Satelliti

Dipingere il vento è la pretesa vana di un artista arrogante. E Magnus Bane era tempesta: affascinante, pericoloso, soprattutto inafferrabile.

Alec aveva trascorso le ultime ore a scandagliare Internet e i database della polizia, fissando l'attenzione su ogni dettaglio, bramoso di saperne di più. Ma, se si escludevano gli innumerevoli flirt attribuitigli dalla stampa, e gli scandali che piovevano sulla sua esistenza come acquazzoni notturni, il profilo dell'uomo rimaneva evanescente.

L'unico dato certo era che gli piacesse farsi fotografare: su quello, Alec avrebbe scommesso le chiavi della Maserati nera che desiderava da anni. Persino le sue mise più sobrie, sfoggiate negli incontri con l'alta società di New York, tradivano un tocco di studiata e quasi trasgressiva eleganza, visibile a chi guardasse con attenzione.

E Alec lo stava osservando con grande attenzione.

Non solo per capire cosa accadesse in quel locale, o perché era stato tanto abile da scomparire per cinque anni - a proposito, come diamine aveva fatto? - ma anche per qualcosa nel suo portamento, nell'atteggiamento scanzonato e insieme magnetico che mostrava in qualsiasi scatto lo ritraesse. Per quella sicurezza esibita in maniera talmente perfetta da sembrare una seconda pelle.

Le foto e gli articoli restituivano l'immagine di un giovane di classe, probabilmente egocentrico, stravagante e... bellissimo, si trovò a pensare Alec a un tratto, dandosi dello stupido.
Si riscosse immediatamente.

Carter aveva ragione: in giro c'era poco, anzi pochissimo. La sua vita patinata sembrava iscritta in un eterno circuito di feste, amori e piaceri di ogni genere, mentre misere erano le indiscrezioni sugli aspetti più intimi della sua persona, sulla sua storia, sulla vita vera, lontana dai riflettori.

Alec si chiese se quell'uomo avesse qualcuno da cui tornare, quando la fiera finiva e desiderava soltanto essere se stesso. Ma chi era, poi?

Quanto ai danni arrecati al locale, che Bane sembrava custodire come un figlio, nessuno ne parlava mai, come se neppure accadessero. Riusciva, Alec non sapeva come, a cancellarli con un colpo di spugna e a condannarli all'oblio. Eppure i rapporti parlavano chiaro.

Non c'era altro modo che fingersi un normale avventore per avvicinarsi al Pandemonium senza destare sospetti. E intuiva pure che una - se non l'unica - delle ragioni per cui era stato scelto consisteva nella sua età, che avrebbe potuto rendere l'operazione più credibile.

Peccato che gli mancasse la scioltezza necessaria per imitare i coetanei e che le sue doti oratorie fossero piuttosto scadenti: non aveva proprio la stoffa per improvvisare conversazioni, o farle proseguire.

Se il capo fosse stato a conoscenza della sua inettitudine sociale, avrebbe di certo agito in maniera diversa.

In fila per entrare all'interno del Pandemonium, Alec non sapeva proprio che cosa aspettarsi. Era circondato da una fiumana di gente che strillava esagitata, da ragazzi di tutte le età impazienti di entrare. Sinceramente non capiva il perché di tutto questo entusiasmo. Aveva sempre odiato feste e posti simili, non facevano per lui. E ora invece si trovava lì, da solo, in mezzo al delirio e vagamente in imbarazzo.

Sei qui per lavoro, continuava a ripetersi come un mantra: in una lista da uno a un miliardo, quel tipo di serata non occupava nemmeno l'ultima posizione.

La fila chilometrica scorreva con lentezza esasperante, finché, dopo quasi un'ora d'attesa, arrivò davanti all'ingresso e il buttafuori lo fece entrare.

Senza che se lo aspettasse, l'interno del locale lo stupì. Aveva lo stesso fascino del proprietario: era innegabile che il tizio ci sapesse fare. La musica era alta, eppure non fastidiosa, le luci colorate creavano un'atmosfera di grande impatto visivo, quasi scenico. Coppie di ballerini si esibivano sulle pedane che attraversavano il locale: eleganti, raffinati, ipnotici. Fu però l'aroma deciso e orientale che aleggiava nell'aria a stregare i suoi sensi.

Continuò a guardarsi intorno, ma di Bane neanche l'ombra. Decise di ordinare una birra, qualcosa di leggero, giusto per ingannare l'attesa e rendersi credibile. Lisciandosi la camicia bianca che aveva ripescato dall'armadio per l'occasione, si avviò al bancone.

Fu per questo che quasi non lo vide scendere le scale.

Si accorse con un attimo di ritardo che la musica era cambiata e si voltò. Le luci adesso calde, dorate, luminosissime, erano tutte puntate su di lui, eppure Alec capì all'istante che l'uomo avrebbe brillato pure al buio.

Si muoveva sinuoso emanando una sensualità impressionante, mentre scendeva con grazia le scale a tempo di musica. Sembrava anche più giovane che in foto, con un filo di barba e quelle ciocche di capelli borgogna che si intonavano alla casacca che indossava. Gli occhi erano contornati da un trucco scuro, mentre anelli e collane d'acciaio adornavano in maniera studiata la sua figura.

Anche da lontano se ne rese conto: aveva un sorriso bellissimo.

E istintivamente cercò un piccolo dettaglio che aveva visto in foto e gli era piaciuto: l'ear cuff a forma di serpente che sfoggiava all'orecchio sinistro anche nelle occasioni più formali. Infatti eccolo lì.

Magnus Bane era enigmatico e forse anche un criminale, ma ti rubava l'aria con il suo sguardo dannato e quel carisma cucito addosso come uno smoking di classe.

Nel corso della serata lo osservò ballare con i clienti, divertirsi - sul serio - con loro, rivolgere a tutti sorrisi incredibili. Era un vulcano di vitalità e sembrava non avere altro pensiero al mondo che far sentire a proprio agio gli ospiti.

Era ovunque.

Intercettava le necessità di tutti prima ancora che avessero occasione di manifestarle e aveva il potere di rendere allegre le persone intorno a sé. Alec non conosceva nessuno con un dono così straordinario e per un istante, un solo attimo, dimenticò la ragione per cui si trovava lì.

Quando Magnus si diresse verso il bancone, a pochi passi da lui, lo trovò impreparato. Il detective abbassò istintivamente lo sguardo.

«Due Martini, per favore», chiese l'altro al barista.

Questi eseguì immediatamente e Alec ne vide scivolare uno davanti al lui. Sollevò lo guardo, sorpreso.

«Non hai ballato per tutta la sera, lasciati almeno offrire un drink.» Gli rivolse un'occhiata ammiccante.

«G-grazie» rispose, incapace di dire altro. Se ne era accorto? Non lo aveva mai visto guardare nella propria direzione.

«Un bel ragazzo come te non dovrebbe fare da tappezzeria.» Lo guardava provocante, percorrendo tutto il suo corpo e tornando ai suoi occhi. Bruciandolo con il suo sguardo ardente.

Questi occhi. Ti scavano dentro le ossa.

Quel pensiero inopportuno comparve nei recessi della mente di Alec causandogli un fastidioso disagio. E Magnus Bane sembrò percepire l'effetto che aveva su di lui, perché sulle sue labbra sensuali comparve l'ombra di un ghigno divertito.

«Balla con me.»

«Non so ballare», rispose più bruscamente di quanto avesse voluto.

Era riuscito ad attirare per un attimo l'attenzione di quell'uomo, ma il suo obiettivo non era certo ballare, rendersi ridicolo e fraternizzare con potenziali sospettati.

Si scrollò immediatamente di dosso quel caos indistinto che gli era piombato addosso senza ragione alcuna; si sentì quasi vulnerabile come in passato, quando ancora si concedeva il lusso di esserlo. Odiava quelle sensazioni ignote e detestava smarrirsi negli occhi ambrati che continuavano a fissarlo ostinati.

Doveva interrompere il contatto: era immune dai giochetti di Bane ed erano finiti i tempi in cui qualcuno potesse arrogarsi la facoltà di esercitare un, seppur vago, controllo sulla sua psiche.

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