Capitolo I
𝓜andavano sempre me.
Guardai desolata la porta che mi si stagliava davanti e, dopo aver sbuffato come ero solita fare, mi decisi a bussare.
Questa è la volta che buona che chiedono a mia madre di vietarmi di uscire di casa.
Ad aprirmi fu una signora minuta che, dietro quella montatura di occhiali sottile, mi riservò un'occhiata ben poco amichevole. Spostò lo sguardo da me a ciò che aveva tra le mani. Il pallone. Il nostro pallone. Lo stringeva come un tesoro prezioso. Il suo ricatto, la sua arma contro di me. E io ero pronta a riaverlo indietro.
Provai a mettere su un sorriso cordiale, nonostante fossi poco sicura che avrebbe avuto effetto ancora una volta. Io lo avevo detto che sarebbe stato meglio mandare Loren. Aveva un fascino tutto suo, e poi quel sorriso innocente che gli incurvava le labbra...
«Emh...spero di non disturbarla, per sbaglio io e i miei amici abbiamo...»
Mi ritrovai, in men che non si dica, a parlare con una porta chiusa.
Controllai l'orario sul cellulare, e constatai che avremmo potuto comprare un altro pallone, perché i negozi erano ancora aperti.
Mi diressi dagli altri, che dapprima mi accolsero speranzosi, ma poi, accorgendosi dell'assenza di Gerla, (sì, davamo anche i nomi ai palloni) l'umore generale mutò.
«Però possiamo comprarne un altro», azzardai.
«Sarebbe il terzo della settimana, e siamo solo a mercoledì», precisò un ragazzo dai capelli biondi, Erik.
Mi lasciai cadere sul terriccio.
Che palle. Letteralmente.
«Potremmo andare un po' al bar», proposi. «Magari alla mamma viene qualche idea.»
«Penso che la mamma stia già tornando a casa, si è fatto tardi Jack», mi fece notare mio fratello, annuendo, quasi a cercare di convincermi.
Jack era il diminutivo del mio nome, Jacklyn, affibbiatomi per il mio essere un po' "maschiaccio". Tutti ritenevano che il mio comportamento fosse "poco femminile" perché ero cresciuta insieme ad altri sei ragazzi, tra cui il mio fratello gemello, Jonah. Ovviamente erano tutte convinzioni errate, basate su quella che deve essere l'immagine ideale della donna, della brava ragazza. A cui, a quanto pare, per nessuno del quartiere, coincidevo. Fortunatamente i ragazzi non la pensavano così di me:eravamo tutti amici, anche se inizialmente non mi volevano nel loro gruppetto, mi rifiutavano. Ben presto però, non sono più riusciti a fare a meno di me, che sono diventata la loro mascotte: un branco di femminucce. Li prendevo sempre in giro per questo.
Mi rialzai, rassegnata. «Allora torniamo a casa», dissi corrucciata.
«Beh, in fondo si è fatta una certa...», fece notare Fen, senza staccarmi i suoi occhi di miele di dosso.
Fen era il più grande del gruppo, assieme a Steve, e aveva diciassette anni. Poi c'eravamo io, mio fratello Jonah, Guy ed Erik, che ne avevamo sedici, ed infine il piccolo Logan, che tanto piccolo poi non era più.
Ci conoscevamo da quando avevo sette anni. La mamma sosteneva che con Guy ci conoscessimo da più tempo, perché veniva spesso alle gite estive con noi.
Io non lo ricordavo.
«Ah, quasi dimenticavo...mia sorella vi ha invitati alla sua festa di compleanno», ci annunciò Steve. «È dopodomani, ha detto che vorrebbe conoscervi...un po' più a fondo, ecco, sono queste le parole che ha usato.»
Noi accettammo l'invito contenti, già pensando a qualche idea per il regalo da farle. Faceva diciannove anni, quindi aveva ricevuto quasi sicuramente qualcosa di più prezioso l'anno precedente.
Dopo poco ci salutammo, con i soliti scambi di pacche sulla schiena e linguacce. Se non fosse stato per Jonah che mi prese per il braccio trascinandomi verso casa, probabilmente Fen Occhi Di Miele mi avrebbe detto qualcosa.
Non seppi mai cosa.
Lanciai un'occhiata innervosita a mio fratello, mentre facevamo ritorno a casa. Dovevamo percorrere una lunga strada buia. Lo era sempre stata, nonostante i poveri londinesi che erano capitati in quel piccolo angolo della città reclamassero dei lampioni da secoli.
«Che c'è, Fen ti ha stregata?» Fece spingendomi.
Risi. «Sei proprio un deficiente», risposi in seguito.
Lui scrollò le spalle.
Lo amavo. Non riuscivo minimante ad immaginare una vita senza di lui.
Avevamo un legame magico, che andava oltre l'essere fratello e sorella, oltre l'essere migliori amici. A volte diventavamo una persona sola, perché eravamo così uniti e simili da non riuscire a distinguerci. Altre volte interi continenti ci tenevano distanti l'uno dall'altra, evidenziando quanto avessimo di diverso, quanto ognuno di noi, nonostante tutto, avesse una propria identità, senza vincoli di parentela e legami affettivi.
Non eravamo mai stati uno senza l'altro. Dividerci non era mai stato parte del nostro immaginario.
Perché insomma, cosa ne sarebbe stato dei gemelli Barker, con un solo gemello?
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«Come hanno trascorso il pomeriggio, i miei elfi?» Domandò mia madre a tavola.
Il nome "elfi", era nato dalle nostre caratteristiche orecchie a punta, che riportavano alla memoria proprio le orecchie di un elfo. Mio fratello le odiava, mentre a me piacevano molto: ci contraddistinguevano dagli altri, e poi con gli orecchini risaltavano ancora di più.
«Abbiamo perso Gerla...», spiegò Jonah.
Mio padre rise. «I Johnson domani mattina mi chiederanno la colazione gratis...non dirmi che avete rotto un'altra finestra! Altrimenti la ripago con i soldi che custodite tanto gelosamente in quel gatto di porcellana...»
Mio padre era così, un po' sbarazzino ed eternamente giovane. Era un lato di lui che a volte la mamma non poteva sopportare: molte volte diceva di dover crescere tre bambini.
Era l'ennesimo aspetto della nostra famiglia che veniva criticato dalla gente del quartiere: ritenevano che mio padre non fosse abbastanza maturo per essere un genitore, ma lui non era altro che desideroso di non farci vivere col terrore dei genitori, come invece era toccato a lui. Era un uomo dolcissimo e sempre pieno di vitalità, che fortunatamente avevamo ereditato sia io che il mio gemello (io però ero più simpatica).
«Per fortuna i signori Johnson, come tutti i comuni mortali, hanno caldo d'estate, quindi avevano lasciato la finestra aperta. Quella casa è diventata il cimitero di tutti i nostri palloni però! Jonah? Propongo di fare un'incursione notturna per recuperarli», esordii alzandomi. Gli lanciai un'occhiata complice.
«Jonah è d'accordo signora», mi rispose alzandosi a sua volta e poggiandosi una mano alla fronte. Incrociai il suo sguardo divertito.
«I gemelli Barker adesso faranno un'incursione nella loro stanza e la sistemeranno all'istante invece!» Ordinò mia madre scherzosamente.
Allora, ubbidienti, sparecchiammo i nostri posti e salimmo di sopra, in camera nostra. Era abbastanza grande, anche se la maggior parte dello spazio era occupata da disordine.
I nostri letti erano addossati alla parete est, separati da un tappeto che condividevamo. Alla destra del mio, e alla sinistra del suo, vi erano due comodini bianchi, sui quali erano poggiate due povere lampade, le cui luci erano soffocate da maglie lasciate là da chissà quanto tempo.
Un enorme armadio blu notte occupava la parete opposta alla porta, mentre nell'ala ovest c'erano due scrivanie rosse, con due rispettive sedie dello stesso colore. Preferisco non descrivere cosa ci fosse "poggiato" sopra. Alla parete era attaccato il braccetto della TV, che si collegava alla nostra amata PlayStation, passatempo dei lunghi e piovosi pomeriggi invernali. Facevamo dei tornei infiniti insieme ai nostri amici, e spesso io e Jonah ci ritrovavamo in finale.
Sorrisi.
«Ehi, a che pensi?» Chiese Jonah scompigliandomi la frangetta corvina.
Diedi vita ad una lotta di cuscini, dal nulla.
Soltanto mezz'ora dopo ci decidemmo a sistemare, e fummo anche abbastanza veloci. Uno dei tanti vantaggi di essere in due. Forse però per i nostri genitori non era un enorme vantaggio: eravamo due, ma combinavamo guai per quattro.
Alla fine ci lasciammo cadere sui letti, stremati.
«Chi fa il bagno per primo?» Domandai.
Ovviamente scelse di andare prima lui.
Intanto presi il mio cellulare, per ammazzare un po' il tempo. Guardai lo sfondo, sorridente: un selfie che ritraeva me, Jonah e i nostri amici, in un momento di pura allegria. Era un po' mosso, ma era quello il segreto della foto: nessuno si era accorto che fosse stata scattata, quindi tutto ciò che era stato catturato dalla fotocamera non era che pura spontaneità.
Trovai un messaggio di Fen.
Sospirai, poi senza rispondere lasciai cadere il cellulare sul letto di Jonah. Lo sguardo di quel ragazzo dai capelli rossi parve penetrarmi l'anima, ma non ero in grado di lasciarlo entrare. C'era come qualcosa che mi impediva di farlo, qualcosa che non sapevo spiegarmi. Anzi, che non volevo spiegarmi. Gli volevo un mondo di bene, eppure sapevo di non poter provare per lui quello che lui provava per me.
Diedi una fugace occhiata all'anta che chiudeva la mia parte di armadio.
Conoscete quel modo di dire, in merito agli scheletri nell'armadio? Beh, il mio armadio ne era pieno.
Io e quel mobile eravamo gli unici complici di un segreto che soffocavo da anni, che neppure io riuscivo ad accettare, e che sarebbe rimasto lì, possibilmente per sempre. Era una parte di me che rifiutavo, che non sopportavo, che mi faceva vergognare del mio essere, ma allo stesso tempo che non poteva staccarsi da me.
Sospirai.
Mentre aspettavo che arrivasse il mio turno, preparai la mia camicia da notte con l'intimo pulito, in modo da essere già pronta non appena Jonah fosse tornato. Lui amava fare docce gelide, sia in inverno che in estate.
Io invece andavo per il bagno bollente in qualsiasi stagione. Amavo il caldo, il sole e l'estate. L'inverno era la mia dannazione. La scuola, il freddo, tutti quegli strati di abiti da indossare... L'estate invece, nonostante le numerose piogge, mi permetteva di indossare leggeri abiti svolazzanti, freschi shorts e canottiere. Poi i miei occhi grigi, al sole, sembravano diventare quasi trasparenti. Era una cosa che trovavo formidabile.
Mi abbassai a guardare sotto il mio letto, che avevo sgomberato poco prima. Era strano vedere tutto vuoto.
Mi metteva ansia.
Diedi un'occhiata fulminea alla stanza e, notando il paio di ciabatte in più di Jonah, ben sistemate sul marmo della finestra, mi ci avvicinai, con passo felpato.
Non sapevo neppure io per quale motivo lo facessi. Era un istinto che mi era difficile sopprimere. Gli oggetti mi chiamavano.
Afferrai con furia le ciabatte, ma un forte "Meow!" e una zampata sul dorso della mano me le fecero lasciar cadere all'istante.
Dannato gatto!
Guardai pian piano i graffi perdere sangue, e gettai un'occhiata innervosita all'artefice di quel malefizio: un vecchio micio persiano, dal candido manto bianco, e con lo sguardo azzurro ghiaccio, affascinante, col solo difetto di avere un occhio dispari.
Cosmo era il nostro gatto da prima che potessi ricordare.
Trascorreva le sue giornate alternando ore di sonno e ozio sulle finestre di casa nostra, a passeggiate verso la ciotola dei croccantini e dell'acqua. Era molto paffuto, anche a causa della sua vita sedentaria, ed era parte di quello che io consideravo casa.
Casa erano mamma Talulah e papà Quentin, il mio gemello Jonah e il gatto Cosmo, i lunghi pomeriggi trascorsi sotto le coperte davanti ad un film, pomeriggi più brevi caratterizzati dalle grida di Logan e Guy, dai fischi di Fen e le acrobazie di Erik e Steve.
I graffi iniziarono a prudermi, poi a provocarmi bruciore. Mi morsi il labbro e mi resi conto di essere per terra, con Cosmo che mi fissava e un paio di ciabatte cadute chissà come.
Le stavo prendendo.
Perché?
Non lo sapevo.
Le rimisi al loro posto, poi mi diressi in cucina, per chiedere alla mamma cosa fare con i graffi. Mi disse che un po' d'acqua ossigenata sarebbe bastata.
Mi misi a gambe incrociate fuori la porta del bagno, aspettando che mio fratello finisse di fare la doccia.
Mi soffermai sul beige intenso del legno della porta.
Sentii qualcosa prendermi allo stomaco, poi una specie di fischio nelle orecchie. Iniziai a notare delle macchie scure sulla porta. Per pochi istanti mi sembrò che il cuore avesse smesso di battermi, che si fosse ghiacciato.
Stavo per lasciarmi cadere in chissà quale baratro, quando la serratura della porta scattò, e sull'uscio apparve la figura alta di Jonah.
Alzai lo sguardo su di lui, boccheggiante.
Un calore tutto nuovo mi invase, e mi rilassai chiudendo gli occhi.
«Ehi Jacklyn, è tutto ok?»
S P A Z I O A U T R I C E
Eccomi qui. Questo è il primo capitolo dell'avventura di Jack e Jonah, e già sento i brividi per l'emozione. Tornare a scrivere mi ha fatto bene, e spero davvero di non smettere di nuovo, perché è davvero un grande sfogo.
Cosa pensate di tutta questa armata di personaggi?
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