Combattere
Caillean se ne stava rannicchiata nella cella dove l'avevano rinchiusa, con le gambe strette al petto e il viso affondato nelle braccia per celare gli occhi gonfi di pianto. Un refolo d'aria si infilò sotto gli abiti leggeri e sporchi, penetrando fin dentro le ossa e procurandole l'ennesimo brivido freddo. Nonostante fosse estate, quella notte a Merite sembrava essere tornato l'inverno.
"Voglio tornare a casa..."
Il pensiero del piccolo camino di casa sua, delle fiamme scoppiettanti e dello stufato caldo di sua madre la riempì di tristezza e lo stomaco si contorse in preda ai morsi della fame. Affondò le unghie nelle braccia, scavando delle piccole mezzelune nella pelle. Il dolore inflitto da quelle nuove ferite le procurò delle fitte acute e riscosse il suo corpo dal torpore.
L'avevano portata nelle prigioni due giorni addietro, dopo il ritrovamento del corpo di Elyn, la figlia della fruttivendola. L'aveva scoperta nel bosco, durante la sua battuta di caccia, riversa in una pozza di sangue densa e vermiglia. Poi era successo tutto troppo in fretta perché potesse realizzare il motivo per cui intorno a lei si fosse scatenato il caos. Aveva urlato mentre le guardie la trascinavano via, ma nessuno l'aveva udita: in mezzo alle grida e agli insulti, la sua voce era rimasta ad aleggiare nell'aria, inascoltata. La disperazione aveva ceduto presto il passo alla stanchezza e nella sua testa era sceso il silenzio. Aveva visto la gente strillare, le lacrime bagnare i loro volti trasfigurati dalla rabbia, ma era come se non si trovasse davvero lì, come se ogni cosa fosse ammantata di nebbia. L'unica cosa che era rimasta impressa a fuoco nella sua mente era il corpo di Elyn, le vesti bianche lorde del suo stesso sangue e gli occhi vitrei, senza vita.
Aveva camminato zoppicando fino alle prigioni, stringendo i denti per non incespicare o cedere al dolore delle percosse, ma durante il tragitto per le vie della città un odore simile a quello che aveva sentito nella foresta aveva cominciato a diffondersi ovunque. Aveva storto il naso disgustata, poi aveva alzato lo sguardo, incontrando solo il ghigno soddisfatto di alcuni uomini. Aveva sbattuto le palpebre con un senso di oppressione crescente nel petto. Improvvisamente, le rovine delle antiche mura della cittadella erano entrate nel suo campo visivo, mura antiche, costruite pietra su pietra dagli artigiani e architetti al servizio di uno dei vecchi re. Sopra di esse, infilzata su una picca di ferro, si ergeva una testa mozzata in mezzo a tante altre, in uno scenario macabro e inquietante.
- No... -
Caillean aveva avvertito le energie abbandonarla. Le ginocchia non avevano retto più il suo peso ed era caduta al suolo con un tonfo. L'aria era impregnata del tanfo di carne marcescente, un effluvio putrido che le aggrediva con violenza le narici. Ad un tratto, si era sentita afferrare per i capelli e tirare su con uno strattone.
- Guarda! Guarda cosa succede ai mostri come te! -
L'uomo che l'aveva artigliata per la cute le aveva girato la testa, costringendola ad osservare l'orrendo spettacolo. E Caillean l'aveva fatto, anche se avrebbe voluto distogliere lo sguardo. Era rimasta ferma a fissare quella testa ricoperta di lerciume, il cui viso non era che l'imitazione grottesca di una maschera umana, senza riuscire a voltare il capo. Aveva cercato invano qualche particolare che smentisse i suoi sospetti, qualcosa che potesse negare quell'innegabile realtà. Nonostante il catrame che impiastricciava le ciocche di capelli ancora attaccate al cranio, aveva riconosciuto una sfumatura rossastra, identico a quello che la natura le aveva donato alla nascita. Tutte le parole che le erano rimaste incastrate in gola proruppero fuori in un urlo di disperazione, spazzando via il silenzio nella sua testa.
- Papà! -
Airis si svegliò di soprassalto, soffocando a fatica un grido. Ansimando, si passò una mano tremante sulla fronte sudata e poi sul cuore, che batteva impazzito contro le costole come se volesse sfondarle. Girò di scatto la testa verso destra, assicurandosi di non aver svegliato anche Ledah, ma a giudicare dal ritmo regolare del suo respiro sembrava tutto tranquillo.
Si abbandonò di nuovo sul letto e chiuse gli occhi, mentre le dita correvano alla gola. Per un attimo aveva temuto di aver urlato davvero e che le sue grida avessero destato tutti. In quel caso, non sarebbe stato facile scampare alle loro domande, soprattutto non dopo ciò che l'elfo le aveva chiesto riguardo al proprio passato. Si strinse nelle lenzuola e cercò di fermare il tremore che non accennava ad abbandonare le sue membra. In quegli ultimi giorni il suo sonno era stato di piombo, un continuo susseguirsi di notti nere dalle quali si era svegliata stremata.
Si sedette sbuffando e poggiò i piedi a terra, lasciando che il freddo del pavimento la scuotesse. Quindi si alzò e con passo incerto barcollò verso la porta. Abbassò la maniglia con delicatezza, attenta a non fare rumore, e la spinse. Imprecò tra i denti quando essa cigolò sui cardini. Gettò un'occhiata alle sue spalle, giusto per sincerarsi di non aver disturbato Ledah, e dopo aver accostato la porta uscì. Si mosse a tentoni nel buio, tastando la parete. Percepiva ancora le gambe molli e nelle sue orecchie continuavano a rimbombare le urla della folla, i loro insulti. Serrò le palpebre per alcuni istanti, incapace di sopportare la visione della testa mozzata di suo padre, ricoperta di catrame per preservarla dal degrado, la pelle attaccata da mosche e vermi e gli occhi verdi divenuti banchetto per i corvi. Si appoggiò al muro e premette una mano sulla bocca, mentre brividi freddi si intrufolavano sin nelle ossa. Decise di sbrigarsi, aveva bisogno di tergersi la faccia e schiarirsi le idee. Corse nella stanzetta adibita a bagno, sbatté la porta e si piegò su un secchio di metallo vuoto che doveva servire da pitale, rigettando violentemente tutto quello che aveva nello stomaco. Strinse convulsamente il bordo del secchio e si sforzò di espellere tutto lo schifo che aveva in gola, compreso il sapore rancido che le era rimasto incollato al palato e sulla lingua. Avrebbe voluto un po' d'acqua per sciacquarsi la bocca.
- Caillean, un vero soldato mica si lava con l'acqua calda come le signorine! -
Il suo sguardo stralunato saettò di lato, trovando un secchio in ottone pieno del desiderato liquido cristallino. Margharet lo riempiva sempre ogni sera, prima di andare a dormire. Lo raggiunse e immerse mani e viso. Il freddo le graffiò la pelle, scuotendola fin dentro l'anima.
- Bambina mia, ricordati che papà ti vorrà sempre bene. -
Tante goccioline scivolarono lungo il profilo del mento. Percepì la vestaglia aderire al corpo sudato mentre affogava le lacrime nell'acqua gelida.
- Che le sia tolta la vista! -
Premette le dita sulle tempie e cominciò a massaggiarsele con movimenti circolari. Tentò di ricacciare indietro quei frammenti di passato che erano tornati a tormentarla e per tutto il tempo che le occorse rimase immobile, in attesa che la nausea si placasse e che quelle immagini svanissero. Presto i polmoni tornarono ad incamerare ossigeno correttamente e sospirò di sollievo. Inspirò profondamente, scuotendo la testa frustrata.
Da quando Copernico se n'era andato, non faceva altro che rivivere quei terribili momenti. Non ricordava nemmeno più da quanti anni aveva smesso di sognare suo padre e il giorno del proprio processo. Quando era entrata nell'esercito il suo maestro le aveva imposto di dimenticare, poiché solo in questo modo, a suo dire, sarebbe riuscita a tornare a vivere. All'inizio era stato complicato. Gli allenamenti la sfiancavano abbastanza da permetterle di dormire sonni tranquilli, ma durante l'inverno, quando molti suoi commilitoni venivano congedati e restava sola, riprendeva a sognare. Sia che dormisse sia che fosse sveglia, continuava a vederlo. Adesso, però, se si fosse gettata dalla finestra, non sarebbe riuscita a porre fine al dolore. L'unico risultato che avrebbe ottenuto sarebbero state un paio di fratture che Lysandra si sarebbe premurata di curare per il solo gusto di torturarla. L'unico modo che aveva per sfuggire a quel circolo vizioso era eliminare Copernico.
"Devo farlo o perderò il senno per davvero. Mi sono lasciata trascinare dalla curiosità, ma se non voglio diventare il nuovo giocattolino di quella pazza, devo portare a termine la missione."
L'idea di togliere la vita al mago non la entusiasmava, specialmente dopo quello che le aveva rivelato e dopo il tempo trascorso in quella casa. La gentilezza di Margharet, la sincerità di Copernico e l'allegria contagiosa di Melwen le avevano restituito il calore di una famiglia, sciogliendo il gelo che racchiudeva il suo cuore come una spessa corazza.
E poi c'era Ledah.
Esitò quando la figura dell'elfo si materializzò nella sua mente. Delineò i lineamenti duri del suo volto, gli occhi di una tonalità muschiata, le braccia muscolose che l'avevano fatta sentire protetta e il sorriso scanzonato tipico di quando scherzava. Schioccò la lingua, sdegnata da quei sentimenti che sapeva le avrebbero impedito di recarsi in camera e prendere la spada per rivolgerla contro il nemico.
"Ma forse non è tutto perduto. Domani Copernico tornerà, gliene parlerò e cercherò una soluzione con lui. Sicuramente insieme troveremo un modo per risolvere il problema."
Allungò la mano verso destra, alla ricerca di un panno con cui asciugarsi. Tastò sul mobiletto a ridosso del muro, afferrò uno straccio pulito e se lo strofinò sul viso. Alzò il volto, incrociando il riflesso nello specchio davanti a sé, e l'immagine che esso le rimandò la pietrificò sul posto: c'era sangue dappertutto, sulla sua faccia, sullo specchio, sulle pareti, sul panno. Un macabro lago scarlatto imbrattava la stanza, mentre raccapriccianti schizzi rossi adornavano le pareti in fantasiosi scarabocchi. Quel liquido denso e viscoso ricopriva anche le sue mani tremanti. Sbatté le palpebre più volte, sempre più allucinata, e si allontanò dallo specchio in preda al terrore. Si guardò intorno con il cuore che batteva all'impazzata e pulsava nelle orecchie. Provò ad urlare, ne avvertiva l'impellente necessità, ma le parole morirono sul nascere, soffocate dal groppo che le ostruiva la gola. Arretrò e sentì le energie abbandonarla. Inciampò sul secchio in cui aveva vomitato ed esso si rovesciò. Altro sangue si riversò a terra, sporcandole i piedi e le caviglie. L'odore rese l'aria irrespirabile e le fece contrarre le viscere. Dopo tutti gli anni trascorsi in battaglia avrebbe dovuto esserci ormai abituata, eppure gli parve di essere tornata una bambina, debole e indifesa.
Corse verso la porta, agguantò la maniglia e vi si appoggiò sopra con tutto il peso. L'uscio si aprì, scaraventandola nel corridoio. Cadde in ginocchio, ma tentò subito di rimettersi in piedi, scalciando via il sangue quasi fosse una serpe velenosa. Il flusso non si arrestava, la circondava, quasi sgorgasse da una fonte invisibile. Rotolò su un fianco senza fiato, gli occhi spalancati che saettavano da una parete all'altra e osservavano la cascata di fluido vermiglio che colava su ogni superficie, ricoprendola interamente.
- Melwen! Margharet! - gemette.
Puntò le ginocchia a terra e si diede lo slancio, trascinandosi verso le scale e poi giù in salotto. Il suo istinto le urlava di sbrigarsi, perché se non fosse arrivata in tempo per loro sarebbe stato troppo tardi. Man mano che avanzava, si sentì pervadere da una strana inquietudine, che la spronò ad andare sempre più veloce. Non appena si trovò in prossimità del salotto, si arrestò di colpo, concentrandosi sui suoni che udiva provenire dall'interno della stanza.
Dei rantoli, respiri affannati e pesanti, sofferenti.
Uno sgocciolio ritmico e costante.
Si affacciò sulla soglia col cuore in gola e per qualche istante si ghiacciò: c'era sangue sulle pareti, schizzi disordinati come confuse ragnatele intessute da un predatore vorace. Il tanfo di putrefazione la schiaffeggiò, facendole lacrimare gli occhi. Con i piedi di piombo entrò in salotto e stilò un resoconto mentale di tutti i dettagli, ma poi, richiamata da qualcosa, una sensazione indefinita, girò il capo alla sua destra: il corpo decapitato di Margharet era disteso sul tavolo da pranzo, la ferita mortale ancora fresca rivolta verso di sé. Il sangue gocciolava sul pavimento in un ritmico ticchettio. Vicino a una della gambe giaceva la testa, con il viso incorniciato da una folta chioma castano chiaro e gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali dalle spesse lenti. Airis l'osservò stordita. Non sembrava affatto Margharet. Non sembrava neppure una scena reale.
Si trascinò verso di lei, quando la sua attenzione venne attirata da un'ombra. Si voltò a rallentatore. Sopra il camino, come un burattino rotto, pendeva Copernico. O quel che ne rimaneva. La mandibola era stata completamente asportata e un orecchio e buona parte del viso erano stati tagliati da qualcosa di affilato. Conficcata nel suo petto fin quasi all'elsa, sotto i raggi cinerei della luna, una spada argentea rifulse di un debole alone. Airis studiò con aria assente l'arma che inchiodava il corpo alla canna fumaria e per qualche istante credette che fosse la sua fidata compagna, la spada che si era fatta forgiare quando era diventata un Cavaliere. Ma non poteva esserlo, perché l'aveva lasciata in camera sua.
"Non è possibile... un incubo, ecco cos'è!"
Il sale delle lacrime si mischiò al sudore e la disperazione si impadronì di lei. Rimase immobile, paralizzata dal terrore come mai lo era stata, colpita da quella sconcertante consapevolezza.
Il suo sguardo guizzò da Margharet a Copernico, tutti e due in un bagno di sangue, tutti e due morti.
- Cosa hai fatto a mamma e papà? -
La voce tremante di Melwen alle sue spalle le provocò un sussulto. Si voltò e incrociò l'espressione sconvolta della bambina, che la osservava con occhi sgranati. La vide indietreggiare lentamente, mentre il suo incarnato si faceva ancora più pallido.
- Perché li hai uccisi?! - singhiozzò inorridita, - Perché? Noi ti volevamo bene! -
- Non sono stata io! - esclamò Airis.
Si riscosse dall'immobilità, azzerò le distanze e l'afferrò saldamente per le spalle: - Lo giuro sugli dei, Melwen, non sono stata io! No, non importa. Dobbiamo andare via prima che l'assassino torni. -
La piccola scosse la testa e puntò lo sguardo sul pavimento. A un tratto, un ghigno sardonico le stirò le labbra, ma la guerriera non se ne accorse, dato che il viso di Melwen era in penombra e coperto dai capelli.
- No, Caillean, non posso. - mormorò e si passò una mano sulla gola.
Sotto la pressione dell'unghia si aprì uno squarcio, che pareva una smorfia di scherno.
- Non posso seguirti, perché tu hai ucciso anche me. -
La testa rotolò via dal collo, le ginocchia cedettero e il corpo precipitò a terra come un sacco.
Fissò stordita il cadavere della bambina, ma si rifiutò di credere che quella fosse la realtà. Forse si trattava di un'allucinazione spaventosamente realistica, ma pur sempre un parto della sua mente, per quanto malato.
Un secondo più tardi, dietro quella bambola di carne morta, Airis intravide una figura nera: un cavaliere vestito con un'armatura che sembrava fusa con il suo corpo. Un paio di lame nere come l'inchiostro partivano dai bracciali dell'armatura come due artigli e gli spallacci erano simili ad ali di drago. Indietreggiò verso il muro, terrorizzata.
- Le... Ledah? - biascicò insicura.
Il ricordo della trasformazione dell'elfo, avvenuta quel lontano giorno al cospetto del Signore della foresta, riemerse dalla sua memoria e le attraversò il cervello con la violenza di un tuono. Il guerriero nero avanzò, le iridi cremisi che rifulgevano di un bagliore ferale. Airis si appiattì contro la parete, facendo saettare lo sguardo a destra e a sinistra in cerca di una via d'uscita. Poi il riflesso argenteo di una spada, ben salda tra le mani di quell'essere, attirò la sua attenzione. La punta graffiava il pavimento passo dopo passo e lo scintillio metallico dell'argento alchemico le procurò un brivido freddo. Quella era la sua spada.
Ledah l'agguantò per il collo e la tirò su. Sentì l'aria bloccarsi in gola, intrappolata dalla poderosa stretta. Si dimenò, scalciò, ma a nulla valsero i suoi tentativi di liberarsi. Annaspò in cerca di ossigeno, ma le forze le vennero meno. All'improvviso la figura dell'elfo mutò: in pochi istanti l'elmo svanì e il volto venne incorniciato da una cascata di capelli rossi, i lineamenti si addolcirono, mentre le iridi assunsero una familiare sfumatura verde intensa.
- Sei me... - rantolò la guerriera, scrutando esterrefatta la se stessa che la stava strozzando.
- No, Airis. Tu sei me. -
Il suo cuore smise di battere ed ebbe l'impressione che pure il tempo si fosse fermato. Percepì la punta della spada sul petto, proprio sopra la cicatrice che si era procurata quell'infausto giorno in cui aveva perso la vita. Infine la lama penetrò nelle carni, togliendole il fiato. Il sapore del sangue le invase la bocca e proruppe fuori dalle sue labbra in stille cremisi.
Airis si svegliò bruscamente. Si tastò il viso e le mani in preda al panico, ma del sangue non vi era alcuna traccia. Si guardò intorno spaesata, sforzandosi di mettere a fuoco gli oggetti della stanza. Cercò con gli occhi la propria spada e la intravide appoggiata al muro di fronte, dove l'aveva riposta. Un pulviscolo argenteo aleggiava nell'aria attorno alla lama, danzando assieme ai raggi di luna.
Si terse il sudore dalla fronte, stringendosi nelle lenzuola umide nel tentativo di riacquistare un po' di calore. Inspirò svariate volte per scaricare, per quanto possibile, l'angoscia che quell'incubo le aveva riversato addosso.
"Un sogno dentro a un sogno."
Non poteva più rimanere in quella casa, non poteva assolutamente più attendere, ma soprattutto non poteva accettare ciò che aveva visto. Sarebbe fuggita prima che accadesse.
"Che si fotta quella donna folle. Io non diventerò un'assassina di innocenti."
Si alzò dal letto e si tolse rapidamente la camicia da notte, cercando a tentoni nell'oscurità gli abiti che aveva indossato quel pomeriggio. Si vestì in fretta, afferrò la spada e si avviò alla porta, quando un pensiero la bloccò sul posto. Si girò lentamente verso Ledah, scrutando la sua figura nascosta dalla pesante coperta. Dormiva ancora.
"Se lui morisse, riuscirei a fermare i piani di Lysandra."
Strinse l'elsa, trattenne il fiato e si avvicinò. Il pavimento scricchiolava ad ogni suo passo come un sinistro avvertimento, ma Airis non vi diede peso. Si fermò alla sinistra del letto, fissò ancora per un istante il viso placido dell'elfo e sguainò la spada. Dopodiché, la innalzò sopra la testa. Serrò le palpebre, assaporando l'idea della futura libertà. Sarebbe bastato un unico colpo preciso, un fendente abbastanza potente per tranciargli di netto la testa. Serrò la presa sull'elsa e aprì gli occhi. Tuttavia, all'improvviso, nella semioscurità intravide un barlume verdastro e tutto il coraggio raccolto scemò di colpo.
Ledah era sveglio e la stava squadrando dal basso, impassibile. Per alcuni secondi il tempo parve arrestarsi ed entrambi rimasero immobili, l'uno immerso nello sguardo dell'altro.
"Cosa sto facendo?"
Quella domanda la colpì con violenza, frastornandola. Un disgusto profondo verso se stessa l'assalì, mentre le braccia ricadevano inerti lungo i fianchi. Però, prima che l'elfo potesse reagire, si catapultò fuori dalla stanza e poi giù per le scale. I suoi passi rimbombarono nella casa silenziosa, ma ad Airis non importò di disturbare il sonno degli ospiti. L'essenziale adesso era fuggire, allontanarsi più in fretta possibile da quella città.
Spalancò la porta, oltrepassò la soglia e si fiondò all'esterno come se fosse stata inseguita da un esercito di demoni. Fuori aveva già cominciato ad albeggiare. Un sole rosso rischiarava il cielo e inghiottiva inesorabilmente la luna e le stelle. A un certo punto inciampò e cadde bocconi, scorticandosi le ginocchia e sporcando di terra i pantaloni. Le lacrime premettero per uscire, ma le ricacciò violentemente indietro. Soffocò i singhiozzi e osservò la mano destra, che aveva proteso dianzi per attutire la caduta: era coperta di sangue e sul palmo una ferita slabbrata pulsava dolorosamente. La studiò inorridita, mentre le immagini del sogno le piombavano addosso come macigni. Si morse il labbro per non urlare, per poi riprendere la fuga con sempre più determinazione.
Via via che si allontanava dalla casa di Copernico, percepiva l'angoscia e la paura evaporare. Il battito frenetico del suo cuore, la fatica e il dolore le impedirono di pensare e la spinsero a continuare la folle corsa. Più volte travolse alcuni contadini, in marcia con i loro carri sui sentieri di campagna, ma, nonostante le loro accese proteste, non si voltò mai indietro. Si sentiva di nuovo cieca. Qualcuno le artigliò il braccio per fermarla e una voce sconosciuta le arrivò alle orecchie, ma si liberò con un ringhio e proseguì più spedita.
Corse per un tempo infinito, ma alla fine, esausta, dovette fare una sosta. Si appoggiò a un albero sul limitare del sentiero e si piegò sulle ginocchia. Aveva il fiato corto, il cuore quasi le scoppiava nel petto e le gambe la imploravano per ottenere una tregua. Girò il capo a destra e a sinistra, constatando di aver percorso già un bel po' di strada, ma non abbastanza. Gettò un'occhiata in direzione di Luthien e individuò una piccola carovana che si accingeva ad entrare in città, accompagnata da una scorta di uomini a cavallo, probabilmente mercanti di stoffe che volevano accaparrarsi i posti migliori al mercato. In lontananza, verso il molo, vide attraccate alcune navi, mentre altre già veleggiavano sulle acque del Mesos, il piccolo affluente del Tabor. Le scrutò avanzare nella corrente, chiedendosi perché tutti si affannassero così tanto per un mercato ormai quasi morto. Le sovvennero le parole di Mirya, il suo discorso su quanto fosse stata prospera una volta Luthien, e si domandò se quella non fosse la cosiddetta lotta per la vita, l'infruttuoso tentativo degli esseri umani allo scopo di preservare una parvenza di normalità in una realtà sconvolta dalla guerra. Poi il suono delle campane echeggiò nella vallata.
Scrollò il capo, disinteressata. Fece il punto della situazione e decise di recarsi in prossimità della sporgenza dall'altra parte della città. Ricordava distintamente si essere giunta da lì assieme alla sua carovana. Lasciò il sentiero dirigendosi verso l'interno della foresta, cosicché fu costretta a ridurre considerevolmente l'andatura. La stanchezza cominciò a farsi sentire e man mano che si inoltrava nella vegetazione era sempre più difficile camminare. Gli arbusti e i rametti dei cespugli le si impigliavano nei vestiti e in alto l'intricato groviglio di foglie le ostruiva la visuale del cielo. Perse l'orientamento dopo poco e dovette fermarsi per raccogliere le idee. Girò la testa da una parte all'altra, cercando di individuare il Nord o un qualsiasi segno che l'aiutasse a capire in quale dannato angolo di mondo si fosse cacciata. Credeva di aver imboccato la direzione giusta, ma ora non ci avrebbe scommesso poi tanto. Quando aveva deciso di non proseguire sul sentiero aveva previsto una simile eventualità, ma si era convinta che facendo appello alle sue conoscenze di sopravvivenza sarebbe riuscita a districarsi facilmente in mezzo a quel labirinto di alberi. Con la vista offuscata e i pensieri che non facevano altro che vorticarle disordinati nella testa, si era però rivelato più difficile di quanto si aspettava. Si trascinò fino a un piccolo spiazzo ricoperto da un tappetto di foglie secche e si accasciò a ridosso di un tronco. Si raggomitolò su se stessa, massaggiandosi le ginocchia graffiate con la mano sana.
"Se da qui procedo verso est, dovrei riuscire ad aggirare Luthien. Poi se continuo verso Nord e mi inerpico per qualche sentiero, dovrei riuscire ad arrivare all'altura. Da lì..."
Socchiuse gli occhi e provò a calmare il caos che si agitava in lei, ma l'orrore e tutte le sensazioni che l'avevano pervasa durante la notte tornarono alla carica con prepotenza. La mano scivolò sulla cintola e trovò la spada. Le dita si chiusero attorno all'elsa e strinsero con forza, fino a che non percepì il sangue tornare a fluire più lentamente nelle vene.
"Cosa sono diventata? Perché ho pensato di fare quella cosa? Io... io sono un Cavaliere. I Cavalieri non uccidono i deboli e gli innocenti, li proteggono."
- Vuoi proprio sapere cosa sei? -
La voce tagliente di Lysandra la gelò. Quando sollevò gli occhi vide il Lich che torreggiava su di lei, affascinante e terribile come sempre. Rivestita con un abito elegante di seta nera e rifiniture porpora e i capelli cinerei trattenuti da un diadema disseminato di pietre preziose, aveva tutto l'aspetto di una regina. Se non fosse stato per le iridi rosse e il ghigno sardonico, Airis non avrebbe mai sospettato che la regina di Esperya fosse la anche sua aguzzina.
- Mia cara, credi davvero di essere ancora un Cavaliere? Pensi di poter ancora entrare nei templi degli dei a testa alta? Quanto sei ingenua. -
Airis si alzò di scatto sfidandola con lo sguardo, la mano già stretta sull'elsa.
- Non ti permetto di infangare il mio nome, demone. Non sono una vile assassina. Sono stata costretta a fare quel che ho fatto. -
Lysandra si mordicchiò il labbro pensierosa.
- Quindi non hai provato piacere quando hai infilzato Eminthral, il ministro del tesoro del re che amava così tanto il suo popolo da vessarlo con pesanti tasse. Oppure... oh, sì, sua eccellenza Bersor, quell'ometto grasso e grigio che si divertiva a giocare con i cuccioli dei mezzosangue. -
Airis fece una smorfia disgustata: - Sai meglio di me che meritavano la morte. Le loro azioni non erano degne del ruolo che ricoprivano. -
- Ovviamente. Ma non ti hanno insegnato che chiunque, sia esso nobile o contadino, merita un processo? Vedi, il problema non è se loro erano colpevoli o meno. In fin dei conti, tutti noi abbiamo commesso errori di cui non andiamo particolarmente fieri. - si fece improvvisamente seria, - Anche loro avrebbero meritato di essere giudicati dalla corte del re, al cospetto dei loro pari. E tu, invece, cosa hai fatto? Li hai uccisi uno ad uno. -
- Taci. - ringhiò, - L'ho fatto perché me l'hai ordinato. Non avevo scelta. -
- Forse... - Lysandra si allungò verso di lei e le disegnò il profilo delle labbra con i polpastrelli, - Ma ciò non toglie che tu abbia provato piacere nel farlo. -
Airis spalancò gli occhi e si ritrasse inorridita: - Non è vero. -
- Invece sì. Ti ho osservata e ho visto la smorfia soddisfatta quando hai calato la tua spada su di loro, la tua espressione estatica davanti ai loro volti disperati e l'indifferenza di fronte alle suppliche di risparmiarli. - la sua mano corse alla spada, - Questa lama con cui hai giurato di proteggere gli innocenti e portare giustizia è lorda del loro sangue. Per quanto tu possa lavarla, esso non potrà mai andare via. -
- No! - gemette e nascose il viso fra le mani.
- E' brutta la verità, eh? - rise sommessamente, - Il tuo istinto ti ha spinta a fare quel che hai fatto. Avresti potuto opporti ai miei ordini, offrendoti in sacrificio per gli ideali che avresti dovuto difendere. Invece hai tradito la fede verso il tuo credo di Cavaliere e voltato le spalle a tutto. Prima ancora che i cadaveri di tutte le tue vittime fossero freddi, hai complottato e pianificato la morte di molti altri con una lucidità degna di un sicario. - con uno scatto accorciò le distanze e le sollevò la testa, - Per anni hai imbastito scuse per giustificare le tue azioni a te stessa, hai dato la colpa a me e alla tua nuova natura perché non sei mai stata in grado di accettare l'anima nera con cui sei venuta al mondo. -
- No... - singhiozzò.
Lysandra le afferrò un braccio, tirandola a sé, e le unghie affondarono nella carne.
- Pensi di essere obbligata a fare quel che fai, ma il tuo non è un corpo vuoto come quello dei non-morti. Tu hai una volontà e hai egoisticamente deciso di obbedirmi nella speranza di poter riposare in pace. Non sei più un Cavaliere, Airis. Hai smesso di esserlo quando, quel giorno, ti sei disperatamente attaccata alla vita e sei diventata mia. Sei una figlia di Aesir, ora, e sarai parte del Suo esercito di distruzione quando Egli tornerà a marciare su questa terra. - dichiarò secca, mollò la presa e si allontanò.
La guerriera si rannicchiò in posizione fetale, incapace di replicare a quelle parole taglienti e grondanti di verità.
"Dei, se esistete, perdonatemi. Per favore..."
Lysandra si inginocchiò di fronte a lei.
- I peccati che hai commesso ti rendono una Sua degna figlia, Caillean. - sussurrò con voce melliflua, - Aesir è fiero di come hai eseguito i Suoi ordini. Adesso, però, devi pagare il prezzo della tua disobbedienza e tale prezzo è il dolore. -
Airis la scrutò allarmata. Il suo istinto le suggerì di scappare, ma le gambe si rifiutarono di obbedire ai suoi comandi.
Il Lich sorrise. Una scintilla rapace danzò in quelle iridi scarlatte quando alzò il braccio e schioccò le dita. Trascorsero un paio di secondi, poi un boato riempì l'aria e Airis udì un ruggito animale, una sorta di stridio che le ferì i timpani. Si tirò in piedi di scatto e guardò Lysandra piena di terrore. Quella si portò un dito alle labbra e le fece segno di tacere, socchiudendo gli occhi come se si volesse godere una melodia silenziosa.
- Ecco che comincia. - bisbigliò.
- C-Cosa? -
Un cattivo presentimento la fece tremare. La donna inclinò la testa e le indicò un punto nella vegetazione.
- Poco più avanti si trova l'altura che tanto desideravi raggiungere. Vai a goderti lo spettacolo. Sarà una prima rappresentazione degna di lode, ma se non ti sbrighi te la perderai. -
Presa dal panico, Airis le diede le spalle e cominciò a correre. Spostò i rami che l'ostacolavano, li strappò con stizza e agitazione e macerò in pochissimi minuti la distanza che la separava dalla meta. L'angoscia le aveva assediato la mente, non riusciva a ragionare in maniera lucida. Aveva bisogno di vedere. Non appena uscì dalla vegetazione, i raggi del sole le ferirono gli occhi. Si schermò con una mano e aguzzò la vista per scoprire cosa stesse succedendo. In quel momento, comprese la gravità del suo gesto.
Una massa nera e compatta stava per scagliarsi contro la città, un oceano di elmi, lance e scudi come l'inchiostro che partiva dall'orizzonte e invadeva a velocità preoccupante tutta la piana davanti alle bianche mura di Luthien. Era un esercito immenso, una tetra distesa di armature che brillavano di freddi riflessi, quasi a voler sfidare il cielo e la volontà degli dei.
Le guardie di pattuglia sulle mura si ghiacciarono sul posto. Una di queste corse verso il torrione più vicino e suonò il corno di allarme, ma le scosse della terra avevano già annunciato la disgrazia incombente.
Sopra quella moltitudine di soldati, volteggiava un gigantesco drago nero, che si elevava al di sopra di tutto, fendendo l'aria con le sue maestose ali. I suoi occhi scarlatti guizzarono, poi si gettò in picchiata sulle mura senza esitare, sfondandole in un unico, poderoso colpo. Al frastuono si unirono urla di terrore, mentre l'orda si riversava nella città attraverso la breccia creata dalla bestia.
Il frammento di un sogno fatto durante il viaggio le attraversò la mente come una folgorazione. Rivide il drago, il fuoco, i cadaveri e le parve persino di fiutare l'odore del sangue. Si tappò le orecchie, ma non riuscì a chiudere gli occhi, incapace di distogliere lo sguardo dalla carneficina che si stava per consumare sotto i suoi occhi.
- E' solo colpa mia... solo colpa mia... -
Cadde in ginocchio e si abbandonò ad un pianto disperato, il petto scosso dai singhiozzi. All'improvviso si sentì strattonare per un braccio e due mani forti la sollevarono da sotto le ascelle. Alzò il viso rigato dalle lacrime e il cuore mancò un battito.
- Ledah... che... che ci fai qui? -
L'elfo la squadrò con espressione torva. Una serie di potenti emozioni si agitavano nei suoi occhi di giada: rabbia, diffidenza, preoccupazione, angoscia. Airis riusciva a leggerle tutte.
- Come mi hai trovata? - chiese con un fil di voce.
- Raiza ha fiutato il tuo odore. Margharet mi ha dato un tuo abito e lui ha seguito le tue tracce. - rispose secco.
La costrinse ad alzarsi e la guerriera scorse un immenso lupo dal manto bianco che la scrutava dalla fitta vegetazione con palese astio, con la lingua penzoloni e il respiro affannato per la corsa.
- Ma ora abbiamo un problema più urgente di cui occuparci: dobbiamo evacuare la città e salvare quante più vite possibili. -
Airis indietreggiò scuotendo la testa con veemenza: - Non posso aiutarti. -
- Come sarebbe?! È tuo dovere, Airis, non puoi rimanere qui a guardare! -
Lei strinse i pugni e ripeté: - Ho detto che non posso aiutarti. Quella città non può essere salvata. -
"Almeno non da me."
Ledah l'afferrò per le spalle e contrasse la mascella per trattenere la rabbia: - Airis, dannazione, ascoltami! Non abbiamo tempo per litigare. Dobbiamo muoverci prima che sia troppo tardi! Copernico si sta già dirigendo in città, ma da solo non può fare tutto. Dobbiamo andare anche noi. -
- Ma sei sordo o cosa? Non posso fare più nulla! La cosa migliore è andarsene ed evitare il massacro. Luthien cadrà in ogni caso. -
Lui non poteva capire, non avrebbe mai capito come si sentiva.
- E vorresti abbandonare Copernico, Melwen, Margharet, Mirya e tutti gli altri al loro destino? Non puoi. Non dopo tutto quello che hanno fatto per noi. - la studiò per interminabili istanti, - Hai paura? -
Airis vide il drago vomitare una fiammata nella piazza principale, che incenerì indistintamente uomini, donne e bambini. Girò la testa dall'altra parte, mentre un fremito d'agitazione e senso di colpa le annodava le viscere.
- No, non ho paura. - rispose pacata.
"Non di quello che pensi tu."
- Ma allora perché ti tiri indietro? Loro hanno bisogno di te! Sei o non sei un Cavaliere? - la provocò.
Quelle parole colpirono Airis nel profondo.
- Non so perché stamattina tu abbia tentato di uccidermi, ma sinceramente non posso nemmeno biasimarti: il tuo compito è cacciare i mostri come me. Credimi, capisco che tu ora abbia paura di scendere in campo. Tutti abbiamo paura di morire, mio caro Cavaliere del Lupo, però non dobbiamo dimenticarci di essere anche guerrieri: siamo coloro che si gettano nella mischia per difendere chi non ha la forza di imbracciare le armi. -
- Non so se sono ancora degna di quel titolo. - sussurrò.
L'elfo le strinse le mani e Airis si sentì pervadere da uno strano calore.
- Cosa stai facendo? -
Tentò di ritrarsi, ma l'arciere non la lasciò. Avvicinò il viso a quello di lei finché non restarono che pochi centimetri fra i loro nasi, e in quegli occhi Airis intravide un nuovo sentimento, qualcosa a cui non sapeva dare un nome.
- Tu non sei un'assassina. Anche se i tuoi occhi sono vuoti, anche se vai avanti a vivere per inerzia, tutti, me compreso, sanno quanto sia grande il tuo valore. Qualunque cosa tu abbia fatto, non permettere che cancelli le gesta e i sacrifici che hai compiuto per salvare gli uomini e le donne di Amount-vinya, e molti altri prima di loro. -
Un'altra ondata di piacevole calore la pervase come una cascata di acqua termale e le parve di venire avvolta da un delicato velo di luce. Davanti a lei tutte le cose presero una nuova consistenza, mentre i colori si riaccendevano e tornavano a riempire le forme della realtà.
- Anche se in teoria dovremmo essere nemici e non dovrei preoccuparmi di cosa ti frulla nel cervello, penso di aver capito perché hai scelto di diventare ciò che sei. Tu combatti perché credi che a tutti debba essere donata la possibilità di vivere la propria vita; combatti affinché nessuno venga più ridotto in schiavitù e per costruire un futuro migliore; combatti perché ami Esperya e i suoi abitanti con tutta te stessa. Sei il braccio della giustizia e, come me, sai cosa significa veder morire i propri compagni senza poter fare nulla. Non ci è estraneo il senso di impotenza, l'oppressione e la tristezza. Entrambi le abbiamo sperimentate, ma siamo sopravvissuti. Tu lotti con la consapevolezza che la guerra è orribile, non un gioco da cui trarre profitto, ma sai pure che senza di essa a volte è impossibile difendere chi ci è caro. So che ti sembra di non avere più niente da perdere, ma ti prego, Airis, combatti. Combatti per Copernico, per Melwen, per Mirya. Se non vuoi sguainare la spada per te stessa, fallo per loro. - lasciò scivolare via le mani e la fissò intensamente, - Vieni con me, Airis. -
La guerriera esitò. Osservò Luthien, la sua popolazione che, disperata, cercava di salvarsi dalla ferocia dell'esercito nero e dalle fiamme del drago.
"Il dovere di un Cavaliere è difendere i deboli."
- E sia. - disse infine.
Ledah sorrise e si avvicinò al grande lupo, montandogli in groppa. Il sole si infranse sulla sua leggera corazza, accarezzando il metallo degli schinieri e degli spallacci con i suoi raggi.
- Salta su. -
Senza esitare, Airis si sedette dietro di lui e si aggrappò alle sue spalle.
- Raiza, corri più in fretta che puoi. - supplicò l'elfo all'animale.
- Non c'era bisogno di dirlo. - borbottò il lupo in risposta.
Raiza si voltò e cominciò a correre nella foresta. In poco tempo sbucò sul sentiero e si gettò a capofitto verso la città.
- Perché fai tutto questo per me? -
Il sussurro di Airis si confuse nel vento, in mezzo ai gemiti e alle grida che riecheggiavano nell'aria. I fumi dell'incendio avevano oscurato il cielo e si erano addensati in una coltre nera che sembrava annunciare la fine del mondo.
- Vuoi sapere perché? -
La sua voce era incerta, come se stesse parlando più a se stesso che a lei. Sospirò ed esitò prima di aprire bocca. Airis ascoltò attenta e aderì alla schiena dell'altro per udire meglio le sue parole, curiosa più che mai.
- Lo faccio perché credo di... -
Prima che Ledah potesse completare la frase, un potente ruggito simile ad un canto di morte si levò sopra i tetti delle case.
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