Non avrebbe potuto lasciare che lo toccassero. Non l’avrebbe permesso.
Prima pensò di tirare fuori il coltello e minacciarli, ma erano troppi, Raffaele era ferito, non sarebbero andati da nessuna parte in quel modo. Pensò di iniziare a pregare, allora, di supplicare di non fargli niente, che lui non avrebbe parlato, lo giurava su tutto quello che aveva, che ammazzassero Nuru al suo posto per il disturbo, tutto ma non fargli del male.
Con Muzzamil, però, le suppliche non sarebbero servite. Serviva solo fare la voce grossa, così la fece.
Si schiarì la voce e parlò. «Ho detto che è pulito ed è pulito» disse, non sapeva neanche lui dove avesse preso il fiato per dire quella frase con voce ferma. «Puoi fidarti di me.»
Le dita dell’uomo lasciarono la pistola, e Nuru sentì Raffaele sciogliersi in un sospiro di sollievo. «E sia. Ma se qualcuno viene a cercarmi o vengo a sapere che il mio nome è uscito da qui, sai cosa succede a tua sorella. Quindi farai bene a fidarti davvero di questo mzungu del cazzo.»
«Sì.»
«Potete andare.»
Nuru afferrò Raffaele per il braccio sano e lo trascinò fuori, ancora stordito dalla paura. «Si può sapere che cazzo fai?» sibilò, mentre quello gli arrancava dietro zoppicante.
«Non sapevo come contattarti, non sapevo dove fosse casa tua, così sono venuto in zona e mi sono messo a cercare roba facendo il tuo nome.»
«E ti sei messo a cercare venti grammi?»
«Non so quanta se ne compra di solito!» protestò.
«È pericoloso, cazzo! Quel tipo è un tipo pericoloso. Non potevi... non potevi chiedere a Hassan il mio numero e basta?»
«Pensavo avessi litigato con Hassan.»
«Abbiamo fatto pace. Più o meno.»
«E io come facevo a saperlo?»
«Non è questo il punto! Non puoi piombare qui come se niente fosse, è pericoloso! Non posso lasciare che ti succeda qualcosa, capito?»
Lo trascinò in casa in malo modo e lui si lamentò, ancora dolorante.
Lela, che stava preparando da mangiare, li osservò col sopracciglio alzato, perplessa. Nuru nemmeno la salutò, entrò in camera sua e richiuse il lenzuolo dietro di lui.
«Questa è casa tua?» domandò Raffaele, incredulo.
«Ancora peggio di quello che pensavi, eh?» rispose, con un mezzo sorriso di scherno.
«Scusa, non volevo offenderti...»
«Tranquillo, lo so che è una topaia. Non ho bisogno che me lo dica tu.»
«Mi dispiace, io...»
«Siediti» ordinò, brusco. Aveva ancora l’adrenalina a mille per quello che era successo, tremava e non riusciva a calmarsi.
Se gli fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Oddio, meno male che non era successo niente. C’era andato talmente vicino, stava male solo a pensarci. Aveva bisogno di una pasticca o sarebbe svenuto dalla paura.
Raffaele obbedì, e con goffaggine scostò la zanzariera dal suo materasso e si lasciò cadere su di esso.
«Perché sei qui?»
Lui si strinse nelle spalle, a disagio. «Domani torno a Milano. E prima di andare via volevo dirti una cosa.»
«Che cosa?» chiese, asciutto, cercando di scacciare la paura e la rabbia. Andava tutto bene. Raffaele era al sicuro, insieme a lui, nella sua stanza. Andava tutto bene.
«Giorgio, il tipo con cui sto... lui mi piace tantissimo.»
La frase gli diede un pugno allo stomaco. Fece una smorfia. «Ehi, come ti–»
«Fammi finire! Non sai neanche cosa ho da dire!»
«Se vuoi parlarmi di quanto sei felice con lui ti dico già che non mi interessa.»
«Bene, perfetto. Ora me ne vado allora» sbuffò, cercando invano di alzarsi dal letto con una gamba sola.
«Non dire idiozie, ormai sei qui e mi dici quello che mi devi dire. Per farlo ci sei anche quasi rimasto secco...»
Raffaele alzò gli occhi al cielo, ma si arrese. «Lui mi piace tantissimo...»
«Ancora?»
«Vuoi sentire il mio discorso oppure no?»
«Vai avanti. Ma giuro che se lo dici ancora una volta...»
«Lui mi piace, sì» disse, deciso. «Lui mi rende felice, anche. È una brava persona, si vede che tiene a me.»
Nuru stava per sbottare di nuovo. Stava per dirgli che aveva cambiato idea, non voleva ascoltare, non riusciva ad ascoltare. Poi Raffaele continuò.
«Ma non lo amo. Non potrei mai amarlo, perché io amo te. Mi sono innamorato di te due anni fa e non ho mai smesso, mai. Ci ho provato, non ci sono riuscito. Quindi se vuoi tornare con me... se vuoi tornare con me la prima cosa che farò domani, atterrato a Milano, sarà andare da lui e dirgli che è finita. Tra te e lui sceglierò sempre te. Ma se non hai cambiato idea, se non credi che dovremmo stare insieme, sappi che non lo lascerò. Non rinuncio alla possibilità di andare avanti solo perché tu non mi vuoi più e io ti amo ancora come un coglione.»
In quel momento il mondo si fermò, la terra con un gran scossone smise di girare. Nuru lo guardava fisso, non sapeva cosa dire, e lui era diventato rosso in faccia, scarlatto.
«Non te l’avrei detto, davvero, ti avrei lasciato in pace. Lo capisco che non hai tempo per me, non voglio insistere, sul serio. Ma poi tu a casa hai detto… mi hai detto che mi amavi e io ho pensato…»
«E tu che ne sai di cosa ti ho detto?»
Lui alzò le spalle. «Quando sei uscito l’ho cercato con Google Traduttore.»
Nuru sbatté le palpebre, incredulo. Era sempre così quando qualcuno gli ricordava l’uso della tecnologia, lui non c’era mai stato abituato.
Visto che non diceva nulla, Raffaele aggiunse. «Io ti voglio, davvero. Voglio ancora provare a stare con te. E tu? Vuoi provare ancora a stare con me?»
Nuru non riusciva a credere che Raffaele gli avesse davvero chiesto una cosa del genere, ma riuscì a ordinare al suo corpo di fare qualcosa. Cadde in ginocchio di fronte a lui, a corto di parole, poi fece quello che sognava di fare da mesi. Gli passò la mano dietro la nuca, tra i capelli, si sporse in avanti e lo baciò.
Raffaele schiuse le labbra e lo accolse, familiare e confortante, lasciando che la lingua di Nuru si scontrasse con la sua.
Sentì che emetteva un versetto di apprezzamento, che andò a finire dritto tra le sue gambe.
Nuru si piegò su di lui sinché Raffaele non posò la schiena sul materasso e lui gli salì su a cavalcioni.
Continuò a baciarlo, famelico, e l’altro a rispondere con la stessa foga.
Sentì la mano di Raffaele che tirava su la sua maglia e lui se ne liberò con un movimento fluido, tornando a baciarlo con le mani al bottone dei suoi jeans.
Lo toccò tra le gambe e lo sentì gemere, la sua musica preferita in tutto il mondo, il canto che più gli era mancato, e seppe che non sarebbe più tornato indietro, mai e poi mai.
Aiutò anche lui a liberarsi della maglia, e quando lo vide nudo sotto di sé trasalì. Il lato sinistro del torace, quello del braccio rotto e della gamba ferita, era coperto da cicatrici, macchie e croste sanguinolente.
Si fermò per la paura di fargli male, e gli sfiorò il fianco con le dita. Lui si irrigidì.
«Orribile, non è vero?»
Nuru pensò allora che Raffaele potesse fraintendere perché si fosse fermato, così si abbassò di nuovo e lo baciò sulla ferita, piano per non fargli male.
«Sei splendido» gli disse, e lo baciò di nuovo sulla pelle martoriata. «Non ho mai visto niente di più bello in vita mia.»
Gli diede un altro bacio, stavolta più in basso, verso la linea dei pantaloni, e lo sentì ansimare.
«Devi fare piano. Mi fa male tutto, non so se riesco a...»
«Penso a tutto io. Non devi fare niente, solo stare sdraiato e rilassarti. Farò piano, promesso. Sempre che lo vuoi.»
«Lo voglio. Ti voglio, tanto, troppo, da quando sei andato via.»
«Anch’io» disse, abbassandosi di nuovo su di lui. Gli lasciò una scia di baci che scendevano dal torso, lungo il ventre, sino all'inguine. «Cazzo, anch’io.»
Gli abbassò i jeans con delicatezza, per non fargli male, e scoprì che la ferita si estendeva sino alla gamba sinistra. Non osava immaginare quanto dolore potesse avere provato, quanto potesse provarne in quel momento, ma non si lasciò scoraggiare. Era deciso a farlo stare meglio, così gli passò la mano sui boxer e lo sentì trattenere il respiro.
«Sicuro? Non voglio farti male.»
«Sicuro.»
Nuru gli abbassò anche i boxer allora, liberandolo. Vide che chiudeva gli occhi, forse per concentrarsi e mantenere il silenzio che era riuscito a rispettare sino a quel momento.
«Ci andrò piano, promesso» sussurrò, le labbra impegnate in un bacio che era la sua unica fonte di ossigeno.
Fu suo di nuovo, in ogni modo possibile, la sue pelle che riconosceva quella dell’altro in modo quasi chimico, la sua mente che registrava ogni nota della voce che ancora una volta invocava il suo nome, sinché il piacere non gli esplose in testa e nel petto lasciandolo svuotato, più felice di quanto ricordasse essere mai stato.
«Ti ho fatto male?» gli disse quando, ancora mezzi nudi e col fiato mozzo, si separarono.
«Mai» rispose, e gli stampò un bacio sulla guancia. Tentò di mettersi su un fianco per poterlo guardare meglio, ma lo vide provarci e poi arrendersi, il volto contratto dal dolore.
«Devi stare calmo e riposare. I medici ti hanno sconsigliato di affrontare il viaggio, dovresti stare a casa, a letto, tranquillo.»
«Io sono a letto. E sono anche tranquillo.»
«E sei anche bellissimo» disse Nuru, senza più riuscire a trattenersi. Era troppo ubriaco del fatto che fosse tutto tornato a posto tra loro, e quel materasso buttato a terra col ragazzo dolorante ma felice accanto a lui era il suo piccolo fazzoletto di paradiso al centro degli orrori della sua vita.
«Dai, smettila» gli disse, alzò gli occhi al cielo ma Nuru lo vide reprimere un sorrisino.
«No, è da troppo che non te lo dico» protestò, anche lui sorrideva, ma quel sorriso si congelò sul suo volto e sospirò. «A proposito di quello che dico…»
Raffaele lo guardò, incuriosito. Lo vide provare a voltarsi di nuovo verso di lui senza riuscirci, vide l’ombra della frustrazione nella sua espressione. «Sì?»
«Devo dirti una cosa, e voglio che tu mi creda. Voglio che ti fidi di me. Puoi farlo?»
«Certo» rispose, senza attendere un attimo. «Certo, se mi dici che devo crederti ti credo.»
«Io ti ho mentito. Quando ti ho detto che non sei parte della mia famiglia ti ho mentito. Quando ti ho detto di non volerti qui con me ti ho mentito. E so che questo non migliora le cose, ma quando ti ho detto quelle cose… quando me ne sono andato, ho esagerato perché pensavo fosse meglio per te. Ma ti ho mentito. Te lo giuro.»
Raffaele chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, poi li riaprì e con loro tutto intorno a lui si accese di luce, come ogni volta. «Non so se posso. Non so se posso credere a questo.»
«Ti proverò che lo penso. Ti giuro che passerò ogni giorno del resto della mia vita, per quanto breve o lunga potrà essere, per convincerti che sono sincero.»
«Non credo di poter dimenticare quello che mi hai detto quando te ne sei andato.»
«Ho fatto un casino, lasciami rimediare. Lasciami rimediare almeno a questo.»
«Ci proverò. Te lo prometto» disse, per poi aggiungere un debole: «mi sei mancato tanto.»
Nuru sentì un richiamo troppo forte allora, si allungò verso di lui e lo baciò di nuovo. Da quando non era stato che un ragazzino aveva desiderato solo questo, l’aveva desiderato prima ancora di capirlo, di saperlo.
Gli prese il volto tra le mani, erano ancora mezzi nudi, e si abbandonò a lui in un sospiro, quando accadde.
Nuru era sul punto di decidere che era il caso di salirgli sopra di nuovo, facendo attenzione a non fargli male, che sentì del vociare crescere ed esplodere infine dentro casa. La tenda che separava la sua stanza, la stanza di sua madre, dall’area comune venne strappata dall’asta che la teneva sullo stipite e tre uomini in divisa entrarono gridando loro di smettere.
No. Non quello. Oh, no.
Erano mezzi svestiti, a letto insieme, e lo avevano trovato con la sua lingua in bocca. La sua casa era piena di droga, era fine mese quindi non ne era rimasta molta, ma di sicuro ce n’era a sufficienza per incriminarlo.
«Parliamone…» balbettò Raffaele, ma loro non sembrarono intenzionati ad ascoltarlo.
Uno degli uomini afferrò Nuru per il braccio e lo tirò su in piedi, lo voltò e gli infilò due manette ai polsi.
Sentì Raffaele gemere dal dolore, dovevano avere alzato anche lui che aveva posato il piede a terra, quello ferito.
«Non lo toccare!» gridò, mentre si dimenava per sciogliersi dalla presa che gli stringeva il braccio in una morsa. «Non lo toccare, stronzo! Ha l'immunità diplomatica, non puoi farlo, non…»
«Certo, come no» commentò uno di loro, strattonandolo verso l’uscita di casa.
«Che succede?» Allan era corso fuori dalla sua stanza, seguito da Aasim. Nurain tentava di consolare Kharunnissa, che stava piangendo sconsolata, per lo spavento e la confusione.
Lela era là, in piedi, li guardava con un’espressione neutra in volto e le braccia incrociate, tra loro e l’uscita. Nuru capì subito quello che era successo.
«Tu» disse, tenuto come un cane al guinzaglio, e si fermò dal dimenarsi come aveva fatto sino a quel momento. «Li hai chiamati tu.»
Dopo tutto quello che era successo, dopo averlo convinto a vendere roba per strada, lei aveva chiamato la polizia per... era stato lui a trasformarla in questo?
Aveva davvero creato un mostro?
Era davvero una persona tanto brutta ed egoista da aver sbagliato ogni singola scelta che aveva commesso?
«Ti ho lasciato avvicinare ai miei bambini. Hai dormito con loro, ti rendi conto? Aasim ha nove anni, Cristo!»
«Che c’entra adesso Aasim? È mio fratello, non l’avrei... non l’avrei mai... ma cosa stai dicendo?»
«Non potevo lasciarti fare le tue cose da deviato in casa coi miei fratelli. Devo proteggerli.»
Invece farli vivere in una casa zeppa di keta, coi suoi clienti che andavano e venivano, sì che era più sano. Lo pensò ma non lo disse, non sapeva se la polizia sapeva della droga, nessuno ne aveva fatto menzione sino a quel momento.
«Muzzamil te la farà pagare, lo sai questo?»
«Sempre meglio che vivere coi bambini e uno come te sotto lo stesso tetto.»
«Signorina, si faccia da parte, dobbiamo andare» borbottò uno degli uomini, e dopo un attimo di esitazione Lela si spostò, lasciando la via libera.
Fu strattonato verso l’esterno quando sentì Raffaele guaire dal dolore di nuovo, lo stavano trascinando nella stessa direzione, costringendolo a camminare sulla gamba fuori uso.
Nuru vide rosso per un attimo, fu tanto arrabbiato che non riuscì a controllarsi. Diede un calcio all’indietro all’agente che lo teneva e lui lo lasciò, piegato in avanti in un urlo muto.
«Non vedete che è ferito? Dategli una mano a camminare, date–» il primo colpo gli arrivò sullo sterno e gli mozzò il respiro. Sentì le proteste di Raffaele, sentì che li pregava di lasciarlo stare, sentì il pianto di sua sorella, Allan che urlava al poliziotto di fermarsi.
Il secondo colpo gli arrivò alla nuca, il dolore azzerò gli altri sensi per un attimo.
«Basta!» il grido di Raffaele gli penetrò nel cervello e lo svegliò dal torpore. «Lascialo in pace, basta!»
«Vedi di non ripetere quello scherzetto o sarà peggio per te» sibilò l’uomo al suo orecchio, tirando le manette e ferendogli i polsi.
Lui sbatté le palpebre per scacciare le lacrime di dolore che gli erano venute agli occhi, le avvertì colargli bollenti lungo le guance. Anche Raffaele aveva gli occhi bagnati e liquidi.
Li trascinarono fuori di casa sino allo snodo più vicino, grande abbastanza da fare passare una macchina, e li caricarono dentro. Allan li aveva seguiti sino a lì per protestare, non parve aver capito cos’era successo.
Nuru vide Raffaele che ansimava sul sedile, aveva gli occhi chiusi e cercava di riprendersi, si lamentava piano per non attirare l’attenzione, a Nuru si strinse il cuore. La portiera sbatté chiudendoli nell’auto, e le proteste di Allan sparirono. La macchina partì.
«Ti tireranno fuori. Tuo padre ti tirerà fuori» lo rassicurò. «Andrà tutto bene, hai capito? La pagheranno per quello che hanno fatto.»
Raffaele aprì un occhio acquoso e lo guardò. «Fa male...»
Nuru pensò che se avesse avuto le mani libere li avrebbe ammazzati sul serio, e che questo era pericoloso. «Lo so. Lo so, ma andrà tutto bene. Tuo padre gliela farà pagare, vedrai.»
Tutto proseguì in un turbinio di dolore, rassicurazioni e ansia che gli schiacciava il petto. Mentre l’auto li portava verso i controlli, gli montò la rabbia.
Li buttarono giù dalla macchina e li trascinarono dentro l’edificio. Sentì una spinta verso il centro della stanza e iniziarono a perquisirlo.
Essendo fine mese, aveva finito la roba che teneva per uso personale. Gli trovarono addosso il coltello però, e glielo requisirono insieme al portafoglio e al cellulare.
Quando finirono di ispezionarli, ebbe paura che li avrebbero separati. Non accadde. Li sbatterono entrambi in una celletta con un’altra decina di persone, levarono a Nuru le manette, a Raffaele non avevano potuto metterle per via del braccio ingessato, e richiusero la porta della cella con la chiave.
Nuru si massaggiò i polsi indolenziti. Raffaele si era seduto in terra, esausto e dolorante, così si inginocchiò accanto a lui. Provò l’istinto di stringerlo, di baciarlo, per rassicurarlo e per stare meglio lui stesso, ma non lo fece. Sarebbe stato troppo pericoloso, con tutte quelle persone, avrebbero reso la loro permanenza lì un inferno e si sarebbero incolpati da soli.
«Quando capiranno chi sei ti rilasceranno» gli disse, provando a tirarlo su. «Ti lasceranno andare, vedrai. Hai l’immunità diplomatica, non possono tenerti qui.»
«E tu? Non voglio lasciarti qui a marcire.»
«Non importa cosa succederà a me. L'importante è che tu sarai libero.»
«È colpa mia» gli disse, con voce rotta e gli occhi rossi di pianto. «Avevi ragione, non sarei dovuto venire, ma pensavo non ti avrei più visto e...»
«Shhh» lo zittì, per paura che qualcuno li stesse ascoltando. «Non è colpa tua, va bene? Non potevi immaginare cosa sarebbe successo. Tu volevi solo dirmi quello che hai detto. E sono contento che l’abbia fatto, davvero.»
Non era una menzogna. Si rese conto di preferire l’essere appena stato arrestato per aver saputo che Raffaele ancora lo amava, che essere libero e non vederlo mai più senza neanche saperlo.
«Pianterò un casino. Farò uscire anche te, lo giuro.»
«Non farai niente del genere. Tuo padre ti tirerà fuori e tornerai a Milano, al sicuro.»
Raffaele scosse la testa. «Non ti liberi più di me così.»
«Preferisco saperti lontano da qui, sano e salvo, in un posto sicuro, dove non possono toccarti. Fallo per me.»
«Non me ne vado senza di te.»
Nelle ore che attesero che accadesse qualcosa, Nuru imparò due cose.
La prima, che Lela non aveva detto nulla della droga, forse perché voleva salvarsi da Muzzamil, forse perché era stata lei a suggerirgli di intraprendere quella carriera e non voleva essere incriminata a sua volta. L’unica accusa a suo carico era quella dell'articolo 162 del codice penale, “rapporti carnali contro natura”.
La seconda, che quando ami davvero qualcuno, pensi al suo bene prima che al tuo. L’idea di passare quattordici anni in prigione non lo preoccupava, l’unica cosa importante era che Raffaele uscisse da lì, e subito.
Venne accontentato qualche ora dopo, quando sentirono delle urla alzarsi dal giardino e le guardie agitarsi, sinché non videro Enrico Fontana entrare come una furia in quel casotto.
«Fatemi vedere subito dov’è mio figlio, giuro che se gli avete fatto qualcosa...» quando li vide, il suo sguardo si illuminò. «Raffaele!» chiamò, e si avvicinò a grandi passi alla porta della cella. «Che aspettate? Qualcuno apra questa porta! Mio figlio ha l’immunità diplomatica, se non volete creare un incidente internazionale vi consiglio di ridarmelo subito! Se questa vostra idea balzana ha avuto ripercussioni sulla sua salute giuro che vi farò chiudere!»
«Papà» sussurrò Raffaele, e Nuru vide che stava cercando di alzarsi in piedi. Si alzò a sua volta e gli tese la mano, sollevandolo di peso. «Non ho più la stampella, non posso camminare.»
Enrico, il volto paonazzo e la camicia sgualcita, strattonò le sbarre della porta facendo un gran clangore. Una guardia si avvicinò con le chiavi, aprì la porta e lo aiutò a uscire.
«Se esce lo mzungu voglio uscire anch’io!» esclamò un ragazzo dietro di lui.
«È ingiusto! Fateci uscire!»
Enrico aveva raggiunto Raffaele, aveva passato il braccio attorno alle sue spalle e lo aiutava a sorreggersi. Nuru non poteva sentire quello che si dicevano, ma vide Raffaele indicare dalla sua parte, e il padre fare segno di no con la testa.
Lui puntò il piede sano, impedendo all’uomo di trascinarlo, così Nuru si avvicinò alle sbarre e gli disse: «Vai. Non pensare a me, vai.»
«Dove vai tu vado io» rispose il ragazzo, inamovibile.
Enrico lo tirò ancora. «Raff, tesoro, ti giuro che non resterà qui dentro a lungo, ma ora dobbiamo davvero andare.»
Raffaele lo guardò allora, e Nuru annuì. «Vai» sillabò, poi arrivò una guardia a scortarli all'uscita. Fu solo quando sparirono, che il cuore di Nuru si calmò.
Passò tutto il giorno e la notte là, in attesa che lo chiamassero e decidessero che fare di lui. Restò seduto tutta la notte, in mezzo agli altri, ogni tanto qualcuno si lamentava dell'uscita ingiusta di Raffaele, a lui non importava.
Si sentiva meglio ora che lui se n’era andato, sperava che il giorno dopo sarebbe davvero tornato in Italia, anche se dubitava sarebbe accaduto. Raffaele era un tipo testardo, e aveva deciso che gli sarebbe rimasto accanto. Neanche Enrico avrebbe potuto smuoverlo.
Si ritrovò a pensare alla loro prima uscita, quando l’aveva messo in imbarazzo al Pizza Inn. Ricordò che si era offeso a morte per quella stupidaggine. Sorrise al pensiero.
Per farsi forza, continuava a ripetere nella mente il momento in cui Raffaele era venuto da lui quella mattina. Non la parte spaventosa con Muzzamil, quello che gli aveva detto in camera.
Lui mi piace, sì. Mi rende felice, anche. È una brava persona, si vede che ci tiene a me. Ma non lo amo. Non potrei mai amarlo, perché io amo te. Tra te e lui sceglierei sempre te.
Era solo, in mezzo a sconosciuti, era appena stato arrestato, c’era puzza di sudore nell’aria, faceva un caldo atroce e non li avevano fatti uscire per andare in bagno né avevano dato loro da mangiare. Eppure sorrideva.
Il giorno dopo, di prima mattina, una guardia si avvicinò alla cella e disse «Mutuku, Nuru.»
Lui aprì gli occhi, aveva cercato di assopirsi seduto per terra con la schiena appoggiata al muro, e si rizzò subito sull’attenti. «Sì?»
Note autrice
Una bella montagna russa di emozioni, questo capitolo!
Raffaele si è quasi fatto ammazzare da Muzzamil, poi si è dichiarato. Lela ha beccato Raffaele e Nuru insieme e ha chiamato la polizia, sono stati arrestati e Raffaele rilasciato grazie all’immunità diplomatica.
Ma cosa vorrà questa guardia da Nuru?
Niente di bello, ve lo posso assicurare.
La storia sta volgendo alle sue battute finali. Spero che continuiate a seguirla e che non ce l'abbiate troppo con me per cosa deve patire il nostro povero protagonista.
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