III
Solo quando rimisi piede in classe mi accorsi di non aver mangiato nulla. Lo stomaco aveva già brontolato mentre parlavo con Aki, e lì per lì ci misi qualche tempo a comprendere perché lo stesse facendo, tanto ero avvezzo alla mia routine. Mancavano dieci minuti alla fine della pausa pranzo, quindi a occhio e croce avrei fatto in tempo a mangiare, se mi fossi sbrigato. Raggiunsi il mio posto al centro della classe, mi sedetti ed estrassi il bento. Mentre mangiavo gli onigiri che mi ero preparato la mattina prima di recarmi a scuola notai che i miei pensieri si erano fatti vaporei e che stavano viaggiando in luoghi inesplorati. Lo stavano facendo in maniera naturale, come se quel vagabondare mentale fosse anch'esso routine.
In realtà non mi era mai accaduto.
Ero solito raccogliere e plasmare quelle energie in concentrazione pura per poi scaricarla diligentemente durante le ore di lezione e quelle di studio a casa o in biblioteca. Non ero il migliore studente della classe, ma i miei voti erano comunque sopra alla media. Diciamo che l'ansia da prestazione che assillava molti dei miei coetanei ancora arrancava alle mie spalle, incapace di raggiungermi.
La mia vita non era costellata di problemi, ma nemmeno di emozioni o novità. In poche parole, stavo conducendo il sogno giapponese per eccellenza. Un ragazzo cisgender eterosessuale senza precedenti nella vita privata, segnalazioni nella vita scolastica o comportamenti bizzarri nei restanti. Di media statura, di media piacenza estetica, di media intelligenza.
Un ragazzo nella media.
Ecco cosa accadde in quella pausa pranzo: realizzai che non volevo esserlo.
Compresi che la mia normalità non era altro che conseguenza della noia che plasmava la mia vita, nient'altro. Non c'era una ricerca della perfezione o dello standard, nella mia volontà o intenzione. Non avevo mai voluto essere normale. Semplicemente, tutto considerato, mi mancava l'input giusto per capirlo, per cominciare a nutrire e gestare l'idea che forse era a qualcos'altro che ambivo, a qualcosa che avrebbe condito con più pepe la mia vita. Non dico che la società giapponese mi avesse fatto il lavaggio del cervello, ma poco ci mancava. La colpa non era tuttavia da attribuire solo all'impostazione del paese: anche io avevo fatto poco per accendere il cervello e riflettere. Avevo tacitamente accettato quelle imposizioni e ci avevo tessuto attorno la trama della mia vita, che ora non sapeva né di carne né di pesce.
Ero un foglio bianco.
Una tabula rasa, come avrebbero detto i latini.
Dovevo solo assicurarmi che nessun'altro all'infuori di me prendesse in mano la penna e scrivesse la mia storia al posto mio.
L'insegnante entrò proprio quando stavo tornando al posto dopo aver pulito il mio banco. Gettando una veloce occhiata attorno a me prima di cominciare a seguire la lezione ebbi l'occasione di notare che alcuni miei compagni mi stavano guardando con sguardo obliquo. Nessuno di loro si era mai interessato a me dall'inizio dell'anno, pertanto non compresi perché lo stessero facendo con tale inquietante zelo in quel momento. Non ci diedi peso e mi lasciai avvolgere dalla voce dell'insegnante.
Non faticai a concentrarmi.
Anzi, la frizzante sensazione di novità che accompagnava il pensiero di ciò che sarebbe accaduto più tardi aveva paradossalmente contribuito a migliorare le mie capacità di apprendimento.
Dopo qualche ora giunse l'atteso suono dell'ultima campanella della giornata. Raccolsi velocemente i miei effetti personali e uscii dalla classe diretto verso l'infermeria.
Senza troppi fronzoli e convenevoli, Fujiutski mi affidò Aki come fosse un pacco da spedire. Condivise con entrambi le stesse raccomandazioni che ci aveva già rivolto a pranzo. Dopo averla salutata e ringraziata con un inchino di circostanza, io e Funiku ci dirigemmo verso l'uscita principale.
Per tutto il tragitto mi sentii trafitto dagli sguardi di diversi studenti. Quando ne avvertii così tanti pizzicarmi il volto e la pelle mi sembrò di camminare completamente nudo per un corridoio tappezzato di schegge di vetro. Mi venne naturale incurvarmi leggermente in avanti, come nel tentativo di celare e proteggere le parti più intime della mia persona, e compresi perché lo facesse quotidianamente anche la ragazza affianco cui stavo camminando. Cercai comunque di mantenere un atteggiamento neutrale che non mostrasse la mia momentanea insicurezza, anche perché mi bastò qualche secondo per comprendere che non c'era effettivamente motivo per cui io mi dovessi sentire in quel modo. Una volta usciti dall'istituto svoltammo a destra per immetterci nella stretta strada che conduceva alla metropolitana.
"Io...", parlò Aki massaggiandosi dietro al collo.
"Stai di nuovo male?"
"No, no... Volevo solo avvisarti che abito in una zona poco ostica.", disse tutto d'un fiato come per ammutolire la vergogna.
"Poco... ostica?"
"Io ti ho già inquadrato... Sei un tipo curioso.", replicò senza ricambiare il mio sguardo. "E io amo approfittarmene, quindi lo scoprirai quando ci arriveremo."
Mentre parlavamo mi accorsi di quanto fosse più bassa rispetto a me. Come già detto, non spicco per altezza - raggiungo il metro e settantacinque a stento - , ma lei di certo non me lo faceva percepire come un difetto. Allo stesso modo, notai che non si faceva particolari problemi a camminare molto vicino a me. Lo faceva spontaneamente, come se fosse normale. Forse lo faceva perché in cuor suo un po' di timore di avere nuovamente quei debilitanti giramenti di testa ce l'aveva. In lei non riconobbi la tipica malizia animante le ragazze che tentavano di conquistare un ragazzo gettandoglisi addosso per poi farlo passare per un incidente.
Io non ci ero abituato a quella naturalezza, allora.
Nessuno della mia nazionalità lo è.
Nel mio paese il contatto fisico coincide con quello emotivo, in linea di principio. Quindi devi avere un motivo sensato, un doppio fine se ti avvicini tanto a qualcuno, specialmente se si tratta di una persona del sesso opposto. L'unica circostanza che costituisce l'eccezione in questo assetto è la situazione di emergenza, quella in cui una persona si sente male e ha palese bisogno di aiuto o assistenza - ecco spiegato perché la tecnica delle ragazze in cerca di un compagno si basa principalmente su questo. In poche parole, in queste situazioni la convenzione sociale – che corrisponde a una deforme chimera figlia dei sani principi morali nipponici e di quelli assurdamente ingordi degli americani – prevale su quasi cosa e richiama austeramente al perbenismo. Uno dei paradossi del Giappone sta anche in questa circostanza: questa sorta di terreno franco si propone anche se la nazione è costruita sul presupposto che ognuno debba avere un'utilità sociale ben precisa, altrimenti può anche fare a meno di vivere - ed ecco perché il suicidio, anche se in forme diverse, è all'ordine del giorno a Tokyo.
In proposito, non saprei dire se abbiamo sviluppato una sorta di assuefazione psicologica a questo fenomeno o se stiamo ancora banalmente brancolando nel buio alla ricerca di una soluzione efficace. In ogni caso, trattandosi di una popolazione tacitamente distaccata dalla propria sfera emotiva, appare pressoché lampante il motivo per cui il contatto fisico si aggiri attorno allo zero. Questo, ovviamente, se non vuoi passare per il mascalzone di turno.
Per qualche motivo a me sconosciuto mi schiarii la voce.
"Stai bene? Hai mal di gola?", domandò Aki cercando il mio sguardo.
"No, tutto bene.", tentai di celare il mio insensato disagio.
"Se hai mal di gola puoi andare a casa, non serve che mi accompagni."
"Non ti preoccupare, sto bene."
Ci aveva visto giusto. In meno di ventiquattrore avevo ottenuto molto più di quanto avessi sperato, e ora che c'era la possibilità – seppur minima – di vedere casa sua non c'era nulla capace di distogliermi dalla mia curiosità.
"Dobbiamo prendere la linea foglia.", disse risoluta cominciando a scendere le scale che conducevano al sottopassaggio come se non avesse una commozione cerebrale.
Non ci volle molto prima che la sua mano destra si avvicinasse alla fronte e il suo equilibrio facesse cilecca. Le stetti vicino per assicurarmi che non cadesse, e convogliando la mia attenzione su quel compito scordai completamente l'indicazione che mi aveva dato. Mi limitai a seguirla fino alla piattaforma senza staccarle gli occhi di dosso. Quando arrivammo insistetti perché prendesse posto su una delle panchine vuote. Tra uno sbuffo scocciato e l'altro riuscii a convincerla, e attendemmo. Fu solo allora che cominciai a guardarmi intorno in cerca di qualche indizio sulla nostra posizione e destinazione. Attorno a me non c'erano molte persone. O meglio, non quante me ne sarei aspettate a quell'ora. Prima che potessi ambientarmi, udii lo sbuffo della metropolitana in lontananza.
"Sta arrivando.", le dissi. "Meglio prepararsi."
"Te lo dicevo io che non serviva mi sedessi...", borbottò alzandosi con un po' di fatica.
Decisi di ignorare la sua lamentela, e mi concentrai sull'arrivo del mezzo. Altre persone si accalcarono vicino a noi. Mi assicurai che Aki non si disperdesse nella folla. La porta automatica ci si palesò proprio di fronte. Alla sua apertura, l'altoparlante gracchiò: "Shinjuku Line".
D'istinto alzai le sopracciglia. Il trambusto non mi parve la circostanza più consona ad accogliere la domanda che spontaneamente si concretizzò nella mia mente, quindi salii in silenzio stando vicino alla mia compagna di scuola.
Riuscimmo a trovare posti vicini tra una donna anziana che dall'austerità della postura sembrava aver ingoiato un manico di scopa intero e un palese salary man intento a trafficare maniacalmente con il dito sullo schermo del proprio cellulare. Non ebbi il cuore di porre quella domanda prima della partenza della metropolitana.
"E'... questa, la nostra linea?", chiesi tentando di celare la mia incertezza.
Di tutta risposta ottenni uno sguardo sconcertato che scivolò sotto a un ciuffo di capelli scuri.
"Me lo stai davvero chiedendo ora che siamo partiti?"
Sorrisi divertito. Probabilmente con tanto di espressione ebete stampata sulla faccia. C'era qualcosa, nella sua voce, che mi faceva ridere. Forse era il suo accento, che sicuramente non avevo mai sentito prima, o forse era il suo tono di voce, sempre un po' risoluto e al contempo scocciato dalla vita.
"Hai ragione.", risposi.
"Che c'è? Te l'avevo detto che dovevamo prendere la linea foglia."
"A quale fermata dobbiamo scendere?"
"Shinjuku."
Tra gli studenti il vociferare sulla linea foglia non scarseggiava. Era chiamata così per il colore che le avevano affibbiato sulla mappa e sui cartelli d'infografica; tuttavia, il suo capolinea – Shinjuku – non aveva nulla a che fare con la natura. Non se per natura s'intende il bosco con i suoi alberi e le sue affascinanti creature.
A causa della sua reputazione, alcuni preferivano persino prendere un'altra linea più lunga per tornare a casa o recarsi a scuola pur di non cadere vittima delle dicerie che circolavano per i corridoi dell'istituto. Suddette dicerie riguardavano il famigerato distretto a luci rosse e le sfumature che ne conseguivano, ovviamente. Tutti la evitavano come la peste, e avrei scommesso che ne fossero anche intimiditi.
Io invece ero lì, seduto sul un sedile della metropolitana della linea foglia vicino a una compagna di scuola pressoché sconosciuta che aveva la stessa reputazione del red-light district, se non peggiore. Eppure, non avvertivo minimamente quel disagio che era stato dichiarato a gran voce da diversi miei conoscenti che per gioco o per sfida l'avevano presa per recarsi nel quartiere più controverso di Tokyo. Al contrario, mi sembrava una metropolitana assolutamente normale. Non si respirava nessuna aria particolare, nessuna tensione né eccitazione fuori dalla norma, e forse in parte ne fui deluso. Più mi guardavo attorno, più comprendevo che quelle non fossero altro che frottole inventate dai ribelli per darsi qualche aria in più quando cominciavano a sentirsi troppo dei bravi cittadini.
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