La Ragazzina di Effingham
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La mattina del 22 Marzo 1639 iniziò con un sole accecante che segnava l'entrata della primavera.
I raggi vivaci illuminavano beffardamente quel patibolo posto al centro della piazza principale in quel di Effingham, una piccola cittadina posta nella vecchia Inghilterra.
Intorno, molti tra curiosi e persone di ogni età e ceto sociale, aspettavano con ansia l'impiccagione di una ragazzina di appena sedici anni, condannata a morte per essersi rifiutata di piegarsi al volere della religione folle del reverendo William H. Robertson, una specie di Santone.
Nessuno riusciva a resistere al suo sguardo magnetico e alla sua volontà, quello che lui diceva era legge, nessuno osava contraddirlo.
Il suo carisma innato, lo aveva portato a farsi strada, ad avanzare sempre più nella carriera. Infatti, stranamente e nonostante questo suo atteggiamento dittatoriale, molte persone lo incontravano ogni giorno per chiedergli consiglio e la comunione.
Oltre a far breccia nelle menti delle persone, grazie alla sua potente influenza persuasiva, godeva di ricchezze smisurate che aveva guadagnato alle spalle della gente. Ogni suo servigio, anche il solo celebrare un sacramento come il matrimonio, era denaro che veniva sborsato in suo favore. Robertson, oltre allo stipendio fisso che percepiva, si faceva pagare e anche molto, ogni extra, approfittando dell'ignoranza del popolo e della fede che riponevano in lui prima che in Dio.
Ben presto venne incoronato anche sindaco della città. Il suo potere grazie a ciò, crebbe maggiormente. Dirigeva e manipolava la gente come un abile burattinaio e tutto questo in modo eccepibile, tanto da far credere loro che ogni decisione ed ogni azione da lui compiuta, era unicamente a favore dei suoi cittadini e per il bene della comunità. Questo comportava anche, far piazza pulita di chi non si sottometteva al suo regime, difatti alcune persone contrarie alla sua figura, sparirono in circostanze misteriose e non vennero mai più trovate. Lo stesso reverendo fece mettere in giro false voci dicendo che non erano scomparsi, ma partiti in cerca di una nuova città e nuovi orizzonti. Il popolo gli credette ciecamente e nessuno se ne preoccupò più, come gli credevano quando esercitava il ruolo di giudice e decretava che una tal persona meritava la pena di morte, anche se si trattava di una ragazzina di soli sedici anni.
Quella fu la punizione che in un assolato giorno di sabato, si apprestavano ad eseguire spietatamente. Complice tutto il popolo che non si oppose, ma anzi, incitò quell'omicidio, una povera anima innocente, si dirigeva sempre più verso un cappio che le avrebbe spezzato il respiro per sempre.
La giovane procedeva lentamente per via dei grossi catenacci alle caviglie che le impedivano la fuga. Ai suoi lati aveva due guardie carcerarie che l'accompagnavano in direzione del patibolo. Pochi passi mancavano ormai e lei scorciava tra quei lunghi capelli neri che le coprivano il viso, i volti eccitati di tutte le persone giunte nel luogo solo per assistere a quel cruento spettacolo: la sua fine.
Inerme, pensava che tutto ciò fosse follia e più la osservavano eccitati, più lei non riusciva a distogliere lo sguardo dalle loro figure che somigliavano a demoni piuttosto che persone. Gli occhi scorrevano veloci, attratti dalle urla sguaiate che approvavano quell'empietà. Erano assetati di morte, parevano in aspettazione di veder la sua anima spegnersi per poi assorbirla e cibarsene. Un branco di voraci bestie in tumulto che sputavano bava insieme alle loro deliranti grida, affamati come leoni chiusi in gabbia e tenuti a digiuno.
Non fu facile tra le migliaia di volti in movimento, riuscire ad intravedere quello di sua madre, colei che amava. Spiccava tra quel mucchio di dannati, solo perché era l'unica persona che immobile e stretta nel suo scialle nero, piangeva fiumi di lacrime.
Un dolore immenso il suo, superiore a qualsiasi sofferenza patita nella sua difficile vita di madre sola, abbandonata da un marito che l'aveva lasciata vedova troppo presto. Ora avrebbe perso anche la sua unica figlia, eppure, nonostante il delirio della situazione generale, non fece molto per lei. Non alzò un dito per impedire tale ingiustizia. Non volle e non poté opporsi al decreto del reverendo, alla sua sentenza che la condannava la figlia come un'assassina, anche se le prove non sussistevano in maniera assoluta. La parola di Robertson però e il suo giudizio, non lasciavano scampo una volta emessi. Erano irrevocabili e inappellabili, come tutti avevano imparato.
Per rafforzare ancor meglio la sua causa, il reverendo mise in scena un vero e proprio processo, convocando un giudice esterno, un suo amico stretto, che avvalorò l'andamento dei fatti grazie a falsi testimoni, spacciandoli per reali.
La ragazzina fu condannata a morte perché venne trovata con un coltello sanguinante tra le mani ed il corpo del povero Jeremy, un ragazzo di diciotto anni, accanto a lei privo di vita. Lei però Jeremy lo amava. Mai avrebbe fatto una cosa del genere.
I due erano una coppia e spesso sognavano di scappare da quella realtà deviata e da quella religione assurda che non li rappresentava affatto, ma non fecero in tempo.
William H. Robertson che aveva istituito una vera e propria caccia alla disobbedienza, fece seguire e spiare per molto tempo i due giovani. Decise lui stesso di simulare questo omicidio con l'aiuto di due sbandati al suo cospetto che ripagò con tre miseri litri a testa di vinaccio rosso.
Questi criminali fecero anche da testimoni al processo sommario che ebbe la ragazza per mano del giudice Crawford, amico del reverendo. Quest'ultimo decise, dietro ad una cospicua somma, per la pena di morte immediata della giovane, senza possibilità di ritorno in giudizio.
Robertson sapeva che la ragazza era una testimone scomoda, nonché una ribelle. Decise quindi di farla impiccare e togliersela dai piedi il più presto possibile. Per esser sicuro di questo, andò il giorno prima del processo a casa del giudice. Tirò fuori dalla tasca venti monete d'oro raffiguranti il Re d'Inghilterra e lo comprò. Fu così ad assicurarsi che tale condanna venisse eseguita immediatamente, lasciando a lui il lavoro sporco e uscendone pulito agli occhi dei cittadini di Effingham.
Quegli stessi che ora erano in fervente aspettazione, mentre la giovane procedeva ormai rassegnata, in direzione del patibolo, dove avrebbe reso la sua ultima aria.
Una lacrima scese giù da quel viso roseo e delicato. Qualcuno tra la folla urlava insulti di ogni genere mentre altri le tiravano verdure marce contro. La povera ragazza si sentiva svuotata. Annullata.
Il suo cuore in realtà mise di sbattere il giorno esatto in cui le uccisero il fidanzato per poi far ricadere la colpa su di lei. Lo trovò già morto, con il coltello infilato nello stomaco. Per puro istinto cercò, urlando e disperandosi di toglierlo, ma ormai era già troppo tardi.
Fu trovata così, con l'arma del delitto tra le mani ad appesantire la sua posizione e a caricarla di un crimine che non le apparteneva. Aveva tentato seppur sotto shock di difendersi e spiegare com'erano andate veramente le cose, ma ogni parola era stata inutile, semplicemente come detta al vento e portata via da esso. Alla fine uno stato di torpore aveva preso a regnare dentro lei.
Non le importava molto di morire, tanto meno di vivere. Non aveva nessuno capace di capirla. Riteneva le persone della cittadina soggiogate da quel farabutto e quindi completamente assuefatte da ogni sua crudeltà. Aveva solo voglia di scappare e la morte in un certo qual senso era un po' come fuggire da quella follia comune nella quale si trovava suo malgrado.
Dopo ulteriori passi, si trovò in piedi su quel patibolo. La gola era secca, le mani sudaticce e le gambe le tremavano. Aveva paura, ma ancor di più pensava alla sorte del ragazzo che aveva amato più di se stessa. Fu ricordando i tratti di quel viso perfetto che trovò la calma per affrontare quel momento così incredibilmente irreale.
Gli occhi verdi di Jeremy sembravano apparire di fronte ai suoi, quella pelle così liscia le riportò alla mente quante carezze aveva ancora da donargli e le mani, quelle che aveva stretto innumerevoli volte tra le sue, come pure le forti braccia, le davano la speranza di poter ancora essere stretta da lui, in una qualche parte dell'universo, laddove si trovava e dove lei stessa si apprestava ad andare per raggiungerlo.
Così le parve ancor più dolce quell'incognita chiamata morte. Voleva vedere quel buio tunnel come il tragitto che l'avrebbe fatta riabbracciare al suo unico e vero amore. Quella piccola, breve distanza che si sarebbe pian piano accorciata, guidandola dritta tra le sue braccia. Ciò che aveva perso, sarebbe ritornato suo.
La fecero salire sulla struttura di legno preparata per strapparle ingiustamente la vita. Da sopra lo scenario sembrava ancora più pazzesco, le pareva di essere sprofondata nell'inferno Dantesco. La gente continuava instancabilmente a dimenarsi ed urlare in uno strepitio di versi incomprensibili. Visti così erano un ammasso di dannati, anime che avevano perso completamente la ragione.
Vi era chi rideva sguaiatamente e chi la insultava con una rabbia gratuita e fuori da ogni logica. Altri si limitavano a fissarla in silenzio con gli occhi sgranati ma comunque eccitati dalla situazione.
Fremettero quando il boia si avvicinò alla ragazza e per un attimo restò immobile a fissarla. Lo incitarono a compiere l'esecuzione, gli urlarono di mettergli quella maledetta corda intorno al collo.
Il cappuccio nero che nascondeva il viso, lasciava intravedere solo gli occhi scuri dell'uomo. Era fermo di fronte a lei e parve volerla confortare.
-Non temere. Finirà presto.- Le sussurrò con voce compassionevole. - Che Iddio abbia misericordia della tua anima!-
Le mise il cappio intorno al collo in un silenzio che apparteneva soltanto alla fanciulla. Lo guardava, ma non volle proferirgli parola. Provava pena per lei? Voleva scagionare in qualche modo quell'atto che lui stesso si accingeva a compiere, scrollandosi così la responsabilità di essere complice di un omicidio? No. Non meritava risposta, né tanto meno di essere sollevato dalle sue consapevoli azioni. Meritava come tutti gli altri di pagare per la violenza e la cattiveria perpetrata.
L'uomo le lasciò i catenacci intorno alle caviglie per far da peso, così come ai polsi. Catene di ferro talmente strette da farla sanguinare. Intanto sibilava tra le labbra preghiere a suo favore, perché il Signore la perdonasse e le rivolgesse la Sua immeritata benignità. Lei sentì il corpo riempirsi di rabbia ad ogni boccata di ossigeno. Un fuoco rinchiuso nelle ossa premeva per esplodere, per urlare e invadere l'intera piazza gremita di diavoli.
Poco prima che le coprisse il capo con un sacco, la ragazzina ebbe appena il tempo di guardare sua madre che piangeva copiosamente. Se ne stava abbracciata al reverendo e cercando conforto dallo stesso aguzzino che ora era lì a gustarsi la morte di sua figlia, una terribile assurdità, quella.
Questo oltre a passarle adagio la mano sulla testa, fissava la giovane con un sorriso beffardo. Un'immagine che le distrusse quella parte piccolissima di cuore che ancora pompava sangue, che scandiva veloci gli ultimi battiti.
Pianse, divorata dall'ira che aumentava ogni volta che il palmo sporco di assassinio del reverendo, toccava i capelli della madre, lisciandoglieli dolcemente, con quegli occhi spietati fissi su di lei. Aveva vinto quell'uomo spregevole, ancora una volta aveva avuto la meglio su una vittima innocente.
Intanto la madre alzò un braccio verso la sua bambina: la bocca aperta che lasciava passare, seppur soffocate, le urla di disperazione, i singhiozzi accavallati che le scuotevano il corpo in modo incontrollato, i gemiti e quel senso immenso di impotenza che non le permettevano di rassegnarsi...
Eppure da sopra al resto del mondo in cui la ragazza ora si trovava, tutti quei gesti apparivano solo ipocrisia gratuita. Quale madre non aiuta la figlia?! E dov'era la sua? Laggiù, immersa in un mare di iniquità e abbracciata a chi aveva decretato la sua fine. Uno stormo di corvi neri le fecero alzare gli occhi al cielo che stranamente era diventato cupo. Li seguì mentre si allontanavano velocemente e diventavano tanti piccoli punti che si agitavano scoordinati, con i nembi grigi a fargli da sfondo. Fu l'ultima cosa che vide. Il suo sguardo fu oscurato dalla sacca e al buio restarono a farle compagnia solo le immagini di quelle ali nere che erano passate a ricordargli il volo che presto l'avrebbe portata a ricongiungersi al suo Jeremy.
Le sue orecchie continuavano invece a udire ancora quella gioia perversa e malata. Erano urla piene di eccitazione ed euforia, nemmeno fosse stato un giorno di festa. Probabilmente per loro era così, maggiormente quando la corda robusta scivolò intorno al collo della ragazzina, stringendolo fin da subito.
Pochi attimi la dividevano ormai da quella pace eterna chiamata morte e un istante prima che il boia tirasse la leva, si udì un urlo pieno di rabbia provenire dalle nascoste labbra carnose della giovane.
-TORNERÒ!-
La folla azzittì all'istante. Il boia stesso, scosso quanto sorpreso, restò impalato.
-TORNERÒ E AVRÒ LA MIA VENDETTA. IO VI MALEDICO TUTTI!-
Il reverendo Robertson digrignò i denti, stupefatto quanto rabbioso. Quella stupida ragazzina stava mostrando coraggio sino ai suoi ultimi respiri! Si era rivelata con un forte carattere e in quel momento, come non mai, l'aveva convinto di aver fatto bene a sbarazzarsene. Senz'altro gli avrebbe causato problemi con la sua voglia di giustizia. Persone di quella stazza mentale erano da eliminare assolutamente, e lui non poteva farsi mettere i bastoni tra le ruote da gente del genere.
Terminato lo sfogo e mentre tutti erano immersi in quel silenzio aspro, il boia respirò a pieni polmoni e caricando il braccio di una forza bruta, tirò la leva, stringendo gli occhi e sentendosi il petto palpitare di timore. Non si era mai fatto prendere così da un condannato e aveva il sentore in cuor suo, di aver commesso un grave errore.
Il corpo della fanciulla prese a dimenarsi e a scuotersi, irrigidendo i muscoli e i nervi che lo sbattevano in ogni direzione mentre l'ossigeno veniva a mancare.
Uno strano alone di terrore scese e si impossessò delle membra degli astanti, in particolare quando si accorsero che i secondi passavano e quel corpo fragile non smetteva di strattonare la corda intrecciata che lo teneva sospeso nel vuoto.
La madre si coprì la bocca continuando a gridare e piangere e fu allora che Robertson la lasciò per farsi strada tra la folla e portarsi, lentamente e tra gli sguardi attoniti dei presenti, appena sotto il patibolo.
Con gesti teatrali che usò per nascondere il suo turbamento, alzò la voce e urlò a pieni polmoni perché la piccola che ancora non rendeva l'anima, la cedesse.
-Lasciati andare, figlia di Satana al volere dell'Iddio Onnipotente...! Concedigli di accogliere presso di sé la tua anima e decidere cosa farne. Muori piccola strega! Muori per i tuoi peccati! Purificati nel fuoco dell'inferno per i secoli dei secoli!-
Il reverendo zittì ed attese insieme agli altri che quella frenesia finisse.
Il boia tremò, visibilmente scosso. Ancor meglio aveva capito che c'era qualcosa di storto in tutta quella faccenda. Si avvicinò alla ragazza con fare sconvolto e allungò le braccia verso di lei per afferrarla e sollevarne il corpo. Non doveva lasciarla morire, non poteva permetterlo dopo quello spettacolo a cui aveva assistito, ma fu bloccato dalle urla di Robertson che lo intimavano a fermarsi e a limitarsi a fare il suo lavoro. L'uomo indietreggiò e crollò sulle sue gambe che parvero trasformarsi in burro fuso. Mai un'esecuzione aveva sollevato tanto clamore e turbamento.
Mai un'impiccato aveva resistito tanto con la corda a stringergli la giugulare. Eppure nonostante ciò, arrivò anche per lei il tempo di cedere alla forza imponente della morte.
Il corpo esanime iniziò a ciondolare da quel patibolo. Il sorriso di Robertson gli sollevò gli zigomi in una smorfia liberatoria, allorché si voltò verso il popolo per ricevere i dovuti riconoscimenti che a suo parere gli spettavano, avendo abbreviato le sofferenze di una ragazza che pur essendo colpevole, meritava la punizione nella giusta misura o così voleva far credere. Secondo il suo parere controverso, la ragazza avrebbe potuto restare in quello stato di morte-non-morte per l'eternità, essendo una strega. Questo spacciò in seguito per spiegare lo strano evento.
Passarono pochi silenti secondi e le persone come svegliatesi da un incantesimo, ripresero ad urlare di gioia schiamazzando e festeggiando. Qualcuno addirittura si abbracciò, mentre altri passarono il pomeriggio successivo bevendo vino e parlando di quella barbara esecuzione pieni di entusiasmo e fomento. In particolare si diede risalto a quanto tempo quel corpo passò a sbattersi appeso al cappio, prima di morire e restare preda di un dondolio infinito. Quella era una realtà disumanizzata, ormai.
Passarono molti anni in seguito.
Come tutte quelle persone di cui Robertson si sbarazzò, quella ragazzina finì nel dimenticatoio.
Nessuno scoprì la verità, nessuno nemmeno la cercò. Nessuno rivendicò l'ingiustizia ai danni di una povera vittima colpevole soltanto di non voler vivere nel mondo di altri, ma di voler conoscere il suo.
Quella semplice ragazzina che portava il nome di Ashley, Ashley Woodhouse.
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