17. Casa
La ketamina era divertente.
La prima volta che l’aveva presa si era messo a ridere perché aveva trovato curioso il fatto di avere i denti, mentre qualche volta dopo aveva sghignazzato a causa della parola “polpaccio” in italiano. Era una parola che indicava una parte del corpo, eppure dal suono sembrava descrivere un polpo cattivo.
Nuru trovava la cosa molto buffa, almeno quando era fatto.
Quando era fatto la morte di sua madre spariva, e anche il suo lavoro di merda, e anche l’incidente di Raffaele.
Quando era fatto esisteva solo lui che galleggiava verso il soffitto, pensava ai denti e al polpaccio, e si sentiva felice.
Aveva guadagnato meno quel mese, perché parte della roba non l’aveva venduta ma assunta, però aveva raggranellato più di qualche soldo comunque.
Al contrario di molti uomini di Muzzamil, per lui che faceva i calcoli a mente e molto in fretta era più difficile farsi fregare, e avere un’intelligenza matematica era d’aiuto nell’ambiente.
Quel giorno di fine settembre lui era fatto, anche se l’effetto aveva iniziato a svanire. Durava sempre troppo poco, un’oretta al massimo, e poi la sua vita tornava a essere la solita merda.
Era per questo che quel giorno di fine settembre aveva preso due pasticche anziché una.
Quel giorno di fine settembre aveva deciso di fare una cosa, e gli era servito un po’ di coraggio.
Quel giorno di fine settembre, se non si fossero lasciati tre mesi prima, lui e Raffaele avrebbero festeggiato il loro secondo anniversario.
Due anni prima, quel giorno, lui aveva baciato il ragazzo nel bagno della scuola, poi era andato a Nyali ed Enrico gli aveva fatto il suo discorso.
Da quel momento non si erano più lasciati sino a giugno di due anni dopo, quando era crollato tutto, il giorno del pride, il giorno in cui Lela gli aveva scritto che sua madre sarebbe morta.
Erano passati solo tre mesi ma gli sembrava lontanissimo, un’altra vita.
Non era più tornato a Nyali a chiedere notizie di Raffaele. Aveva avuto paura di sentire che non era cambiato niente, che lui era ancora in coma, o peggio.
Quel “peggio” aleggiò tra i suoi pensieri, velenoso e acido, mentre la sua mente si schiariva dai fumi della roba che aveva ingerito.
Sapeva che, se Raffaele fosse davvero... se non ce l’avesse fatta, lui si sarebbe dato la colpa. Sapeva che se non si fosse trasferito le cose sarebbero andate in modo diverso, lui non sarebbe mai salito su quella moto, e sarebbe stato bene.
Però quello non era un giorno come gli altri, era il giorno del loro anniversario, e non conoscere le sue condizioni di salute lo tormentava.
Era passato un mese circa da quando era stato a Nyali, poco di più, e aveva tutta l'intenzione di tornarci, in quel momento.
Camminò sino alla fine del quartiere, i matatu non arrivavano sin là, e poi si piazzò davanti alla sua vecchia scuola aspettando che ne passasse uno diretto proprio in quella direzione.
Non dovette aspettare molto.
Sentiva ancora gli arti intorpiditi dalla doppia dose che si era fatto quella mattina, ma di testa era lucido. Era lucido e aveva paura.
Paura di suonare, paura di scoprire quello che era successo, paura di avere conferma che Raffaele aveva fatto la fine di sua madre ed era tutta colpa sua.
Non si attaccò al campanello quella volta. Suonò con un sobrio squillo, cercò di darsi un contegno, e attese.
Non passò molto tempo prima che il cancello scattasse, e ancora meno prima che la porta d’ingresso si spalancasse in tutta fretta.
«Nuru, Dio mio. Dio mio.»
Lui era là, e Nuru pensò di essere ancora fatto. Non gli era mai capitato di vederlo durante un trip, ma aveva sempre saputo che sarebbe potuto succedere, ed era anche uno dei motivi per cui si faceva.
Aveva un braccio ingessato, una stampella tenuta da quello sano, e non poggiava un piede a terra, come se gli facesse male. Zoppicò con la stampella sino a fuori in giardino, arrivò sino a lui e la lasciò cadere, gettandogli il braccio sano al collo.
Fu allora che capì che doveva essere vero, perché i trip non erano mai reali così. Venne investito dal suo profumo, sentì il corpo del ragazzo contro il suo, e le sue braccia reagirono prima che potesse controllarle, stringendolo a sé.
Raffaele nascose il volto nella curva della sua spalla, come aveva fatto migliaia di volte prima di quella, e si lasciò stringere.
Nuru chiuse gli occhi, prese un profondo respiro che sapeva di lui, e ascoltò i battiti impazziti del suo cuore calmarsi.
Era a casa.
Un solo momento insieme, un minuscolo istante, aveva spazzato via ogni altra cosa. Nient’altro era importante, tutto il resto impallidiva al confronto, diventava piccolo e stupido e dimenticabile, persino il problema più grave e spaventoso era svanito in uno sbuffo di fumo nero.
Si rese conto di essere scoppiato a piangere perché Raffaele gli sussurrò rassicurazioni all’orecchio.
«È tutto a posto. Ci sono io, adesso. È tutto a posto. Sei al sicuro qui. Sfogati, se vuoi.»
Lui pianse sulla sua spalla, sinché il volto non gli fece male, poi gli diede una stretta più forte che gli estorse un gemito di dolore.
«Occhio, sono ancora un po’ acciaccato.»
«Scusa» mormorò, la prima parola che riusciva a pronunciare da quando era arrivato lì. Sentì la sua voce rauca, la gola gli faceva male.
«Entriamo? Vuoi salire in camera? Così mi racconti un po’.»
«Aspetta, stai qui un secondo» gli disse, lo sciolse dall’abbraccio e gli prese il volto tra le mani, posò la fronte sulla sua. Chiuse gli occhi e inspirò, trattenne l’aria qualche secondo ed espirò.
Raffaele aspettò buono che lui trovasse le forze per separarsi da lui. Gli posò una mano sulla guancia, la mano che non era assicurata al torace, e attese in silenzio per tutto il tempo che ci volle, con Nuru che gli teneva il volto in una stretta ferma e recuperava un po' di energie solo da quel contatto, pelle contro pelle.
Quando riaprì gli occhi, il volto a un centimetro dal suo, vide che Raffaele lo stava ancora guardando, come se non avesse mai distolto lo sguardo. Era pallido, sembrava molto dimagrito e aveva due occhiaie profonde, ma era vivo.
«Pensavo che non ti avrei più visto.»
Il ragazzo gli offrì un sorriso triste. «Anche io. Possiamo entrare, ora?»
Nuru annuì senza dir nulla.
«Mi prenderesti la stampella? Io non posso piegarmi.»
«Certo» disse, e si chinò sull’erba irrigata di fresco, raccogliendo la stampella divenuta umida.
Entrarono in casa, incrociarono Gabriele che si abboffava di patatine in busta in cucina e arrivarono alle scale.
«Ci metterò un’era geologica a salire, ti avviso...» iniziò, allora Nuru si passò il suo braccio sano intorno alle spalle, gli afferrò le gambe da sotto il ginocchio e lo sollevò. «Ehi!» esclamò, colto di sorpresa. «Wow, prima non riuscivi a farlo, questo.»
«Sei dimagrito» rispose, soltanto. Lo strinse a sé tenendolo saldo tra le braccia e imboccò le scale.
«Mi hanno alimentato per un mese con una sonda nello stomaco. Certo che sono dimagrito.»
Nuru non lo riportò coi piedi per terra quando finì di salire per le scale, arrivò alla camera, aprì la porta con un calcio e lo posò seduto sul letto.
Raffaele gli sorrise, e Nuru ricordò cosa si provava a sentirsi vivo. «Servizio completo, eh? Grazie.»
«Come stai?»
«Uno schifo. Sono imbottito di antidolorifici e mi fa male tutto lo stesso. La notte non riesco a dormire dal dolore. I medici mi avevano sconsigliato il viaggio così presto, ma mi sono fatto dimettere e sono venuto. Volevo vedere i miei, e loro vedere me, e poi... e poi speravo di incontrarti. Papà mi ha detto cosa è successo a tua madre. Nuru, mi dispiace, io–»
Lui distolse lo sguardo, come scottato. «Sapevamo sarebbe successo. È andata così.»
«Se posso fare qualcosa per te, qualunque cosa, dimmela e la farò.»
«Stai bene, non mi serve altro.»
«Vieni qui, avanti.»
Nuru sospirò e si sedette sul letto accanto a lui.
«Papà mi ha detto anche che mi hai scritto. Il mio telefono si è sbriciolato nell’incidente, ho perso tutti i numeri. Non hai più Instagram né Facebook, non sapevo come contattarti. Scusami.»
«Non fa niente, me lo sono immaginato.»
«Non avrei mai bloccato il tuo numero. Sai che ci sono sempre, per te.»
«Non sei più... non sei più arrabbiato?»
«Lo ero molto. Ero arrabbiato perché volevo stare con te. Ma ora non lo sono più, no. Hai fatto la tua scelta, devo accettarla.»
Il verbo al passato gli fece male fisico, e lui si schiarì la gola per evitare un verso di disappunto.
Volevo stare con te.
Erano vicini, fianco a fianco, sarebbe bastato così poco e Nuru avrebbe avuto quello che voleva. Così decise di prenderselo da solo.
«Sai che scelgo sempre te» disse. Si sporse in avanti, e cercò quelle labbra con le sue.
Raffaele si irrigidì e si tirò indietro, e lui strabuzzò gli occhi confuso.
«Nuru, tu mi hai lasciato. È stato mesi fa. Te lo ricordi, vero?»
«Sì» rispose, con un filo di voce.
Aveva sbagliato. Non avrebbe mai dovuto lasciarlo così. Non avrebbe ripetuto quell’errore mai più, neanche se fosse campato altri cento anni. Sarebbe rimasto sempre insieme a lui, avrebbe lottato per questo, con le unghie e con i denti, non se lo sarebbe fatto sfuggire un’altra volta. No, non l’avrebbe permesso.
Aprì la bocca per dirgli questo. Aprì la bocca per dirgli che lo voleva ancora, che non aveva mai smesso.
Per dirgli che, nell’esatto primo istante che l’aveva visto davanti al matatu, non l’aveva capito ma già l’aveva saputo: tutto quello che avrebbe mai voluto ottenere, nella sua stupida vita vita, iniziava e finiva negli occhi azzurri di quel ragazzo.
Fuori non c’era niente.
Poi Raffaele parlò.
«Sto uscendo con un altro.»
Nuru ebbe bisogno di qualche secondo per comprendere il significato di quelle parole, e anche quando lo fece scelse di credere di aver sentito male.
«Eh?»
«Sto uscendo con un altro. Ho conosciuto qualcuno, e stiamo uscendo insieme.»
«Da... da quanto?»
«Poco. Dopo l’incidente. Cioè, l’ho conosciuto prima, lui ci provava, ma io non ci stavo perché pensavo a te. Poi sono quasi morto, e ho capito che stavo sprecando la mia vita per stare dietro a qualcuno che se n’era andato e... oh, non fare quella faccia.»
«Che faccia? Non faccio nessuna faccia.»
«Come se ti avessi tradito. Non l’ho fatto. Io volevo stare con te, ti ho pregato. Io ti ho... ti ho supplicato piangendo di restare e tu te ne sei andato. Lo capisco, dovevi aiutare la famiglia. Non ne facevo parte, lo accetto. Ma potevamo restare insieme, potevamo almeno provare a distanza se non mi volevi tra i piedi. Invece hai voluto lasciarmi, e cosa pensavi? Che sarei rimasto da solo tutta la vita?»
«Io non... io non ho mai avuto nessun altro. Non c’è mai stato nessun altro per me.»
«Beh, non te l’ho certo chiesto io.»
Nuru restò immobile, lo osservò a occhi sgranati, si limitò per qualche istante a sbattere le palpebre, confuso. Raffaele non poteva aver conosciuto un altro. Loro erano fatti per stare insieme, lui lo sapeva, doveva saperlo.
«Vi siete baciati?»
«Che razza di domanda è?»
«Vi siete baciati?»
«Non sono in seconda media, certo che l’ho baciato. Usciamo insieme.»
«Ci sei andato a letto?»
«E a te cosa importa?»
«L’hai fatto o no?»
«Se anche fosse?»
«Lo prendo come un sì?»
Raffaele aspettò qualche secondo prima di rispondere. Sollevò la testa come se ne andasse fiero e disse: «Ci puoi scommettere, cazzo.»
Nuru si accorse che gli prudevano le mani, e iniziò a sfregarle. L’idea di Raffaele a letto con qualcun altro gli faceva ribollire il sangue nelle vene, glielo mandava al cervello e gli faceva vedere rosso, un toro impazzito. Era sempre stato un tipo geloso, ma Raffaele non gli aveva mai dato motivo di sentirsi così, folle di rabbia e dolore.
Si alzò e iniziò ad andare avanti e indietro per la stanza perché aveva bisogno di muoversi, di sfogarsi. Pensò di rompere qualcosa, di mettersi a urlare, ma non voleva attirare l’attenzione di altri nella casa e doveva credere di essere migliore di così.
«Tu non puoi... non puoi avermi fatto questo. Non puoi.»
«Non fare il pazzo, adesso. Qual è il problema? Sei tu che non volevi più stare con me.»
«Io non... io...» strizzò gli occhi. «Ninakupenda» gli disse, con voce rotta. «Ninakupenda» ripeté, rassegnato, la voce gli si ruppe sull’ultima sillaba. «Cazzo! Cazzo, perché? Perché l’hai fatto? Ninakupenda, cazzo. Cazzo.»
«Beh, vaffanculo tu!» rispose l’altro, che doveva aver capito chissà quale insulto.
Lui si sentì mancare, ma scosse la testa. Non poteva avere un altro attacco di panico, non in quel momento. Tirò fuori una bustina dalla tasca dei jeans e prese un pasticca, la terza quel giorno. Non ne aveva mai prese tante insieme.
«Cos’è quella roba, adesso?»
«Ketamina» rispose, se la gettò in bocca e mandò giù.
«E tu dove cazzo l’hai trovata della ketamina?»
«È mia. La vendo, adesso.»
«Tu fai che cosa?! È questo il lavoro che hai detto di aver trovato a papà?»
«Cos’altro avrei dovuto fare? Mamma stava morendo, Lela era finita a battere per strada, non avevamo di che vivere e io non sono buono a niente! Tu non c’eri e–»
«Ah, non ci provare. Io non c’ero perché tu mi hai mandato via, solo per questo.»
«Non avevo alternative.»
«C’è sempre un alternativa.»
«Sì, per te. Per te, ragazzo bianco ricco che ha il papà che lo mantiene se vuole studiare, la cui preoccupazione principale è come vestirsi per andare alle feste! Ma nel mondo reale, qui, ora, a volte siamo costretti a prendere decisioni che non ci piacciono.»
Raffaele lo guardò come l’avrebbe guardato se l’avesse preso a schiaffi, poi chiuse gli occhi. Nuru pensò che gli avrebbe chiesto di andare via, se lo sarebbe meritato.
Del resto aveva ragione, Nuru aveva fatto un casino. Era stato lui a lasciarlo, non aveva diritto di fare il geloso, e neanche di rinfacciargli che lui non c'era stato, né che aveva avuto più possibilità di lui. Non era colpa sua.
Invece lo sorprese. Riaprì gli occhi, e il mondo trovò luce di nuovo. Strinse le labbra sottili in una smorfia e sospirò.
«Scusa. Hai ragione. Non sono affari miei. Non più. Puoi fare quello che vuoi. Vuoi spacciare? Accomodati. Vuoi rosicare? Fai pure. Non mi interessa più.»
Solo dopo che l’ebbe detto Nuru si accorse che era ancora peggio. Un Raffaele arrabbiato era un Raffaele a cui importava qualcosa… sempre meglio di niente.
«Ho sbagliato a venire qui. Solo che ho pensato... almeno oggi...»
«So che giorno è oggi. Non ha più importanza.»
«Mi dispiace. Tolgo il disturbo. Sono contento che stai bene.»
«Nuru, io... grazie di essere passato. Davvero. Volevo vederti.»
Sentì che la pasticca iniziava a fare effetto, non voleva stare lì da fatto, così se ne andò. Tornò a casa a tentoni, distaccato dal suo corpo. Si vedeva da lontano, lontanissimo, come se si trovasse nello spazio e stesse guardando giù.
L’amarezza e il senso di gelosia che lo consumava sparirono, restò solo uno strano senso di euforia e la certezza di essere fuori di sé, nel senso più letterale del termine.
Il momento in cui gli aveva detto “ti amo” in swahili, con voce rotta, sfumò nella sua mente. Quella parola, ninakupenda, che Raffaele aveva scambiato per un insulto era stata invece un’ultima, disperata, confessione.
In quei giorni, si buttò nel lavoro più che poteva. Sapeva di aver iniziato a dare fastidio agli altri del giro, lui lavorava molto e bene, e la sua cerchia di clienti si era allargata a macchia d’olio, andando a intaccare quella dei compagni.
Aveva ricevuto qualche minaccia ma non gli importava, se anche l’avessero ammazzato tanto meglio così.
In quel momento si trovava in un vicoletto non troppo distante da casa sua, il coltello nella tasca che pesava come un macigno. Aveva la mente annebbiata perché era fatto, sentiva di sorridere anche se non ricordava più il perché.
Era notte, le viuzze erano silenziose e vuote, ma se anche non lo fossero state nessuno si sarebbe avvicinato a lui con intento minaccioso.
«Habari, Nuru?» Jordan, un suo vecchio compagno di classe delle medie, caracollava verso di lui, la schiena china, tutto ripiegato su sé stesso. Nuru aveva intuito che soffrisse di qualche problema alle ossa, e la roba lo aiutava a non sentire il dolore.
«Sawa sawa. Vipi?»
Jordan tentò di alzare le spalle in un movimento un po’ goffo. «Come vuoi che vada? La solita merda. Allora, che hai per me?»
Nuru prese il borsello e contò i sacchettini con le dosi rimaste. «Non c’è più tanto, mi hanno prosciugato questo mese. Te ne posso dare due grammi per millecinque.»
«Due non mi bastano, lo sai. Non posso venire qui tanto spesso, mio padre…»
«Ti sto già abbassando il prezzo, non posso vendertene tanta, lo sai. Questi sono i patti.»
«Lo so, infatti ti ringrazio, ma io come faccio? La roba mi serve.»
«Se la do tutta a te poi non ci guadagno niente. Devo dare a Muzzamil la sua percentuale, così rischio di perderci.»
«Due grammi e mezzo. Solo due e mezzo, non mi serve altro.»
Nuru sospirò. «Quanti soldi hai?»
«Millecinque.»
«Non puoi trattare così, Jo. Non siamo al mercato. Posso darteli per millesette e cinquanta. E ti sto già facendo un favore.»
Jordan fece qualche passo stentato verso di lui, e gli afferrò la maglia con entrambe le mani, stringendogliela. Nuru si irrigidì.
«Tafadhali» lo pregò, strattonandolo con le poche forze che erano rimaste. «Nuru, tafadhali, non so più cosa fare…» vide gli occhi di Jordan inumidirsi, ora che era così vicino sentiva che il suo fiato sapeva di alcol, un’altra ragione per il suo tremore.
«Non posso. Sai che non posso.»
Allora accadde. Il ragazzo si avventò sul suo borsello, ci ficcò la mano dentro e arraffò più che poteva. Nuru, i riflessi allentati dalla droga, sbatté le palpebre e lo guardò a occhi sgranati, senza avere il tempo di reagire.
Jordan fece due passi barcollanti indietro, incredulo davanti al fatto che lui non avesse neanche provato a fermarlo, poi il suono di uno sparo fece sobbalzare entrambi, facendo rovesciare in terra la refurtiva e trapanando il cervello di Nuru spaccandogli il cranio a metà.
Una pallottola si era conficcata sulla terra battuta della strada e Jordan si era gettato a terra. Jamal, l’uomo di Muzzamil, teneva la pistola in mano e osservava il ragazzo con l’aria di chi guarda una formica che non è nemmeno intenzionato a calpestare.
«Giù le mani» sibilò, avanzando verso di loro a passo misurato. Superò Nuru e si avvicinò a Jordan, toccandolo col piede. «La roba di Muzzamil non si ruba» gli disse, poi lo toccò col piede di nuovo. «Chiedi scusa. Adesso.»
«Samahani» piagnucolò, raggomitolato a terra. «Sitafanya hivyo tena!»
«Oh, ne sono sicuro.»
«È tutto a posto, Jamal. Ho tutto sotto controllo» disse Nuru, che aveva avuto la prontezza mentale di scuotere la testa per concentrarsi e avvicinarsi a sua volta. Afferrò Jamal per un braccio e quello strattonò, facendogli mollare la presa.
Poi Jamal fece una cosa che Nuru si sarebbe dovuto aspettare. Diede un calcio a Jordan, più forte che poteva.
Lui guaì dal dolore, e sembrò che questo motivasse Jamal a picchiarlo ancora più forte. Gli diede un altro calcio, sulla testa, poi uno sulla schiena e sulla nuca. Nuru strizzò gli occhi, stralunato, doveva trattarsi di un sogno, doveva per forza. Si sentiva come in fondo a un acquario, vedeva la scena confusa, sfocata, e sentiva i suoni attutiti.
Jamal continuò a prendere Jordan a calci e Nuru a guardare, finché la sua mente non collegò tutti i pezzi e lui si buttò su Jamal per fermarlo.
L’uomo barcollò in avanti, rischiando di calpestare la vittima ai suoi piedi che piangeva e piagnucolava. «Basta adesso! Ha capito! Non lo farà più, basta!»
Jamal si voltò e gli diede una manata, Nuru fu sbalzato indietro con la guancia che bruciava. «Finiscila di darmi fastidio, o le prendi anche tu!»
«Jamal, ascoltami, ha imparato la lezione. L’ha imparata, davvero, non mi avvicinerà più, non è vero Jordan?»
Ma Jordan non lo stava ascoltando. Sputò del sangue, perché dei calci gli erano arrivati in bocca, e restò a terra a lamentarsi, raggomitolato in una massa informe di carne e ossa sporgenti.
Jamal fece qualche passo verso di lui e Nuru arretrò. Lo prese per il collo e lo sbatté al muro di una baracca, soffocandolo. Nuru si portò le mani alla gola, là dove Jamal lo stringeva facendo passare solo un filo d’aria. Annaspò, mentre l’uomo si avvicinava a lui e al suo orecchio.
«E tu» sussurrò a un Nuru rantolante per il bisogno d’aria, «non ridurti mai più così, o diventi un bersaglio facile. Se vuoi strafarti fallo a tempo debito. Prima del lavoro devi restare lucido, mi hai capito? Che non mi capiti più di trovarti a vendere in queste condizioni. Si può sapere che ti prende?»
Fu allora che cedette, perché non capiva niente, aveva paura, e perché non riusciva a pensare ad altro da quando l’aveva saputo.
«Ha un altro» riuscì a gracchiare, la mente annebbiata dalla droga e dalla mancanza di ossigeno. «Ha trovato un altro. Non so che fare.»
Sentì gli occhi inumidirsi, perché chi avrebbe mai potuto biasimare il ragazzo per averlo sostituito? Nuru era rimasto lì a guardare mentre un uomo veniva picchiato quasi a morte, questo perché aveva cercato di rubargli la droga che vendeva agli ammalati e ai ragazzini. Era un fottuto casino, non c’era da stupirsi che Raffaele avesse trovato qualcuno di meno problematico di lui, chi l’avrebbe mai voluto al suo fianco?
Jamal lo lasciò andare, e lui prese una ingorda boccata d’aria.
«Se la tua donna si scopa un altro non mi interessa. La vita privata deve restare fuori dal lavoro, non puoi venire qui fatto solo perché sei geloso. Scopatela lo stesso se ti fa sentire meglio, basta che la smetti di ridurti così mentre sei in turno.»
Nuru lo osservò, gli occhi acquosi e pieni di lacrime. «Quale donna?»
Jamal sbuffò. «Hai davvero esagerato. Non puoi lavorare così, tornatene a casa. Ti copro io. Ma se vengo a sapere che l’hai fatto un’altra volta ti denuncio a Muzzamil. E tu sai cosa fa a quelli che non lavorano bene?»
Nuru scosse la testa.
«E non ti conviene saperlo. Ora vai, prima che cambi idea.»
«Jordan?»
«Non lo toccherò più. Ha imparato la lezione.»
Così Nuru si avvicinò a lui e lo aiutò ad alzarsi. Barcollava e continuava a sputare sangue, Nuru a scusarsi, e lui a piagnucolare. Lo portò a casa, reggendolo di peso, poi si trascinò nella sua, si buttò sul letto e collassò.
Note autrice
Okay, in questo capitolo sono successe gioie e dolori, ahah.
Raffaele è vivo e vegeto, ha trovato un altro, Nuru ha dato di matto e ci è passato il povero Jordan, che ci è quasi rimasto secco.
Il prossimo capitolo sarà una vera catarsi in cui succederà di tutto, starà a voi scoprire se si tratta di una catarsi tragica o di qualcosa di bello.
Per ora, tutto sembra andare male. Nuru e Raffaele sono separati, Nuru è destinato a restare a Mombasa a foraggiare Muzzamil per sempre, Raffaele tornerà a Milano a breve e non ci sono soluzioni in vista.
Il prossimo capitolo però darà una bella svolta al tutto, e tutto può ancora succedere.
Sperando che la storia vi stia piacendo, ci becchiamo presto!
P.S.
Sapevate come si dice “ti amo” in swahili? Io la trovo una parola bellissima!
Nel parlato informale, solitamente “ninakupenda” diventa “nakupenda”, senza il “ni” iniziale che si sottintende, che sarebbe il marcatore della prima persona singolare.
Ho scelto di farlo dire a Nuru nella sua interezza per renderlo più formale e ufficiale, perché vuole proprio dirgli “io ti amo” per bene, diciamo. Una dichiarazione in piena regola!
Che pensate di questa scelta linguistica?
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