Capitolo II
𝓘ack non aveva voluto darmi spiegazioni, eppure nel suo sguardo avevo letto il puro terrore. Sembrava che fosse appena tornata da un viaggio inter-dimensionale, tant'era strana.
E poi i suoi occhi. I suoi occhi sembravano essere diventati bianchi. Latteo era il suo viso, spogliato di tutta la vita di cui di solito brillava.
Non le dissi nulla di tutto quello che lessi nella sua espressione, poiché non avevo intenzione di intimorirla ulteriormente. Le tesi una mano per aiutarla a tirarsi su, ma mi disse di lasciarla sola, con una voce tanto bassa, quanto triste.
Entrai in camera nostra, notando immediatamente il suo cellulare lasciato indiscretamente sul mio letto. Jack invadeva tutto lo spazio che aveva a disposizione. Sorrisi però, perché sapevo di non poter fare a meno di quella peste.
Il display dello smartphone si illuminava ad intermittenza: stava ricevendo dei messaggi.
Mi apparve strano, dato che a me non ne stava arrivando nessuno ed eravamo più o meno negli stessi gruppi. Un'insolita ed inaspettata curiosità mi assediò. Io sono sempre stato uno di quei tipi che "si fanno i fatti propri", però quel giorno non riuscii proprio a trattenermi. Forse perché avevo uno strano presentimento, forse per altro. Erano tutti messaggi di Fen. Bastò il nome a provocare in me quasi una specie di rabbia, che non riuscivo a spiegarmi. Non volli leggere il contenuto degli SMS.
Non riuscivo a capire per quale motivo mi desse fastidio. Si sentivano? Da quanto? Forse da sempre. Perché Jack non me lo aveva mai detto? Forse stavo facendomi troppe domande inutili. Non erano forse amici? Certo, lo erano. E gli amici possono scriversi messaggi. Anche se uno dei due mostra un'evidente attrazione nei confronti dell'altra. Magari un'attrazione che viene anche ricambiata.
Dovetti ammettere che mi dava fastidio.
Perché si stava alimentando in me la consapevolezza che Jack ed io stessimo crescendo e stesse iniziando a crearsi un muro: prima o poi ognuno di noi avrebbe avuto una famiglia propria, e dei gemelli Barker non sarebbe rimasto che un legame di sangue e un dolce ricordo di quello che erano stati.
Perché me lo dicevo? Perché la vedevo fuggire. Qualcuno me la stava tirando via. Lei, a differenza mia, non trovava tanta difficoltà nel socializzare e nel procurarsi compagnia, e questo mi intimoriva, perché temevo di essere sostituito.
Mi sono sempre sentito maledettamente sostituibile.
Sospirai, stendendomi sul letto e guardando il soffitto bianco. Mi sentii trascinare in un mondo vuoto. Mondo vuoto. Non esiste un'altra espressione in grado di descrivere le mie sensazioni in quel momento. Mi sembrava di galleggiare in mezzo al nulla, osservato da tanti sguardi che in realtà non guardavano, ma vedevano soltanto.
Sentivo di respirare un'aria pesante, ma allo stesso tempo leggera, perché inesistente.
Il cuore poteva smettere di battere e io non me ne sarei accorto, perché non sentivo nessun suono, immerso in quel silenzio assordante che mi circondava.
Quando stavo per farmi trascinare nel baratro, sentii la porta aprirsi e vidi la figura alta e snella di Jack venire verso di me e gettarsi di peso sul mio letto.
Restammo così, senza rompere il silenzio nel quale ero immerso prima, parlandoci con lo sguardo. Nei suoi occhi leggevo la paura. Era spaventata, ed io mi odiavo perché non ne capivo la causa, non riuscivo ad immaginarla neppure lontanamente.
Le sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio a punta, soffermandomi su quest'ultimo.
Da bambini, avevamo sempre provato ad attribuire mille spiegazioni a quella strana forma, ci divertivamo ad inventare storie, nelle quali noi eravamo gli ultimi rimasti di una stirpe di elfi viventi sulla Terra, oppure in cui eravamo proprio noi i primi del nostro genere e quindi eravamo coloro che avrebbero dovuto diffondere quei geni particolari.
La sentii sbuffare, poi si raggomitolò e nascose il viso contro la mia spalla.Tremava.
«Ehi Jack, sei sicura che vada tutto bene?» La strinsi a me, accarezzandole la schiena. Cercavo di incuterle sicurezza, ma in quel momento non mi rendevo conto di ciò che avrei scoperto in seguito: sarebbe stata lei a cercare di tranquillizzarmi, di farmi vedere il lato positivo delle cose, anche quando sembrava andare tutto a rotoli.
Alzò il suo sguardo del colore delle nuvole in un giorno di pioggia verso di me. «Ho freddo», mi rispose tremando, sempre più forte.
Inizialmente credetti che fosse una mia impressione, ma presi a tremare anche io, e dopo di lei, di me, anche il letto, scosso dal tremolio improvviso che ci aveva preso. Nel solo istante in cui aveva pronunciato quella frase, mi ero sentito prendere alla gola da uno strano senso di gelo, di alienazione e distanza, dal mondo e da me stesso, che mi aveva atterrito, terrorizzato, sorpreso in maniera a dir poco raccapricciante.
Tirai su il lenzuolo, fino a coprire me e Jack sulle spalle, poi la strinsi a me e, senza nemmeno accorgermene, mi abbandonai al sonno.
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Mi svegliai per il frastuono.
Restai per qualche secondo a stiracchiarmi e a cercare di aprire gli occhi, infastiditi dall'invadente luce del sole.
Dopo poco mi alzai e, indossata una felpa sulla canotta, mi diressi verso la direzione dalla quale provenivano i rumori che mi avevano svegliato.
Scoprii che provenivano da fuori. Prima di uscire a vedere, però, presi il bicchiere di succo d'arancia che mio padre aveva lasciato sul tavolo. Mi affacciai alla finestra e portai il bicchiere alla bocca.
Osservai la scena che si stava svolgendo socchiudendo gli occhi. C'era un sole bello. La scena che mi si presentava davanti, lo era però di più.
Papà e Jacklyn stavano cercando di mettere in moto la vecchia Volkswagen Polo 1975 azzurra polvere, che era precedentemente appartenuta a mio nonno, poi a mia madre. Ora stava per finire nelle mani di Jack e, perché no, magari anche nelle mie.
Quel che rendeva divertente la scena erano però i particolari: Jacklyn smanettava col volante, mentre papà si asciugava il sudore mentre cercava di capire cosa sistemare e con una mano cercava di far scendere Cosmo dal cofano. Il gattone sembrava non volerne sapere, però improvvisamente venne distratto dalla collana che indossava mia sorella, così saltò in fretta dentro l'auto e si accoccolò sulle gambe di Jack.
Osservò a lungo il ciondolo della farfalla gialla, poi cercò di prenderlo con una zampata, con la quale però graffiò la mia gemella, che non ci pensò due volte prima di spintonarlo fuori dall'auto.
Presa da una nuova energia, spostò delicatamente mio padre, che prese il suo posto nell'auto, poi prese ad armeggiare con una serie di manovre che dalla mia postazione non si vedevano, e tutto d'un tratto la macchina iniziò ad andare all'indietro.
Ci era riuscita.
Poggiai il bicchiere ormai vuoto nel lavandino e feci per uscire, ma la mia vescica chiedeva pietà, quindi corsi al bagno. Una volta uscito, trovai Jacklyn che guidava mentre papà le gridava di stare attenta alle povere piantine di cui si prendeva tanta cura.
Salutai con la mano e gridai: «Taxi!»
«Ehi, dormiglione!» Sorrise, poi abbassò il finestrino e mi fece un gentilissimo terzo dito. Mio padre si piegò dalle risate.
Jack frenò a pochi centimetri da me e, abbassando il vetro, finse di guardarmi attraverso lenti da sole invisibili. Poggiò il gomito al finestrino e, sfoggiando un sorriso che aveva l'intenzione di essere seducente, disse: «Bellezza, ti andrebbe di fare un giro? Lascia da parte la timidezza e salta su... guadagnerai l'invidia di tutte le tue amiche!»
Trattenni una risata. Mi guardai attorno per un po', con aria imbarazzata, poi annuii e saltai in macchina.
«Ti ho stregato», affermò la mia gemella.
«Tutto merito della moderna auto sportiva su cui mi hai invitato a salire», le spiegai.
Lei sorrise. «Allora, vogliamo inaugurare per bene questa macchina?» Chiese tirando fuori un CD dalla grande tasca della sua salopette.
«Vediamo fino a quanto può arrivare il volume della radio di questa catapecchia medioevale!»
Fece partire il cd degli Imagine Dragons, la nostra band preferita. Era una compilation delle nostre canzoni preferite, compreso l'ultimo singolo che avevano fatto uscire. Eravamo stati proprio fortunati, poiché la canzone era uscita proprio due giorni dopo l'inizio delle vacanze estive.
«Ragazzi, mi sa che dobbiate rimandare: la mamma ha chiesto se oggi potete venire a dare una mano al bar...ci state?»
Io e Jack annuimmo senza nemmeno pensarci e, in un battibaleno, fummo a bordo delle nostre biciclette: avevamo un'auto, ma tendevamo ad evitarla in estate, poiché non faceva che darci problemi. Inoltre eravamo felici di dare una mano all'ambiente. L'unica pecca di quel sistema erano le giornate di pioggia, che a Londra erano ricorrenti.
Fin troppo.
Arrivammo abbastanza velocemente. Il piccolo cafè che mi si presentava davanti appariva molto accogliente. Era tutto sui toni del blu e oro. Aveva una forma stretta e allungata, un'immensa vetrata divideva l'interno dall'esterno, dove c'erano allineati nove tavolini, posti all'ombra di grandi parasole. Un'insegna troneggiava sulla porta d'entrata: Barker's.
Jacklyn corse dentro e abbracciò la mamma, che indossava un grembiule dello stesso colore della maggior parte dell'arredamento del bar, con ovviamente una grande stampa del nome del cafè. Io e mio padre entrammo dopo aver legato le bici.
Jacklyn lanciò dei grembiuli ad entrambi. Affondai le mani nella grande tasca di cui era munito, trovandovi una specie di farfallina fatta di plastica. Evitando di pormi troppe domande, scrollai le spalle.
Avemmo una mezz'oretta di pausa solamente verso mezzogiorno: coloro che volevano pranzare qualcosa di leggero erano tutti seduti a tavola e solo ogni tanto entrava qualcuno per prendere qualcosa da asporto.
Noi quattro sedevamo ad uno dei tavoli liberi, e ci stavamo concedendo un bel sandwich ben condito.
«Allora, domani dovete andare al compleanno della sorella di Steve?» Domandò mio padre sorseggiando la sua birra.
Io annuii, masticando quel fantastico sandwich che pareva farmi volare...
«Ehi Jack, sai che ti è cresciuto un capello bianco?» Osservò mia madre.
Jacklyn saltò in piedi e cerco di guardare il suo riflesso attraverso la telecamera del cellulare. «Devo tirarlo!»
«No Jack, lo sanno tutti che non si deve assolutamente fare!» Le rispose mio padre.
Lei sbuffò sedendosi, io risi.
«Vecchia mia, il tempo della gioventù sta passando», dissi mettendole un braccio attorno alle spalle e attirandola a me. Lei chiuse gli occhi, mettendosi una mano sulla fronte.
La mia attenzione venne catturata dalla ragazza che aveva appena varcato la soglia del bar: Beatrix Marjory. Aveva finito il liceo quell'anno e lavorava al nostro bar. Percorsi il suo profilo con lo sguardo. La sua espressione corrucciata, dovuta alla catenella della borsa che si era incastrata alla maniglia della porta, mi fece sorridere. Sembrava che volesse spezzare l'artefice delle sue sventure con il potere di quegli occhi castani.
Jack notò il mio sguardo e alzò un sopracciglio. Oh, io non sapevo farlo.
Beatrix si liberò e si avvicinò al nostro tavolo per salutarci. «Vado a prendere il grembiule», disse indicando la cucina con il pollice. Sparì facendo svolazzare le sue onde castane. Jack schioccò le dita davanti il mio naso.
«Terra chiama Jonah, Terra chiama Jonah.»
Mi lasciai scappare un sorriso.
«Ok elfi, si torna a lavoro», esordì mia mamma alzandosi da tavola.
«Forse qualcuno sta approfittando del nostro nomignolo: non siamo mica elfi domestici», borbottò Jacklyn.
«No, infatti. Voi siete elfi baristi. Forza, muoversi!»
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Fuori c'era un po' di umidità che.
Soffiai il fumo dal naso, guardandomi attorno. Ero circondato soltanto dal silenzio della notte e mi sentivo sereno. Lasciai cadere la cenere per terra e alzai lo sguardo al cielo. Portai la sigaretta alle labbra. Stavo vivendo un momento di pace assoluta. Un attimo da dedicare a me stesso, alla mia cicca, al cielo blu.
«Di nuovo?»
Jacklyn mi fece sobbalzare, mandando in frantumi quell'attimo di relax.
«Avevi promesso alla mamma che avresti smesso», fece con tono di rimprovero, mentre con la mano mi tolse la sigaretta da bocca.
«Non avevo finito il pacchetto...»
Neppure mi diede il tempo di terminare la frase, che se l'era tra le labbra e la stava fumando al posto mio. Le lanciai un'occhiata torva.
Appena ebbe finito rientrammo in casa e io feci l'ultimo viaggio in bagno della giornata.Mentre lavavo i denti, mi guardai allo specchio.
Era cresciuto anche a me un capello bianco.
S P A Z I O A U T R I C E
Ed ecco qui anche il dolce Jonah. Sappiate che è un bimbo dolce da proteggere, anche se a volte potrebbe capitare di odiarlo. Non fatelo. Amor vincit omnia. Sto esagerando con la pubblicazione dei capitoli, ma sono attualmente euforica.
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