15. Crollo

Glioblastoma multiforme.

Un tumore del cervello tra quelli con le più scarse possibilità di sopravvivenza.

Sua madre stava facendo la radioterapia, non era più in forze, e Lela, allora sedicenne, era stata costretta a trovarsi un lavoro per mandare avanti la casa.

«Torno anch’io.»

«No, invece.»

Era tutta la sera che Raffaele continuava a ripetere che avrebbe mollato tutto e sarebbe partito con lui, ed era tutta la sera che Nuru lo pregava di restare.

«Non ti lascio da solo. Tua madre sta male, dovrai occuparti di tutto, sarai uno straccio. Io non ti lascio.»

«La tua vita è qui. Devi dare gli esami, siamo a giugno, non puoi mollare tutto e tornare in Kenya con me. Devo andare da solo.»

«Ho detto che non ti lascio.»

Non gli lasciava scelta. Non gli lasciava scelta, perché lo odiava tanto? Deglutì. «Ma io sì.»

Raffaele restò immobile, il volto una maschera di cera. «Cosa?» soffiò appena, senza le forze di dirlo ad alta voce.

«Ti lascio io» gli disse, prese un profondo respiro. «Ti sto lasciando. Adesso

«Perché?»

Non poteva monopolizzare Raffaele, lui meritava di vivere la sua vita. Non poteva fargli questo. «Perché non la reggo una storia a distanza. Non così tanta distanza. E anche se tu venissi con me... anche se tu venissi con me dovremmo nasconderci di nuovo. Fingere. Io non ce la faccio. Non dopo questo.»

Raffaele si avvicinò e gli prese le mani tra le sue. Nuru pensò di respingerlo, ma si aggrappò comunque alla stretta con tutta la forza che aveva.

«Possiamo farlo. Abbiamo retto un anno a Mombasa, è stato un anno bello, dovevamo nasconderci ma eravamo insieme. Possiamo farlo di nuovo.»

«Ora è diverso. Ora so come dovrebbe essere, come potrebbe essere.»

«Aiuterai la tua famiglia a sistemarti e poi torneremo qui.»

«No, questa volta... questa volta è per sempre. Non c'è via d'uscita. Aasim ha otto anni, Kharunnissa quattro. Ci vorranno anni prima che possa lavarmene le mani. Sono una mia responsabilità. E se anche non fosse così, mi perderò tutta la sessione estiva. Perderò la borsa di studio. Non potrò più tornare qui.»

«Dove vai tu vado io. L’hai detto tu, ricordi? Lo dici sempre.»

Nuru dovette obbligarsi a dire quello che seguì. «Si dicono tante cose, non vuol dire che le si pensi davvero.»

Dallo sguardo che ricevette in risposta, quello sembrò aver fatto male. «Ti prego, ti prego, lasciami venire con te.»

«Stare a Milano è la tua vita.»

«Non mi piace la mia vita senza di te.»

Nuru chiuse gli occhi, perché se li avesse tenuti aperti si sarebbe messo a piangere di sicuro. «Non insistere. Non voglio che tu venga con me.»

Come poteva non capire? A Mombasa Raffaele non piaceva a nessuno. Non aveva i suoi amici, non aveva l’università che amava tanto, non gliel’avrebbe portato via.

«Posso aiutarti. Posso starti vicino, non potremo andare al pride, tenerci per mano, ma almeno...»

Lo faceva per il suo bene. Il suo bene. «Mi saresti solo d’intralcio. Non ti voglio. Dovrò pensare alla mia famiglia.»

«Io credevo... credevo di essere anche io la tua famiglia.»

A quelle parole, riaprì gli occhi. Come previsto, sentì due lacrime bollenti solcargli le guance. Gli occhi gli facevano male, e anche il petto, la testa, tutto. Sentiva solo il dolore.

«Lo credevo anch’io.»

«No» piagnucolò, sembrava un bambino in quel momento, un bambino impaurito e solo, e sapere di essere la causa di questo gli spezzò qualcosa dentro. «Non farlo. Possiamo farcela, io lo so, per favore, permettici di provarci.»

Nuru si decise a sciogliere le mani dalle sue. «Chiama tuo padre, digli che devo tornare. Ho bisogno di un biglietto, io... digli che è l’ultima cosa che gli chiedo.»

Anche Raffaele aveva iniziato a piangere, e lo guardava come se Nuru l’avesse tradito. Lui non capiva che era la cosa migliore per lui, che Nuru si odiava, che l’unica cosa che voleva era che lo seguisse ovunque, che rinunciare a lui era la cosa più difficile che aveva mai fatto, quella più orribile.

«Io... non ce la faccio a stare qui» disse Raffaele, che aveva iniziato ad ansimare. Nuru ebbe paura che potesse sentirsi male. «Esco. Mi faccio un giro. Se cambi idea scrivimi.»

«Non cambio idea.»

Le lacrime del ragazzo gli avevano rovinato il trucco, che colava in lunghe strisce azzurre lungo le sue guance. Scosse la testa e si voltò, uscendo di casa senza salutare.

Fu allora che Nuru cominciò a singhiozzare, singhiozzi forti che gli grattavano la gola, i suoi polmoni che facevano male, bisogno d'aria.

Sua madre era ammalata, stava per morire. Lui aveva appena scoperto che sarebbe rimasto orfano, che avrebbe dovuto lasciare l’università. Aveva appena lasciato il ragazzo che amava, l’aveva fatto piangere e supplicare.

Perché lo amava, sì, ne era certo. Raffaele gli aveva detto di amarlo, qualche volta, nel buio della loro stanza. Glielo aveva detto in italiano perché diceva che nella sua lingua veniva dal cuore e quindi valeva di più. Nuru non gli aveva mai risposto e Raffaele non sembrava esserci rimasto male, l’aveva aspettato. Lui lo aspettava sempre.

Non aveva risposto perché non conosceva ancora nulla dell’amore, perché non credeva di sapere cosa voleva dire amare, ma in quel momento lo capì. Lo capì quando si sentì morire dentro, un dolore fisico e reale, uno strappo violento al centro del petto.

Lo amava, lo amava, lo amava, avrebbe voluto urlarlo fuori dalla finestra, dirlo a tutti, e invece non l’avrebbe detto a nessuno, nemmeno a lui.

Andò a tentoni nella loro stanza, la vista annebbiata, e si lasciò cadere sul letto senza neanche togliere le scarpe. Strinse il cuscino tra le braccia e continuò a piangere, a singhiozzi, trattenendosi a fatica dall'urlare.

Pianse tanto che gli venne voglia di vomitare, là nella casa che avrebbe abbandonato presto, quella vita che avrebbe lasciato presto alle spalle.

Pensò che se l’avesse saputo, se durante la parata avesse saputo che quel bacio sotto il glitter sarebbe stato l’ultimo bacio che gli avrebbe mai dato, forse l’avrebbe baciato in modo diverso. Forse l’avrebbe baciato senza lasciarlo più andare, sino a morire, con un peso nel cuore ma la consapevolezza di quello che aveva, della fortuna che aveva nel poter posare le labbra sulle sue.

Troppo tardi.

Enrico gli comprò i biglietti per pochi giorni dopo.

Raffaele cercò ancora di convincerlo a restare insieme, ma quando capì che non si sarebbe smosso di un millimetro smise di rivolgergli la parola e si trasferì per dormire nella stanza di quando era ragazzo.

Quando Nuru uscì di casa per l’ultima volta non lo cercò per salutarlo. Lo fece quasi di nascosto, in silenzio, con il manico del trolley stretto tanto da far male.

Lo fece di nascosto e in silenzio perché sapeva che se l’avesse visto di nuovo gli avrebbe detto che aveva cambiato idea. Gli avrebbe detto di seguirlo, avrebbe fatto l’egoista e l'avrebbe trascinato giù con lui.

Andò in aeroporto accompagnato da un suo collega, che gli parlò per tutto il viaggio ma lui non lo ascoltò. Quando si salutarono lo abbracciò, e lui ricambiò in modo freddo e distante.

Affrontò il viaggio come se fosse diretto al patibolo. Continuava a camminare e a interagire con gli altri in pilota automatico, la mente altrove, in un pozzo senza fondo.

All’arrivo a Mombasa, quando scese dall’aereo, il suo telefono vibrò. Avrebbe dovuto risparmiare la carica, erano tornati i momenti di magra, ma col pensiero che potesse essere Raffaele controllò comunque.

Dapprima vide solo che il nome sullo schermo era diverso, e provò l’istinto di mettere via il cellulare con uno sbuffo. Poi lesse il nome nella chat.

Hassan.

Qaali mi ha detto cosa è successo. Mi dispiace.

Sentì una stretta al cuore. Raffaele gliel'aveva detto, gli aveva detto che Hassan gli voleva bene, che non appena lui fosse tornato in Kenya sarebbe corso da lui.

Grazie.

Se vuoi ci possiamo vedere, in questi giorni. Così parliamo.

Nuru sospirò. Una faccia amica gli avrebbe fatto comodo, in quel momento.

Va bene, certo. Ma ti dico quando posso appena lo so, ora devo andare a casa a controllare come vanno le cose.

Ok, aggiornami. Io sono qui.

La macchina di Qaali venne a prenderlo all’aeroporto. Il caldo e il caos lo confusero a primo impatto, con l’asfalto polveroso, la terra rossa e un traffico chiassoso e disordinato.

Scoprì che Qaali non aveva mandato solo la macchina per portarlo a casa, ma che era salita per poterlo salutare. Quando lo vide lo abbracciò, e lui la strinse.

«Mi sei mancata.»

«Mi sei mancato anche tu.»

Lo aggiornò sulle ultime novità, gli raccontò del suo promesso sposo, il ragazzo che aveva chiesto ai suoi genitori di poterla sposare, che lei aveva conosciuto dopo la proposta di matrimonio.

Gli disse che le piaceva, sembrava un tipo a posto, ed era anche piuttosto carino.

Scoprì che la ragazza aveva iniziato a vendere trucchi per una rivendita a Nairobi, che il lavoro fatturava bene.

Lui cercò di ascoltarla con tutto l’interesse che fu capace di tirare fuori, benché il fantasma della morte imminente di sua madre e l'addio a Raffaele continuassero a vorticargli in testa, molesti e opprimenti.

La macchina di Qaali lo portò alla Tumaini, la vista della scuola gli fece venire una fitta di nostalgia. Si lasciò scaricare là, poi, con la sua valigia in mano e le cuffiette nelle orecchie, entrò nel suo quartiere.

Aveva sempre saputo di abitare in un quartiere squallido, ma quel giorno gli sembrò ancora peggio del solito. La strada sterrata era divenuta fango là dove le persone avevano scaricato i loro bisogni, un gatto randagio dall'aspetto rabbioso e sporco inseguiva un gallo per la strada. I tetti in lamiera delle baracche lo accecavano riflettendo il sole a picco, e poteva intravedere dalle lenzuola semi aperte la vita all’interno delle case senza porte.

Trovò la sua senza intoppi, dopo aver intravisto vicini del quartiere che lo avevano salutato con un cenno al suo ritorno a casa.

Entrò col cuore in gola, piccolo e pesante, e la prima cosa che vide fu Nurain che faceva i compiti seduta per terra, insieme a Kharunnissa che giocava con una bambola fatta di legnetti.

«Nuru!» gridò la ragazzina, e si alzò in piedi gettandogli le braccia al collo.

«Ehi, tesoro» rispose, sollevandola di peso e facendole fare un giro in tondo.

Anche la più piccola gli sgambettò incontro, Nuru si chinò e le arruffò i capelli sulla testa.

«Che ci fate qua fuori? Non dovreste essere nella vostra stanza?»

«C’è Lela con Muzzamil» rispose Nurain. «Fanno le cose da grandi.»

Lui fece una smorfia. Fu in quel momento che lo sentì, un gemito acuto che veniva dalla stanza delle sue sorelle, chiusa solo da un sottile lenzuolo a mo’ di tenda.

«Dov'è mamma?»

Nurain si strinse nelle spalle. «In camera. Come sempre.»

«Vado a salutarla. Voi perché non andate in stanza con Allan e Aasim?»

«Non ci vogliono nella loro stanza. Hanno detto “niente femmine”.»

«Dite loro che sono stato io a chiederlo. Andate, forza» intimò, e attese sinché non le vide affacciarsi nella sua vecchia stanza.

Scostò la tendina che separava l’ambiente principale da camera di sua madre. Una sottile tavola di compensato tra le due stanze adiacenti faceva trapelare ogni suono, permettendo a tutti in casa di sentire il concerto di sua sorella. Lo ignorò.

«Mama» chiamò, al suo ingresso nella stanza.

Camera di sua madre era la più piccola della casa, doveva essere circa due metri per tre. A un angolo, per terra, aveva un materasso singolo coperto da una zanzariera appesa a un gancio al soffitto, mentre in una cesta in bella vista stavano i suoi lezo che usava per abbigliarsi.

Vedendola per la prima volta dopo quasi un anno, non la riconobbe subito. Notò che aveva i capelli rasati del tutto, ed era magra, troppo, molto più di come la ricordava.

«Mhibu» soffiò lei, alzando un braccio e sfiorando la zanzariera sopra di lei, in un tentativo di toccarlo. «Pensavo che non ti avrei più visto.»

Lui si accovacciò per terra accanto al materasso. «Sono tornato. Sono qui per restare.»

«Fatti guardare... ti sei fatto proprio un bel ragazzino.»

Nuru le sorrise. «Anche io ti vedo in forma.»

«Bugiardo...» mormorò, ma ricambiò il sorriso sulle labbra. «Lela mi ha detto che all’università stavi andando bene. Non mi sorprende. Sei sempre stato quello intelligente. Avevo in mente grandi progetti per te... non volevo farti tornare, sai? Ma Lela non ce la faceva più da sola, e io non posso più lavorare, e ho troppe bocche da sfamare, e...»

«Non fa niente. La famiglia è più importante. Io me la caverò.»

«Malaika yangu» gli disse. «L’uomo di casa. Sono contenta che sei qui.»

«Anch’io, ma.»

«Scusami ora, credo che mi metterò a dormire. Non svegliarmi per cena, ho la nausea...»

«Devi pur mangiare qualcosa. Solo qualcosina, non tanto.»

«Parli come tua sorella. Vedrò se avrò voglia di mangiare un po’... tu vai a salutare i tuoi fratelli ora. Sei mancato molto a tutti loro.»

«Ora vado. Buon riposo» le disse, col cuore stretto in una morsa. «Ci sentiamo per cena.»

«Ciao, mhibu. Grazie di essere qui.»

Detto questo, chiuse gli occhi. Sua madre era sempre stata una donna forte, decisa, dal carattere esplosivo e persino prepotente. Non era rimasto niente di quella persona, a parte l’amore per i suoi figli che continuava a resistere dentro quell’involucro sgonfio.

Uscì dalla stanza in silenzio e fece per raggiungere quella sua, di Allan e Aasim, quando Lela uscì dalla camera delle ragazze, i capelli sfatti e il trucco sbavato.

Insieme a lei Muzzamil Jeffrey, un uomo corpulento che Nuru conosceva di vista, un pezzo grosso del quartiere che controllava un giro di spaccio molto esteso di eroina, ketamina e qat.

Molti suoi compagni di classe delle medie erano vittime dello spaccio di Muzzamil, dipendenti dall'abuso delle sostanze che vendeva nelle zone più disagiate, in particolare a giovanissimi.

«Nuru, karibu!» esclamò l'uomo, dandogli una vigorosa pacca sulla spalla. «Lela mi ha detto che saresti tornato a breve! Com’è andato il viaggio?»

Nuru si accorse che sia lui che sua sorella odoravano di alcol e sudore. «Tutto a posto.»

«Bene, bene, mi fa piacere. Ora devo proprio andare, ho degli affari da sbrigare, ma non perdiamoci di vista, va bene? Senti Lela, fatti dare il mio numero. Ci becchiamo!»

Detto questo, uscì di casa, con Lela che gli urlava dietro un: «Grazie!»

Nuru si voltò a guardarla. Aveva una canottiera rosa e una minigonna nera, non si era rimessa le scarpe dopo essere stata a letto con lui. Le treccine sulla sua testa le arrivavano a metà schiena, dalle punte tinte di blu, e aveva la matita sbavata sotto l’occhio.

Tutto bruciava. «Muzzamil è il tuo ragazzo adesso?»

«Ciao, comunque. Mi sei mancato anche tu.»

«Si può sapere cosa ti salta in mente? Quel tipo è pericoloso!»

«Muzzamil non è il mio ragazzo, è il mio miglior cliente. E non ti permetto di parlare male di lui!»

«Scusami... cliente

«Come credevi che stessi mandando avanti la casa? Vendendo caramelle ai bambini?»

Nuru capì cosa intendeva dopo almeno una manciata di secondi, e si sentì mancare. «Non puoi... non puoi più farlo.»

«E chi me lo impedirà? Tu?»

«Sì.»

Nuru non riusciva a crederci. Non poteva accettarlo, Lela aveva solo sedici anni, non era la tipa, non poteva davvero scelto la strada, era impossibile. Il pensiero lo faceva impazzire, dovette sfregarsi le mani con rabbia per evitare di alterarsi troppo.

«Tu non impedirai proprio un bel niente a nessuno. E ti dirò di più, Muzzamil ti ha trovato un lavoro. Era restio, non sapeva se fidarsi di te, ma io ho garantito per te e ha detto sì.»

«Un lavoro? Che genere di lavoro?»

«Secondo te?»

Questo era davvero troppo. «Non sono tornato per vendere ketamina ai ragazzini, Lela.»

«No, sei tornato per aiutare la tua famiglia. Questo è il tuo modo di farlo.»

Nuru la guardò per aspettarsi che dicesse che era tutto uno scherzo. Guardò sua sorella, nel giro di un anno sembrava diventata una donna fatta, eppure non lo era. Era solo una ragazzina.

«Troverò un altro lavoro. Qualcosa di meglio.»

«E cosa? Non hai mai lavorato, hai sempre insistito per studiare, non sai fare niente.»

«Posso imparare.»

«Sei vecchio per imparare. Per imparare prendono i tredicenni che non hanno finito la scuola, così possono pagarli una miseria. Non un ventenne con sei persone da campare.»

«Chiederò aiuto a Hassan. Lui...»

«Lui non ti parlava più solo perché ti sei trasferito. Non vedrai più niente da lui. Il tuo posto è qui, Nuru. Qui a fare le cose che facciamo noi. Anche se ti senti migliore di noi perché sei andato all’università, anche se pensavi di essertela scampata, beh, ti sei sbagliato. Sei qui a sguazzare in questa merda come tutti gli altri, e ci serve che lavori per Muzzamil, ci serve adesso.»

«Lela...»

«Io ti darò il numero di Muzzamil e tu lo chiamerai. Ti metterai a fare quello per cui sei tornato davvero» gli disse, poi si passò le dita sotto gli occhi e si ripulì dal trucco sbavato. «E ora vai a salutare i tuoi fratelli, non ti vedono da mesi e non ti sei neanche degnato di salutare. Io ho un appuntamento con un altro cliente tra cinque minuti.»

Nuru si portò le mani al volto e sospirò. Lela aveva ragione, sarebbe stato difficile trovare lavoro per lui, che non sapeva fare nulla. E magari il lavoro di Muzzamil avrebbe permesso a lei di lasciare il suo, l’avrebbe lasciata libera. Riconosceva in lei la disperazione di chi era stata abbandonata, lasciata indietro a pensare a tutto; riconosceva in lei la frustrazione verso un fratello che l’aveva lasciata al suo destino, il piacere sadico che provava nel vedere che Nuru era dovuto tornare.

Come aveva potuto permettere che accadesse? Che accumulasse tutta quella rabbia senza che lui se ne accorgesse?

Entrò nella sua vecchia stanza, la sua nuova stanza. La sua mente la sovrappose a quella sua e di Raffaele a Milano, il loro letto con le prese elettriche, la foto dei suoi genitori, la finestra con la zanzariera da cui avevano guardato la neve il giorno di capodanno.

Gli venne da piangere, ma ingoiò il groppo in gola.

«Nuru!»

Era stato Allan a parlare, si era alzato dal letto, aveva superato la zanzariera, ed era corso ad abbracciarlo, seguito da Aasim.

«Te l’avevo detto che era tornato» pigolò Nurain, seduta per terra che continuava i suoi compiti.

«Come stai?» chiese Allan, aggrappandosi ai suoi fianchi.

«Non vai più via, non è vero?» incalzò Aasim.

«Sto bene. Mi siete mancati» disse, ricambiando gli abbracci più forte che poteva. «Non vado più via» pronunciò, come una sentenza. «Non stavolta.»

Lela gli diede una settimana per cercare un lavoro alternativo, non lo trovò. Sua sorella aveva ragione, lui non aveva competenze, e per il mercato del lavoro del suo quartiere era già grande.

Guardò il suo cellulare, a cui aveva appena tolto la modalità aereo. Lo avrebbe caricato a casa di Hassan l’indomani, poteva permettersi di usarlo un poco di più.

Come ogni singola volta che guardava il suo schermo da una settimana, sperò di trovare un messaggio di Raffaele, invano. Il ragazzo l’aveva cancellato dalla sua vita, spazzato via come un panno sulla lavagna, e la cosa peggiore era che lui sapeva di meritarlo.

L’aveva fatto piangere, supplicare, gli aveva spezzato il cuore da un giorno all’altro, era tutta colpa sua.

Come aveva detto Jacopo quella sera in discoteca, la volta delle calze, “è complicato”.

Che sciocco che era stato, a credere che per stare con qualcuno bastasse amarlo, e che lui ti amasse a sua volta. Che ingenuo. Avevano cercato di dirglielo allora, che non aveva capito niente… alla fine anche lui c’era arrivato.

Sospirò, sdraiato sul suo letto a morire di caldo, braccia spalancate per disperdere calore. Guardò lo schermo del telefono con occhi stanchi.

Il numero di Muzzamil gli sorrideva dal display, il numero che avrebbe cambiato tutto, che gli avrebbe permesso di guadagnarsi da vivere.

Lela avrebbe potuto smettere di lavorare, provare a trovare qualcos’altro, lei era giovane, ce la poteva fare. Sua madre se ne sarebbe potuta andare sapendo che lui stava facendo qualcosa.

Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro.

Doveva farlo. Doveva farlo per la sua famiglia.

Credevo di essere anche io la tua famiglia, disse nella sua testa la voce di Raffaele, il giorno che si era violentato maltrattando il ragazzo che amava.

Nuru ignorò il senso di nausea che l'aveva assalito, l'angoscia che gli stringeva la cassa toracica sino a farla scricchiolare.

Chiamò il numero in rubrica e attese.

«Pronto, chi è?»

«Muzzamil, sono Nuru. Hai un lavoro per me?»


Note autrice
E così Lela è stata costretta a fare la prostituta per mantenere la famiglia e ha trovato a Nuru un lavoro per il trafficante di droga del quartiere.
Lui e Raffaele si sono lasciati e ora Nuru è solo, nella sua vecchia casa, con la madre morente e costretto a svolgere un lavoro che odia con tutto sé stesso.
Potrebbe andare peggio di così?
Considerando che il prossimo capitolo si intitola “la padella e la brace” può decisamente darsi.
Sarete voi a decidere.
Intanto grazie per aver letto e lasciato un bel feedback – sì vi ringrazio in anticipo per i feedback perché so che siete buoni e me li lasciate – e ci aggiorniamo al prossimo capitolo!

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