1. Galeotto fu il matatu
L’aria su Moi Avenue era calda e pesante, quel giorno il sole picchiava sulle strade di Mombasa e la fila per accedere al matatu era più lunga del solito.
Nuru si avvicinò a passi stanchi, lo zaino floscio su una spalla, le cuffie alle orecchie senza musica, per essere lasciato in pace dalla marmaglia scomposta che affollava il marciapiede.
La Tumaini High School and Madrasa, il suo biglietto per un futuro meno squallido del suo presente, si trovava fuori dal quartieraccio in cui viveva e, con pochi soldi e poca intraprendenza per prendere i mezzi da solo, ogni mattina camminava a lungo per arrivare a scuola sempre puntuale.
Così superò la folla a tentoni, sgomitando per passare oltre la calca che si era ammucchiata davanti al veicolo parcheggiato di sbieco, quando li sentì.
«Fatti da parte!»
«Spostati, ragazzino!»
«Basta, finitela! Fateci passare!»
I lamenti della folla inferocita destarono la sua attenzione, più incattiviti dei soliti sbuffi mattinieri mezzi addormentati.
Alzò lo sguardo dal marciapiede sporco e assolato, e lo vide.
Il problema che stava mandando in fibrillazione tutti, là davanti al matatu, e che stava facendo suonare le macchine dietro, seccate per l’attesa.
Lo mzungu stava là, in piedi davanti al controllore, lo osservava a occhi spalancati senza dire una parola, con un foglietto striminzito in mano.
«Allora!» abbaiò l’uomo, il ragazzo si ritrasse. «Si può sapere dove devi andare?»
Lo mzungu, non avrà avuto più di diciott’anni, scosse la testa e gli porse il suo bigliettino malconcio.
«Te l’ho già detto! Questo matatu non va a Nyali! Devi andare da qualche altra parte o no?»
Il ragazzo si fece ancora più piccolo, e azzardò un timido: «Non so bene l’inglese.»
Aveva un cappellino in testa, come tutti i turisti con la paura di un’insolazione, una maglia bianca e dei pantaloncini corti color beige. Sembrava appena uscito da una rivista per bianchi, uno stereotipo che camminava, tranne che per le scarpe: invece dei soliti sandali dei turisti europei, portava due scarpe da ginnastica.
Nuru si chiese da dove venisse. Forse poteva essere greco, i greci erano noti per essere alquanto bizzarri.
«Mi stai facendo perdere tempo, ragazzino! Stai allungando la fila! Non andiamo a Nyali, capito? No Nyali» scandì il controllore, sinché un uomo seccato dalla situazione non gli diede una spintarella.
Il ragazzo saltò di due passi indietro, in un sobbalzo spaventato.
«Fatti da parte! Devo andare a lavorare!»
Fu allora che Nuru si arrese all’evidenza.
Forse era il senso di responsabilità usurante che veniva dall’essere il primo di sei fratelli, forse c’era qualcosa in quel ragazzo sperduto che lo chiamava, ma decise che non sarebbe potuto restare a guardare.
Così, se anche avrebbe fatto tardi a scuola, sgomitò risalendo la fila sinché non gli fu accanto.
«Qual è il problema?»
Il ragazzo dei disordini lo guardò con tanto d’occhi, ricolmi di nuova speranza.
«Questo mzungu è tuo amico?»
«No, voglio solo aiutare.»
«Deve andare a Nyali. Noi andiamo a Lighthouse, ma insiste per salire.»
Nuru si massaggiò la tempia. Quel chiasso stava iniziando a fargli venire mal di testa. «Ci penso io.»
Si voltò verso di lui, che strinse le labbra in un goffo segno di saluto e riconoscenza. Nuru non era sicuro che avesse capito lo scambio di battute col controllore.
«Vieni con me, okay?» domandò, poi vedendo che lo osservava vacuo e spaesato sospirò ancora. «Vieni» ripeté, scandendo la parola e facendo il gesto di seguirlo.
Si allontanò di qualche passo dalla folla, il ragazzo ubbidì.
Nuru sentì versi di giubilo al vederlo andare via, mentre il controllore iniziava a incassare gli scellini per permettere ai presenti di entrare.
Non appena si fu allontanato a sufficienza, gli strappò il foglio che aveva in mano. «Dammi qua.»
Il ragazzo lo stava ancora fissando, non gli aveva rivolto la parola nemmeno una volta. Aveva gli occhi di un azzurro sporco, macchiato d'ambra, e lo osservava con curiosità e un po’ di diffidenza.
Nuru ignorò caparbio quello sguardo indagatore e abbassò gli occhi su ciò che cercava. Scribacchiato in stampatello disordinato, un indirizzo di Nyali.
«Quel matatu non va a Nyali» spiegò, con tutta la chiarezza di cui disponeva. «Quel matatu va a Lighthouse. Se vuoi andare a Nyali devi attraversare la strada, la direzione è quella, vedi?»
«Non parlo bene inglese» ripeté lui, in tono di scuse, poi indicò il suo foglietto un’altra volta.
Nuru si maledisse nei suoi pensieri. «Seguimi.»
Iniziò a camminare, ma, vedendo che non era seguito, tornò indietro e lo afferrò per il polso. Ebbe paura che avrebbe fatto resistenza, ma il ragazzo si lasciò guidare come un agnellino.
Attraversarono la strada trafficata tra gli strombazzamenti delle macchine, sino ad arrivare dall’altro lato.
«Qui» spiegò Nuru, indicando per terra il punto dove si trovavano.
Il ragazzo seguì il suo gesto, osservando il marciapiede bruciato dal sole.
«Quando vedi il matatu devi fermarlo, capito? Agiti il braccio e quello si ferma e ti prende. Fai vedere l'indirizzo e quando sei arrivato là vicino ti fanno scendere. Capito che intendo?»
«Scusa... no.»
Fu così che Nuru prese una decisione. Tirò fuori il telefono dalla tasca, sempre in modalità aereo, e guardò l’ora.
Le otto e diciassette minuti.
Era già in ritardo.
Alzò lo sguardo, gli occhi chiari del ragazzo erano ancora puntati nei suoi, e allora disse una cosa così folle che quasi non riuscì a credere di farlo davvero: «Ti accompagno io. Vengo con te.»
Avrebbe saltato la prima ora. Avrebbe saltato la prima ora senza un valido motivo. Sapeva che sua madre l'avrebbe come minimo ammazzato per questo, ma scoprì che non gli importava.
Quello mzungu sembrava davvero in difficoltà, lo guardava con gli occhi spalancati e la sua disperazione nel tentare di capire quello che Nuru stava dicendo era palpabile. Si chiese quale adulto avesse lasciato un ragazzino sul matatu da solo in quel modo, con una scarsa conoscenza della lingua, per giunta. Di certo un irresponsabile.
«Come ti chiami?» gli chiese, in un inglese con accento mediterraneo che confermò l’ipotesi del greco.
«Nuru» rispose, e gli tese la mano. Sorrise, in un maldestro tentativo di essere di conforto. Quella domanda era stata la frase di senso compiuto più lunga che aveva pronunciato da quando l’aveva visto.
«Raffaele. E grazie» rispose, afferrando la sua mano tesa.
Fu una stretta breve ma decisa; molto, troppo diversa dall’idea di ragazzino inerme e spaurito che si era fatto sino a quel momento. Forse la barriera linguistica lo faceva sembrare ciò che non era.
«Vengo con te. Ti faccio vedere io la strada, okay?»
Anche il ragazzo sorrise. Aveva una fossetta sulla guancia sinistra, che apparve per un istante al suo piegare le labbra all’insù.
Nuru sentì qualcosa in lui contrarsi in modo doloroso.
«Wow. Devi andare anche tu da quella parte?»
Nuru pensò di rispondere con la verità. Pensò di dire a quel ragazzo, Raffaele, che sarebbe andato sino a Nyali in matatu solo per fargli un favore, ma si sentiva troppo in imbarazzo, così non lo fece.
«Sì» rispose. «Sì, vado a scuola là.»
Raffaele gli fece un altro sorriso in risposta e la fossetta riapparve sul suo volto, solitaria e insopportabile.
Solo un’altra persona in tutto il mondo gli faceva quell’effetto: Ahmad, un ragazzo che frequentava la sua scuola, all’ultimo anno come lui ma di un’altra sezione. Anche Ahmad aveva un bel sorriso, e Nuru lo guardava sempre.
«Che ascolti?»
«Niente» si lasciò sfuggire. Sentì le guance infiammarsi, così si spiegò. «È perché in questo modo la gente non parla con me.»
«Oh» farfugliò lui. «Scusa.»
«Oh no, no» si affrettò a chiarire, cacciandosi le cuffie in tasca insieme al telefono. «Non mi dai fastidio. Uhm, come mai sul matatu tutto solo? È pericoloso» chiese allora, per coprire con la sua voce l’imbarazzo di quell’ammissione.
«Scusa» ripeté il ragazzo. «Non ho capito.»
Nuru pensò a come riformulare la frase in modo più semplice. «Perché vai a Nyiali? Cosa ci fai?»
Raffaele arricciò le labbra, pensieroso, prima rispondere. Il suo inglese sembrava già migliorato rispetto a quando l'aveva visto trattare con l'uomo del matatu, forse perché si trovava più a suo agio. Nuru si ritrovò a guardargli la bocca senza poter fare nulla per evitarlo. Quelle labbra tanto pallide e sottili erano la parte più espressiva di lui, insieme ai suoi occhi.
Che strano.
«Devo vedere un amico di mio padre. Lui è l’ambasciatore italiano, ci siamo trasferiti qui oggi.»
Aveva pronunciato le parole “ambasciatore” e “trasferiti” con una strana enfasi, e Nuru ebbe l’impressione che gli avessero insegnato a dire quella frase a memoria.
E così, a quanto pareva, il ragazzo non era né greco né un turista.
«Ti sei trasferito qui? Ora vivi qui?»
Raffaele annuì.
«Dev’essere orribile. Trasferirsi così lontano da casa. Non conoscere nessuno...»
«Conosco te, adesso.»
«È vero» concesse Nuru, «conosci me. Sai già dove andrai a scuola?»
Ma Raffaele non ebbe tempo di rispondere. Un matatu color fuxia con delle scritte gialle sfrecciò sulla strada che portava al quartiere di Nyali. Nuru dovette gettarsi in mezzo alla strada per fermarlo, sbracciandosi e gridando al conducente di aspettarli.
Il mezzo parcheggiò sgommando a pochi centimetri da lui, e in breve anche vicino a loro si formò una piccola folla di persone intenzionate a salire. Raffaele si avvicinò, di nuovo spaventato, e Nuru si raccomandò di non perderlo d'occhio.
«Dove vai?» gli chiese il controllore, quasi a urla per via del chiasso.
Nuru gli porse il foglietto che aveva preso dalle mani di Raffaele qualche minuto prima.
«Dieci scellini» sentenziò, Nuru annuì e guardò il ragazzo accanto a lui, che li osservava spaesato.
«Dieci scellini» ripeté, tirando fuori i suoi e porgendoli al controllore.
Raffaele agì subito, tirando fuori il portafoglio gonfio di scellini e quelli che sembravano euro.
Con difficoltà tirò fuori una moneta da dieci, e Nuru si affrettò a chiuderglielo e infilarglielo in tasca in tutta fretta. Far vedere tutti quei soldi poteva essere molto pericoloso, in particolare prima di salire su un matatu come quello.
«Lo mzungu è con te?»
«Sì» rispose Nuru, tirandolo dentro. Raffaele lo seguì.
Il controllore del mezzo gli rivolse uno sguardo sospettoso. Avrebbe fatto pagare al ragazzo bianco almeno il doppio, se fosse stato da solo.
Nuru trascinò Raffaele verso uno degli ultimi posti, dove c’era una fila ancora non occupata. Si mise lo zainetto sul grembo, per tenerlo d'occhio, e fece cenno a Raffaele di sedersi accanto a lui.
Il matatu si riempì, e loro si ritrovarono stretti come sardine, schiacciati in quel pulmino sbilenco che ripartì a tutta birra non appena ebbe fatto salire tutta la fila di persone in attesa.
La musica dalla radio era a volume altissimo, Kidogo di Diamond Platnumz, e rimbombava per il cassone del mezzo facendo tremare i finestrini.
Raffaele si guardava intorno, entrambe le mani sul borsello che aveva appeso sulla spalla. Anche Nuru non era mai salito da solo su un matatu, anche se non l’avrebbe ammesso al ragazzo neanche sotto tortura.
A essere del tutto sinceri, iniziava a sentirsi abbastanza ansioso lui stesso.
Oltre a essere la sua prima volta sul matatu senza un adulto, un matatu colmo di persone e dalla guida spericolata, era anche la prima volta che saltava la scuola. Inoltre, gli scellini che aveva appena usato per l’andata e quelli che avrebbe usato per il ritorno erano tutti quelli che aveva e che sua madre gli avrebbe dato per un tempo lunghissimo.
Pensò alla faccia di quella donna quando lui avrebbe dovuto ammettere di essersene andato a zonzo per una mattina anziché andare a lezione. Avrebbe dovuto farle firmare la giustificazione, e allora avrebbe dato di matto.
Sentì i battiti che acceleravano, al ritmo della canzone, e anche lui si guardò intorno impaurito, aspettando un incidente da un momento all’altro.
C’era troppo chiasso per parlare, così si limitarono a stare in silenzio e guardare fuori dal finestrino, le mani di Raffaele ancora assicurate sul suo borsello.
La città sfilò davanti ai loro occhi, trafficata e caotica, battuta dal sole. La metropoli di Mombasa era più viva che mai, tra pedoni, matatu, macchine e tuktuk brulicava di vita.
Passarono davanti a uno dei numerosi mercati cittadini, e a Raffaele si illuminarono gli occhi a vederlo. Nuru si immaginò di portarlo a visitarlo, di fargli assaggiare i manghi e la canna da zucchero direttamente dalla bancarella, di fargli comprare un lezo per sua madre, consigliandogli le frasi giuste per il regalo.
Si immaginò di fargli da Cicerone per le vie della città, di portarlo a vedere le tusks , al Lighthouse a vedere il mare, a Fort Jesus in centro città.
Sapeva di stare sognando a occhi aperti, che quel ragazzo era solo uno sconosciuto che aveva avuto bisogno di una mano. Non era raro per lui vedere qualcuno che gli piaceva per strada e iniziare a immaginarsi un futuro fantasioso in cui diventavano amici.
Nulla di tutto ciò importava. Si limitò a guardare fuori dal finestrino, resistendo all’impulso di spiegare al ragazzo accanto a lui le vie e i quartieri che passavano sotto i loro occhi, perché avrebbe dovuto urlare per superare la musica e perché era sicuro che non gli importasse di quello che aveva da dire.
Quando il matatu entrò nel quartiere di Nyali, Nuru iniziò a fare più attenzione. Si infilarono in una viuzza trafficata, troppo stretta per entrambi i sensi di marcia, eppure le macchine continuavano ad arrivare.
Vide il loro indirizzo che si avvicinava, il controllore si voltò verso di loro e batté il pugno tre volte sul cassone, facendo rimbombare il colpo. Il matatu inchiodò, il rumore della frenata gli raschiò i timpani.
«Dobbiamo andare» gli disse, facendogli cenno di alzarsi. «Forza.»
«Andiamo, okay» mormorò lui, per poi alzarsi e procedere con difficoltà verso l'uscita del mezzo.
Quando furono all'esterno, l'odore di salsedine mista a gasolio li investì. Le strade erano meno accalcate di Moi Avenue, e c’erano molti più turisti bianchi rispetto al centro città.
Raffaele sembrava più a suo agio in quell’ambiente, e si sentiva in lontananza il rumore della risacca del mare, che calmava i nervi e aiutava a distendersi dopo quel viaggio di fortuna.
Nuru riguardò l’indirizzo sul biglietto e lesse il numero civico. «Dovrebbe essere quella là» disse, indicando una casetta bianca piuttosto bassa e tozza, inglobata tra le case al mare degli europei.
Raffaele annuì, ma non camminò verso la porta indicata da Nuru. Restò fermo dov’era a guardarlo, uno sguardo che sembrava vedere più di quanto Nuru fosse disposto a mostrare. Credersi esposto e a carte scoperte fece sentire male e a disagio una parte di lui; a un’altra parte sembrò invece che non potesse esserci niente di meglio.
«Grazie» disse il ragazzo, poi parve titubare. Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma scosse la testa.
«Che c’è?»
«Niente. Era una cosa stupida.»
«Puoi dirmela.»
Raffaele sorrise di nuovo, un sorriso imbarazzato. Gli occhi di Nuru scesero subito a cercare la fossetta, e sentì il cuore gonfiarsi quando la trovò.
«Non fa niente. Grazie ancora. Grazie, grazie. Io vado.»
Nuru annuì, ma qualcosa in lui gli diede una fitta di delusione, proprio al centro del petto.
Una voce dentro di lui gli suggerì di scambiarsi i numeri. Di dirgli che se mai avesse avuto bisogno avrebbe potuto chiamarlo quando voleva.
Ignorò quella voce irrazionale che gli dava consigli irrazionali. Aveva già aiutato quello mzungu sin troppo, non c'era nessun bisogno di ottenere il suo numero di cellulare. Aveva trovato quello che cercava, non aveva più bisogno di lui.
Guardò la zazzera biondo cenere allontanarsi verso la casa designata, e attese per essere sicuro che fosse davvero dove doveva andare. Lo vide suonare, poi un uomo bianco aprì la porta e lo vide salutarlo stringendogli la mano.
Era fatta.
Una parte di lui ci restò male, aveva sperato che il loro viaggio fosse stato a vuoto, così da doverlo riaccompagnare a casa.
Non accadde, lui attese di vederlo sparire dentro l’abitazione e sospirò.
Avrebbe dovuto cercare un altro matatu, e avrebbe dovuto prenderlo da solo stavolta. Se sua madre avesse saputo l’avrebbe... no, meglio non pensarci.
Attraversò la strada con una strana sensazione al petto. L’incontro di quella mattina l'aveva turbato, si era sorpreso di sé stesso vedendosi prodigarsi così tanto per uno sconosciuto.
Si mise ad aspettare un matatu, gli occhi ancora fissi sulla casa.
Sapeva che non avrebbe mai più visto quel ragazzo, eppure una parte di lui continuò a pensarci, per tutto il viaggio di ritorno.
Note autrice
E così, Raffaele e Nuru si sono incontrati. Nuru ha accompagnato Raffaele sino a Nyali saltando la prima ora e prendendo il matatu anche se sua madre gliel'ha sempre vietato.
Ma cos'è questo matatu di cui parlo? I matatu sono il più diffuso mezzo del Kenya, dei furgoncini che sono un misto tra un pullman e un taxi. Come un pullman infatti caricano decine di persone per tanti indirizzi diversi, ma come un taxi non hanno fermate prestabilite ma ti portano proprio alla tua destinazione, a patto che sia nel quartiere dove sono diretti. Vi lascio un’immagine di due matatu qua sotto, sono spesso personalizzati e dipinti nei modi più strani, anche se di recente il governo ha tentato di uniformarli come un mezzo pubblico. Per le persone del posto sono molto economici, il prezzo arriva anche a due, tre scellini a corsa (circa un centesimo), mentre per gli stranieri i prezzi si alzano a qualche decina di scellini (sui cinquanta cent).
Sono mezzi popolari pericolosi, non è raro venire taccheggiati a bordo, e sono noti per la guida spericolata.
Nuru in questo capitolo si è così lasciato irretire da un paio di dolci occhioni azzurri, andando fuori dalla sua comfort zone. Nel prossimo lo vedremo rientrare a scuola e conosceremo i suoi migliori amici, Hassan e Qaali, che saranno punti fermi nella storia.
Con la speranza che questo primo incontro vi sia piaciuto, ci aggiorniamo venerdì!
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