16. La padella e la brace
«Allora, con la ketamina funziona così. Normalmente ti venderei un chilo a seicentomila, e tu lo rivenderesti a ottocento al grammo. Ti fai trecentomila puliti al mese.»
Nuru annuì. Trecentomila scellini al mese erano più di duemila euro. Lela avrebbe potuto lasciare la strada, avrebbero potuto vivere dignitosamente tutti e sette.
«Dato che non hai i soldi da investire per questo primo mese, facciamo così: ti do la roba sulla fiducia, e tu puoi tenerti il trenta percento. Il resto lo porti a me. Quando avrai abbastanza soldi per cominciare a investire, faremo come ti ho detto.»
«Va bene. Quando inizio?»
Muzzamil sorrise. «Piano, tigre. Prima le raccomandazioni. Ti sto dando la mia roba in anticipo, che non ti salti in mente di sparire senza pagare. La prima cosa che farai quando avrai soldi sarà portarmi la mia percentuale, capito? È stata la tua sorellina a mettere una buona parola per te, e se dovessi mandare tutto a puttane... beh, non vorresti che le accadesse qualcosa, giusto?»
Nuru prese una tagliente boccata d’aria. Deglutì. «Non scapperò.»
Mai più. Non sarebbe mai potuto scappare. Non sarebbe mai potuto andare da nessun’altra parte.
Mai, mai, mai.
«Bravo, ragazzo. Lela aveva ragione su di te» gli disse, poi Muzzamil piantò un coltello a serramanico nel tavolaccio in legno che li separava. Nuru sobbalzò. «Tienilo, per precauzione. I clienti come i nostri sanno essere molto insistenti... quando dimostrerai che sei leale, potremo pensare di darti una pistola. Sino ad allora devi fartelo bastare.»
Nuru afferrò il coltello che gli era stato offerto con mani tremanti. «Grazie, signore.»
«E del tuo trenta percento... non mi interessa cosa ci fai. Mi basta riavere il mio settanta. Se il tuo trenta lo vuoi usare tu per uso personale e vuoi impasticcarti con gli amici non mi importa, è tuo. Capito, ragazzo?»
«Capito» rispose, sapendo che non avrebbe preso neanche un grammo.
«Ti affiancherò Jamal per queste prime settimane, ma devi crearti il tuo giro, andare a coprire zone scoperte. Lui ti dirà che devi fare. Faremo il tuo nome a qualche cliente regolare, per iniziare, faranno girare un po’ la voce. Spero non abbia il sonno pesante, perché questo mestiere non conosce orari.»
«Capito.»
«Più sono giovani, più è facile portarli a comprare. Soprattutto se hanno meno soldi. Sembra assurdo, ma più sono poveri e più spendono in questa merda. Imparerai a riconoscere i più deboli.»
«Giovani e poveri. Capito.»
Il sorriso di Muzzamil si allargò. «Lela mi ha detto che impari in fretta. Mi aspetto grandi cose da te...»
Immaginare quel porco a letto con sua sorella gli faceva andare il sangue al cervello. Lo odiava, ebbe l'istinto di piantargli il suo nuovo coltello in gola.
Non lo fece, perché non era un violento, perché i suoi uomini là fuori lo avrebbero ammazzato, perché aveva bisogno dei suoi soldi.
«Non ti deluderò.»
Il primo mese passò, e lui fu affiancato a Jamal. Muzzamil aveva ragione, i suoi clienti tra tutti erano i più disperati, riconobbe persino qualche suo compagno di classe del quartiere.
Il guadagno era fruttuoso, e Lela fu subito in grado di lasciare la strada, fatta eccezione per qualche cliente affezionato come Muzzamil, perché una volta che Muzzamil Jeffrey entrava nella tua vita era difficile farlo uscire.
Le condizioni di sua madre continuavano a degenerare; Nuru aveva detto a lei, Hassan e Qaali che aveva trovato lavoro in una conceria, per non essere giudicato.
Il giorno che tutto iniziò a peggiorare ancora fu il giorno in cui Baraka morì.
Lui era troppo stanco per piangere, troppo esausto, e troppo preparato all’inevitabile. La donna si era spenta davanti ai suoi occhi ogni giorno che era passato, sino a farla trovare da una disperata Nurain a letto senza vita.
Poco prima di andarsene gli aveva detto “Sei tu il capofamiglia adesso” e lui non si era sentito orgoglioso, no, si era sentito schiacciato da una responsabilità che non voleva, non aveva mai voluto, le ossa frantumate sotto un peso troppo grande da sopportare.
Era tornato a mangiare ugali tutti i giorni con le mani, a dormire su un materasso buttato per terra. Vendeva robaccia ai ragazzini del suo quartiere per mandare avanti la baracca, lavorava ogni notte e tornava a casa esausto, non aveva tempo a volte neanche di cenare.
L’anno che aveva passato a Milano gli sembrava lontano, lontanissimo. L’anno in cui la sua preoccupazione più grande era stata passare l’esame di analisi, in cui la sua paura più grossa era quella di non riuscire a dare in tempo quello di italiano.
L’anno che aveva dormito con un tetto sulla testa, in un letto vero, con la persona che amava accanto, il frigo sempre pieno e i suoi colleghi universitari che lo invitavano alle feste, come tutti i ragazzi normali.
Quello era stato un sogno, un sogno stupido. Lo aveva sempre saputo da ragazzino, lui era nato nei bassifondi di Mombasa e lì sarebbe morto.
Che sciocco che era stato, a pensare di avere una possibilità di essere felice.
Al funerale di sua madre non invitò né Hassan né Qaali, non voleva che vedessero dove viveva, non voleva mischiare quella parte terribile della sua vita con loro che erano puri.
Una volta Raffaele gli aveva detto che lui era puro, e a ripensarci gli veniva da ridere.
Non c’era niente di puro in lui, era un criminale, e non per chi si portava a letto – che tra l’altro non era nessuno, se avesse anche solo provato a fare intuire qualcosa lo avrebbero divorato vivo – ma perché commerciava merda e morte, tutto quello che faceva era impoverire la sua terra già straziata, e lo sapeva bene eppure lo faceva comunque solo perché gli conveniva.
Padre Johnson fece un bellissimo sermone su sua madre, che fece piangere tutti. Tutti tranne lui, certo, da quando era partito non era più riuscito a versare una lacrima.
La sera del funerale si ritrovò a guardare le pasticche da 250 milligrammi nella bustina nascosta tra i suoi vestiti.
Forse avrebbe potuto prenderne una, tanto per provare... forse avrebbe smesso di sentirsi così svuotato, forse avrebbe sentito qualcosa.
Prese la bustina e si versò una pasticca in mano.
Forse avrebbe dovuto prenderne tre o quattro insieme. Forse dieci o venti. Allora avrebbe smesso di sentirsi così per sempre. Sarebbe bastato ingoiarne qualcuna in più e sarebbe scappato, finalmente.
Libero.
Magari avrebbero fatto un bel sermone anche a lui.
E se alla morte fosse davvero andato all’inferno?
A questo punto, se Dio fosse esistito lo avrebbe mandato là di certo, aveva fatto troppo male agli altri per scamparsela così.
L’idea non lo spaventava molto, forse perché lui era già all’inferno.
Si versò altre cinque pasticche sul palmo tremante. Non sapeva quale fosse la dose letale, forse avrebbe dovuto cercare su internet, ma non sapeva come, e gli sembrava un po’ patetico.
Forse, per sicurezza, avrebbe dovuto ingerire tutte quelle che aveva.
Aprì la bocca e avvicinò la mano con le sei pasticche alle labbra. Lo avrebbero trovato là sul letto, come avevano trovato Baraka, i suoi fratelli erano forti, avrebbero potuto sopportarlo.
«Nuru!»
La voce di Allan lo fece sobbalzare. Aveva preso la stanza di sua madre quando se n’era andata, e di rado i suoi fratelli venivano a disturbarlo quando era là dentro. «Eh? Cosa c'è?»
«Nuru, ma che stai facendo?»
«Niente» liquidò, e gettò le pasticche nella bustina trasparente. «Che vuoi?»
«Non mi torna il problema di matematica. Mi aiuti?»
Lui sospirò, guardando il fratellino. Stava crescendo a vista d’occhio, aveva già quasi quindici anni, ed era già alto quanto lui. Ancora una volta gli venne da piangere, e ancora una volta non lo fece.
Aiutò il fratello coi compiti, poi tornò in camera. Ignorò le sue dosi, avrebbe dovuto distribuirle per lavoro quella sera, e tolse la modalità aereo dal cellulare.
Quel giorno aveva toccato il fondo, così decise che era ora di fare qualcosa, e non c’era molto altro che potesse fare.
Aprì la chat di Raffaele, non l’aveva ancora cancellata. L’ultimo messaggio risaliva a qualcosa come due mesi prima, era da parte dell’altro, gli chiedeva a che ora sarebbe tornato dalla biblioteca.
Quando arrivi, amore? Ti voglio 🙈❤️
Non aveva mai risposto a quel messaggio perché quando l’aveva ricevuto stava già infilando le chiavi nella toppa per tornare a casa.
Si schiarì la voce e sospirò. Poi iniziò a scrivere.
Mamma è morta.
Guardò il messaggio e poi lo cancellò.
Posso chiamarti?
Decise di cancellare anche quello, non avrebbe saputo cosa dirgli al telefono, anche se aveva davvero bisogno di sentire la sua voce.
Sospirò e ricominciò a scrivere.
Mi manchi. E sto male. E mi sento morire. E mi dispiace per essermene andato così. E voglio solo vederti di nuovo e sentirmi dire che è tutto a posto anche se sarebbe una bugia. È tutto così orrendo qui, non puoi neanche immaginare quanto, e la tua assenza riesce a essere la cosa peggiore di tutte. Più del dolore, della violenza, dello squallore, più di tutto. Tu non lo sai quanto mi manchi, non lo sai quanto mi aggrappo al pensiero di come mi facevi stare bene, amato, al sicuro, speciale. Ma non te lo meriti, hai già fatto tanto, e per cosa? Per essere trattato come se non valessi niente da un giorno all’altro? No, tu devi restare al sicuro, devi essere felice, devi goderti la splendida vita che ti aspetta e che è stata fatta solo per te. Sono un coglione, e so che non vuoi sentirmi, ma dovevo dirtelo. Sono un coglione. Sono un coglione. Sono un coglione. Mi dispiace che ti ho fatto male, se ti può consolare ho fatto male anche a me stesso. Mi dispiace. E, per quel che vale, resterai sempre la parte più bella della mia vita, la parte migliore di me che non potrò mai mostrare a nessuno. Grazie di avermi dato tutto, anche se non tornerà mai più. Solo grazie, okay? Davvero. Spero che tu stia bene.
Strizzò gli occhi e, per la prima volta da mesi, sentì che diventavano lucidi.
Cancellò quasi tutto il messaggio senza nemmeno guardarlo, lasciando solo l’inizio: Mi manchi, e premette invio.
Accanto al testo apparve una singola spunta.
Il suo primo pensiero fu che Raffaele avesse bloccato il suo numero, poi tentò di tranquillizzarsi.
Lui non lo avrebbe mai abbandonato così. C’erano un sacco di motivi per cui Raffaele avrebbe potuto avere internet staccato. In qualche ora al massimo avrebbe ricevuto il messaggio e avrebbe risposto, Nuru ne era certo. Lui non avrebbe mai bloccato il suo numero, no, non l’avrebbe mai fatto.
Eppure le ore passarono, e la spunta restò singola. La notte scorse senza sue notizie e così il suo turno di lavoro, poi passarono tre giorni senza risposta in cui si tormentava.
Lui si ritrovò a casa di Hassan, una mattina che il ragazzo aveva il giorno libero. Il suo amico stava lavorando come segretario nell’azienda del padre, e guadagnava bene. Abitava ancora coi genitori, ma stava cercando un appartamento suo. Non aveva ancora trovato una ragazza.
«Dobbiamo decidere cosa prendere a Qaali» gli disse, guardando con aria distratta lo schermo del cellulare.
Quello di Nuru era in carica, anche se ogni secondo avrebbe voluto controllarlo per vedere se Raffaele gli aveva risposto.
Una parte di lui si era arreso al fatto che non sarebbe successo. Una parte di lui era risentito per averlo abbandonato a sé stesso.
Nuru non avrebbe mai cancellato il suo numero, mai, ci sarebbe stato sempre per lui. A quanto pareva Raffaele non era dello stesso avviso.
Sapeva di meritarselo, ma comunque gli faceva male.
«A Qaali?» chiese, aveva ascoltato solo metà di quello che Hassan aveva detto, la mente al suo telefono e in Italia.
«Sveglia! Sì, a Qaali. Si sposa la settimana prossima, ricordi? Dobbiamo prenderle un regalo.»
«Un regalo, già...»
«Tu hai qualche idea?»
«No, per niente...»
«Certo che sei proprio inutile» commentò Hassan. Si trovavano entrambi sdraiati sul suo letto, col condizionatore acceso a palla. Il ragazzo stava guardando Facebook, e a un certo punto si accigliò e chiese: «Senti, ma oggi è il compleanno dello mzungu?»
La frase catturò subito la sua attenzione. «Lo mzungu?»
Hassan alzò gli occhi al cielo. «Il nostro compagno.»
«Il mio Raffaele?»
Hassan sollevò un sopracciglio a quella scelta di parole. «Quanti altri ne conosci?»
«No, non mi risulta sia il suo compleanno. Perché?»
Che faccia di cazzo. Aveva fatto il vago ma sapeva benissimo che quello non era il compleanno di Raffaele. Il suo compleanno era il diciassette maggio, l’avevano festeggiato insieme qualche mese prima, in quel momento invece era agosto.
«Boh, gli stanno tutti scrivendo in bacheca, mi hanno intasato il feed. Ma è in italiano, non capisco che dicono.»
«Fai vedere» disse, e gli strappò il telefono dalle mani senza chiedere il permesso. Aveva cancellato i suoi account social, senza corrente a casa non avrebbe più potuto usarli.
La foto del profilo di Raffaele, del suo Raffaele, sullo schermo che gli sorrideva, gli diede una coltellata allo stomaco che ignorò.
I messaggi sulla sua bacheca non avevano senso. Non avevano senso, eppure gli misero un’angoscia che gli strinse le viscere in una morsa gelida, mozzandogli il respiro.
Auguri
Pregherò per te
Riprenditi presto
Siamo con te
Puoi farcela
Ti penso
Continua a combattere
Nuru scese sino alla fine dei messaggi, il cuore in gola. In fondo, risalente a tre giorni prima, proprio il giorno che lui gli aveva mandato il messaggio, c’era un post sulla sua bacheca di suo fratello Gabriele.
Lo guardò, con gli occhi strabuzzati e increduli.
Raffaele ha avuto un incidente in moto. È incosciente, non può leggere i vostri messaggi. È ricoverato in rianimazione al San Paolo, ma non sono concesse visite. Ogni pensiero è ben accetto, se si sveglierà gli farò recapitare le vostre parole. Grazie.
Incidente. Incosciente. Rianimazione. Se si sveglierà.
La testa gli girava, forte, e ringraziò di essere già steso o le sue gambe non avrebbero retto.
«Cosa dice? Nuru, che è successo?»
Lui tradusse per l'amico, la voce tremante. Sentiva il cuore che batteva nel petto, la testa vorticava leggera e aveva iniziato ad ansimare.
Se si sveglierà.
Che diavolo voleva dire? Certo che lui… che lui…
«Che sfiga» commentò Hassan, interessato in modo tiepido alla questione. «Speriamo si rimetta e non ci schiatti così. Che brutta fine…»
Nuru si alzò in piedi.
«Devo andare» disse, staccò il telefono dalla carica in un gesto brusco. Era al settantotto percento, sarebbe durato meno del solito, non gli importava.
«Devi andare? Di già?»
«Sì, io... devo fare una cosa.»
«Ma è per lo mzungu?»
«Ha un nome, sai?!» sbottò infine.
«Come?»
«Ha un nome. Si chiama Raffaele. E non ti ha mai fatto niente di brutto, non si merita che lo tratti così.»
«Che ho fatto? Ho anche detto che mi dispiace!»
«“Speriamo che non schiatti così, che brutta fine”… ma ti ascolti quando parli, almeno? Ti sembra normale?»
«Si può sapere che ti prende?»
«Niente. Che me ne vado. Devo fare una cosa.»
«Senti, so che è tuo amico e che ti dispiace, ma non puoi trattarmi...»
«Tu non sai niente! E adesso fammi uscire, per favore.»
«Wow, va bene. Calmati però...»
Hassan lo guidò alla porta e lui uscì sul pianerottolo. Lo sentì salutarlo ma non rispose.
Andò dritto all’ascensore e premette il pulsante per il piano terra.
Raffaele non poteva aver avuto un incidente in moto, lui non c’era neanche mai salito su una moto.
Iniziò a pensare che fosse colpa sua. Se fosse rimasto magari il ragazzo sarebbe stato con lui, magari non sarebbe successo. Se gli fosse accaduto qualcosa come a sua madre, lui...
Scacciò il pensiero. Non poteva essere in condizioni tanto gravi, giusto? Gabriele aveva esagerato un po' per raggranellare like. E su internet tutto sembrava ingigantito...
Salì su un matatu diretto a Nyali. Ricordava i tempi in cui aveva paura di salirci da solo, terrorizzato da tutto e tutti. In quel momento era di lui che gli altri avrebbero dovuto avere paura. Era armato, in stato alterato, non era padrone di sé. Non ebbe bisogno di chiedere l’elemosina per salirci, quel giorno. Non ne avrebbe avuto bisogno mai più.
Scese davanti alla villetta, pensava non l’avrebbe più rivista, e solo a guardarla provò una fitta allo stomaco. Sì accorse di avere i passi incerti, riuscì ad arrivare alla porta per miracolo.
Si attaccò al campanello e si piazzò davanti alla telecamera, per mostrare chi era. Suonò sinché il cancello non si aprì, un suono lungo e continuato perché lo facessero entrare il prima possibile.
Il cancello scattò, e lui entrò nel giardino. Poi la porta della villa si spalancò.
«Nuru.» Enrico, il padre di Raffaele, aveva aperto e lo guardava come se non credesse al fatto che era davvero lì. «Che ci fai qui?»
«Cos'è successo?»
L’uomo si fece da parte. «Vieni, entra.»
E lui lo fece, venendo avviluppato dai ricordi. Il primo anno che erano stati insieme, quanti pomeriggi e quante notti aveva trascorso lì dentro. Era stata un po’ la sua seconda casa.
Enrico lo fece accomodare in salotto, sul divano su cui gli aveva fatto il suo discorso, e gli portò un bicchiere d’acqua per calmarlo.
«Cosa sai?»
«Che ha avuto un incidente, che è in ospedale. Come sta? È ancora incosciente? Posso parlargli?»
L’uomo sospirò, si pizzicò la base del naso, in mezzo agli occhi. «È grave, lui è... è ancora incosciente, sì. Non sanno se si sveglierà.»
La stanza iniziò a girare, e lui ad ansimare più forte. Iniziò a vedere rosso mentre i suoi respiri correvano, il petto gli bruciava, pensò di sentirsi male sul serio.
Enrico si alzò dalla sua poltrona e si accovacciò accanto a lui, gli disse delle parole che lui non sentì. Non sentiva nulla, era tutto ovattato, e per un attimo pensò davvero di stare per morire.
Il suo cuore correva tanto che aveva male al petto, aveva la nausea, e continuava a fare respiri affannosi ma sentiva che l’aria non arrivava ai polmoni. Si afflosciò sul divano, del tutto in stato di shock, Enrico continuava a parlargli ma lui non poteva sentirlo.
Forse era così che sarebbe morto, di infarto a casa del suo ex perché era un vero coglione. Una morte degna di lui, insomma.
Non sapeva in quanto tempo restò in quelle condizioni, quel che sapeva era che a un certo punto la sensazione di morte imminente passò. Mise a fuoco l’uomo davanti a lui, prese una boccata d’aria e si accorse di avere gli occhi bagnati.
«Cosa... cosa mi è successo?»
«Ti è successo che hai avuto un attacco di panico. Tieni, bevi» gli disse, porgendogli ancora dell’acqua.
Nuru la accettò, aveva le labbra secche e si accorse di avere sete.
«Grazie» mormorò, ascoltando i battiti nel suo petto che si calmavano.
«Stai bene? C'è qualcosa che possiamo fare per te?»
Nuru pensò che fosse il colmo. Quell’uomo aveva quasi perso un figlio e chiedeva proprio a lui se aveva bisogno di aiuto.
«Mamma è morta» buttò fuori. Non sapeva perché l’avesse confessato proprio in quel momento. «Devo mandare io avanti la casa. Ho trovato un lavoro, mi pagano bene, ma non mi piace. Ho scritto a Raffaele, ma lui non mi ha risposto. Pensavo avesse bloccato il mio numero. Poi ho visto il post su Facebook e sono venuto qui.»
«Bene. L’importante è che tu abbia un lavoro adesso, che non siate senza mangiare. Sai che per qualsiasi cosa la porta è aperta, il fatto che non stai più con Raffaele non cambia niente. Sei di famiglia.»
Credevo di essere anche io la tua famiglia.
«Grazie. Ora... ora devo andare. Devo lavorare, stanotte.»
«Va bene. Ma, Nuru... fatti sentire. E se hai bisogno, non esitare a chiedere.»
«Sì» rispose, cercando di dare un’emozione qualsiasi alla sua voce, anche se non sentiva niente.
«Riguardati, figliolo.»
Tornò a casa fradicio di un senso di vuoto assoluto, siderale. Quella notte avrebbe dovuto lavorare sul serio, non sapeva se ce l’avrebbe fatta.
Entrò, i suoi fratelli lo salutarono, lui disse loro che sarebbe entrato in camera, di non disturbarlo.
Chiuse la tenda dietro di lui, e si sedette sul materasso.
Sentì gli occhi bruciare e, per la prima volta da mesi, delle lacrime gli colarono lungo le guance, incontrollabili. Sentì montare un singhiozzo, e lo soffocò per non attirare i suoi fratelli.
Dalla camera delle ragazze venivano i versi di Lela che si intratteneva con uno dei pochi clienti rimasti, per il resto il silenzio.
Per giorni aveva pensato che Raffaele l’avesse abbandonato, e invece lui per tutto quel tempo era stato in ospedale appeso tra la vita e la morte.
La cosa peggiore era che non poteva farci niente. Era del tutto impotente, a diecimila chilometri di distanza, non sarebbe potuto andare a trovarlo, a guardarlo un’ultima volta, non gli avrebbe mai potuto dire che gli mancava, che lo amava.
Perché non l’aveva cercato prima? Perché doveva sempre essere così stupido?
Troppo tardi. Sempre troppo tardi.
Tirò fuori la bustina con le pasticche dal suo nascondiglio e ne versò in mano una. Non sarebbe riuscito a lavorare quel giorno, non si reggeva in piedi, era in condizioni penose, gli serviva qualcosa per cancellare il dolore, non poteva permettersi di restare indietro, doveva alzarsi e rimboccarsi le maniche come ogni giorno prima e dopo di quello.
Era così che era diventata, la sua vita: prendere l’insopportabile a due mani e sopportarlo lo stesso. Forse la sua ketamina era diventato l’unico modo di farlo.
Portò la mano alla bocca, e la pasticca andò giù.
Note autrice
Bene, quindi: Baraka è morta, Raffaele è in coma, Nuru ha avuto una crisi depressiva, un attacco di panico e ha iniziato ad assumere la ketamina che vende ai ragazzini.
La situazione è davvero riuscita a peggiorare dall'ultima volta!
Si potrà risolvere? C'è qualcosa che si può fare per uscire da questo casino?
Lo scopriremo insieme.
Intanto, un pensiero al povero Nuru che non se la sta passando proprio benissimo e, perché no, anche al povero Raffaele che, come dice Hassan, è lì lì per schiattare.
Si accettano teorie su come si dipanerà la matassa da ora in poi, che ci stiamo volgendo alle battute finali.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top