7


Il cielo era striato da fasce di rosso scarlatto e arancione tenue che lo fasciavano, cullandolo dolcemente. I colori si muovevano sinuosi al vento, rendendolo quasi un essere vivente. Ricordava uno di quei bellissimi quadri rinascimentali che potevi osservare solo nei migliori musei d'arte. Uno quei dipinti che non riuscivi a dimenticare facilmente. Leggere nuvole coprivano il tutto, che illuminate dagli ultimi e stanchi raggi di sole, davano l'impressione che ci fosse un velo quasi trasparente e impalpabile a dividere l'immensità della volta celeste dai comuni mortali lì a terra.

Amelya era seduta sul prato, le gambe incrociate, le dita che affondavano nell'erba bagnata dalla pioggia di poche ore prima. I suoi occhi azzurri fissavano tutta quella maestosità mutare davanti a lei e ne rifletterono i magnifici colori, diventando prima leggermente aranciati e poi rossi come dei bellissimi rubini.

Si sentiva in pace. Non solo con sé stessa, ma con l'intero mondo. Non come una spettatrice, ma come se fosse una parte viva del cielo che stava osservando, del sole che spariva dietro le montagne, della terra che stava stringendo tra le sue mani e del vento che le accarezzava la pelle pallida e le scompigliava i capelli corvini.

Lentamente, il sole scomparve, portandosi con sé la sua personale tavolozza di colori.

Amelya alzò gli occhi e si morse un labbro, impaziente di vedere quell'ormai telo nero sopra di lei cospargersi di piccole stelle luminose.

Ma non accadde.

Neanche una piccola luce prese il posto del sole. Il cielo, adesso, era diventato un manto di oscurità.

La notte divenne velocemente fredda e pungente. Sembrò quasi che la temperatura avesse subito un calo di diversi gradi. Lentamente l'erba intorno a lei iniziò a congelare. Il terriccio divenne freddo e secco.

Le si formò la pelle d'oca sulle braccia, seguita da brividi insistenti che iniziarono a percorrerle il corpo. Istintivamente, staccò le mani dal terreno e si abbracciò per provare a conservare un po' di calore corporeo.

Non appena lo fece, le sue dita sfiorarono i fili d'erba congelati, che si ruppero al loro passaggio e un suono di voci quasi impercettibile si librò nell'aria gelida. Per un istante, Amelya poté giurare che quel rumore fosse provenuto dai fili d'erba rotti.

La ragazza osservò il manto verde sotto di lei, talmente congelato che la brina lo aveva reso quasi trasparente. Sembrava vetro.

Poggiò l'indice sulla punta di un filo d'erba e quello si sgretolò al tocco, tagliando il silenzio della notte con un urlo glaciale.

Amelya si alzò di scatto, spaventata e confusa e non appena lo fece, i suoi scarponcini disintegrarono l'erba cristallizzata sotto di lei. La notte si riempì di urla di dolore angoscianti, lacrime e lamenti senza fine.

Sembrava quasi che ogni filo d'erba sotto di lei racchiudesse in esso le sofferenze del mondo intero e rompendoli, lei li stesse liberando tutti.

Le urla di sofferenza e dolore le vorticavano intorno, le penetravano nel cervello, si annidavano nei luoghi più remoti della sua mente e si moltiplicavano come un virus.

Il loro dolore, divenne il suo dolore.

Amelya cadde in ginocchio, la testa tra le mani.

«Basta,» supplicò, «vi prego basta!»

Ma le urla non cessarono, anzi, divennero sempre più forti, fino a coprire il rumore dei suoi stessi pensieri.

Lentamente, in mezzo a tutto quello strazio, una frase iniziò a riecheggiare sospesa nell'aria.

«Mox cedere puella, anima tua mea est.»

Amelya ebbe all'istante la sensazione che qualcosa le avesse avvolto il cuore in un guanto ghiacciato e avesse iniziato a stritolarglielo. Iniziò a respirare affannosamente. L'ossigeno gelido le entrava nei polmoni bisognosi e affannati, le seccava la bocca e bruciava la trachea.

«Mox cedere puella, anima tua mea est.»

Ancora, la frase continuava a farsi strada tra le urla, strisciando sinuosa come un serpente, tra un filo d'erba e l'altro. Sembrava quasi un canto, oppure forse era una preghiera, o magari invece una maledizione.

Amelya provò a tapparsi le orecchie, ma non servì a nulla. Digrignò i denti mentre chiunque stesse pronunciando quella frase, si avvicinava pericolosamente.

«Mox cedere puella, anima tua mea est!»

Alzò la testa e vide tra gli alberi una figura avvolta nell'oscurità che lentamente si avvicinava.

Non poteva vederne il volto, inghiottito dal nero della notte, ma in cuor suo sapeva già chi fosse.

Era lui, l'assassino dei suoi genitori.

«Mox cedere puella, anima tua mea est!»

Amelya ebbe la sensazione che mille spilli appuntiti le avessero perforato il cranio e si fossero conficcati nel suo cervello.

Lì, inginocchiata sull'erba fredda e pungente che le scalfiva le ginocchia, con la testa tra le mani e le dita che si incastravano tra i capelli, aprì la bocca e urlò.

Urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

Improvvisamente, una fioca luce bianca apparve alla sua destra. Pochi secondi e si espanse a macchia d'olio su tutto lo scenario, sommergendo e inghiottendo qualunque cosa, compresa lei stessa.



Amelya aprì gli occhi, svegliandosi.

La prima cosa che vide fu il volto preoccupato di Jaxon sopra di lei che le afferrava saldamente le braccia.

«Cosa...» mugugnò spaesata cercando di divincolarsi nel panico. Poteva sentire ancora le urla di quella povera gente perforarle i timpani, i fili d'erba che le ferivano le gambe, gli aghi appuntiti che scavavano in profondità nella sua mente.

«Calmati» mormorò lui, «Amelya, calmati. Va tutto bene» il tono rassicurante.

La ragazza afferrò la coperta tra le mani, poi chiuse gli occhi.

Fece un respiro profondo. Era al sicuro. Espirò. Era solo un sogno. Solo un sogno.

Lentamente si tranquillizzò.

Quando riaprì gli occhi, Jaxon non si era mosso, le sue mani le afferravano ancora le braccia.

Amelya tirò un'occhiataccia eloquente a quel contatto. Non aveva ancora dimenticato il loro litigio di qualche giorno prima.

Lui la guardò un po' risentito dal suo sguardo duro. Si staccò da lei allontanandosi di qualche centimetro.

«Cosa ci fai qui?» chiese Amelya, senza nascondere una nota seccata.

La ragazza si tirò su, sedendosi a gambe incrociate, la schiena che poggiava sulla testata del letto.

«Volevo parlarti» rispose lui leggermente incerto.

«Bene, dimmi.»

Vide Jaxon deglutire. Il ragazzo si passò una mano tra i riccioli biondo scuro, arruffandoli.

 «Amelya,» iniziò titubante, «volevo dirti che mi dispiace per quello che ho detto l'altro giorno. Non avrei dovuto parlare dei tuoi genitori in quel modo.» Jaxon si morse un labbro, l'amarezza che velava i suoi profondi occhi verde smeraldo. «Avevi ragione, io non so cosa sia l'amore», mormorò guardandola intensamente, «ma se fossi stato nella stessa posizione di tua madre, avrei probabilmente agito allo stesso modo».

Amelya scrutò l'Angelo davanti a lei. Decise che sembrava sincero. Un debole sorriso si dipinse sulle labbra della ragazza e istintivamente gli afferrò la mano. Jaxon sembrò sorpreso per una frazione di secondo, ma non si sottrasse.

«Va bene, ma non farlo mai più» rispose dolcemente.

Un enorme sorriso si fece largo sul viso di Jaxon.

«Te lo prometto» mormorò, ricambiando delicatamente la stretta. Poi, col pollice, iniziò a massaggiare delicatamente il dorso della mano di lei.

I due si guardarono con un'intensità tale che Amelya arrossì leggermente e fu costretta a distogliere lo sguardo.

«Comunque,» iniziò lei, svincolando la mano dalla stretta di Jaxon e portando l'attenzione su tutt'altro, «devi smetterla di apparire nella mia stanza durante la notte» disse, mentre alzava un sopracciglio e incrociava le braccia al petto.

«Non è colpa mia se è l'unico momento della giornata in cui sei sola. Durante il giorno sei sempre o a scuola, o con la tua amica Monique oppure con tua nonna» rispose lui mettendosi sulla difensiva.

«Come fai a saperlo? Mi osservi?» chiese Amelya, quasi allarmata.

Jaxon fece una smorfia. «Qualche volta» rispose e non appena vide l'espressione indecifrabile della ragazza dovette aggiungere: «Ma solo per assicurarmi che tu stia bene».

Amelya lo fissò di sottecchi per qualche secondo. Apprezzava che Jaxon si preoccupasse per lei, un po' meno che ogni tanto la osservasse da lontano come un inquietante maniaco.

«Va bene, sei perdonato. Ma cerca di apparire quando sono sveglia e non mentre dormo» scherzò Amelya, puntandogli un dito ammonitore contro.

«Beh, giudicando da come ti agitavi nel sonno, direi che ho fatto bene a svegliarti» commentò lui.

Un brivido percorse tutto il corpo di Amelya al ricordo di quello che aveva sognato. Solitamente, le uniche cose a tormentare i suoi sogni e a farle passare le notti insonni a osservare il soffitto, erano i suoi ricordi.

Questo era un incubo, non un ricordo, ed era la prima volta che lo faceva.

«Già» mormorò Amelya, gli occhi bassi a fissare le mani giunte sul suo grembo.

«Ti capita spesso?» domandò Jaxon.

«Di solito sogno i miei stessi ricordi», mormorò Amelya mordendosi il labbro, «ma questa volta è stato diverso. Ho sognato qualcosa che non avevo mai visto o vissuto prima».

«Vuoi parlarne?»

Amelya scosse la testa. «Preferirei non riviverlo, ma...» si fermò titubante, mentre una domanda le si formava sulla punta della  lingua, «posso chiederti una cosa?»

Jaxon annuì. «Sì, certo».

«Quando mi hai svegliata, hai fatto qualcosa di particolare? Un incantesimo forse?» domandò, mentre il ricordo di quella luce bianca e calda che l'aveva inghiottita per intero portandola ad aprire gli occhi le tornò in mente.

Jaxon si accigliò. «No, ho visto che stavi avendo un incubo e ti ho solo sfiorato le braccia per svegliarti. Perché me lo chiedi?»

Amelya fece spallucce. «Nulla, non è importante.»

Non voleva sembrare ridicola raccontando di come questa luce l'aveva avvolta come una calda coperta e l'aveva salvata da quell'incubo.

«I sogni sono importanti, soprattutto i tuoi» disse Jaxon.

«Perchè i miei?» 

«Perchè sei l'unica Divium che può sognare.»

«Voi non sognate?» domandò Amelya.

«Noi non dormiamo» la corresse Jaxon.

Amelya strabuzzò gli occhi. «Com'è possibile?»

«Non ne abbiamo bisogno», rispose Jaxon sollevando appena le spalle, come se fosse una cosa più che ovvia.

«Ma sono una Divium anche io, eppure ho bisogno di dormire» commentò Amelya. Più faceva domande su quel mondo che ora era anche il suo e meno riusciva a comprenderlo.

«È complicato da spiegare» disse Jaxon, facendo una smorfia.

«Provaci. Voglio sapere cosa mi rende diversa.»

Jaxon la fissò qualche istante, poi annuì.

«Ci sono due esseri distinti nel Regno Celeste: Arcangeli e Angeli. La stessa cosa vale per l'Inferno, con Arcidemoni e Demoni. I primi di entrambi i regni, sono entità superiori, rare e estremamente potenti. I secondi invece, sono anime umane rese divine dopo la loro morte.»

«Anime umane?» lo interruppe Amelya. «Vuol dire che un tempo eri umano?» chiese sconcertata.

«Sì, tutti gli Angeli e tutti i Demoni erano umani. Quando un umano muore, se è stato sufficientemente degno in vita, gli vengono donate delle ali, insieme a dei poteri divini. Per poter esistere su questo piano astrale però, e camminare su questa terra, dobbiamo avere anche un corpo umano, che la maggior parte di noi riceve insieme alle ali», spiegò Jaxon.

«Ti ricordi la tua vita da umano?» domandò lei, guardandolo negli occhi.

Jaxon si morse un labbro. «È passato tanto tempo, però sì, me la ricordo» rispose, un velo di quella che sembrava malinconia nel tono della voce.

«Quanto tempo esattamente?»

«Sono nato nel 1332, durante la guerra d'indipendenza scozzese.»

«Aspetta, hai più di 700 anni? E sei scozzese?» scattò Amelya, mentre lo stupore le aveva fatto alzare la voce di un ottava.

«Sì» rispose quello, sorridendo divertito nel vedere la reazione della ragazza.

Lei rimase lì a osservarlo, la bocca semi aperta in un espressione esterrefatta.

«È incredibile» commentò.

«Lo è» concordò Jaxon.

«Continua» lo spronò Amelya.

«I tuoi genitori ti hanno concepito quando avevano ancora i loro poteri e le loro ali, ma prima di nascere, a tua madre così come a tuo padre venne tolto tutto quanto. Questo li rese definitivamente umani.» Amelya non aveva mai avuto delle ali, ma pensò che il dolore di sentirsi tagliare letteralmente un pezzo del proprio corpo doveva essere stato lancinante. Ebbe un brivido al pensiero. «Sei nata come un'umana, per questo tu cresci, cambi e invecchi a differenza degli altri Divium, ma sei stata concepita quando i tuoi genitori erano ancora Divium, questo ti rende l'unica umana su questo pianeta ad avere poteri divini», spiegò Jaxon.

«Wow» mormorò, ed era tutto quello che la sua mente riuscì a partorire in quel momento.

«Comprendi ora quanto sei unica?» domandò Jaxon.

Amelya non era sicura se avesse detto quella frase con l'intenzione di farle un complimento, eppure nonostante questo, un leggero rossore le colorò le guance.

«Capisco di essere abbastanza unica, questo però non spiega perché gli altri Divium vogliono uccidermi.»

Sapere che esseri celestiali e demoniaci le stavano dando la caccia senza una ragione, la faceva sentire impotente e indifesa. Detestava sentirsi così.

«Perché hanno paura di te, di quello che potresti fare» rispose Jaxon.

«Ma io non ho fatto nulla per meritarmi le loro paure o il loro odio» mormorò Amelya con un filo di voce.

«Si ha sempre paura di quello che non si conosce, Amelya. La storia umana lo insegna da millenni» le rispose lui dolcemente, mentre i lineamenti del viso di Jaxon si impietosivano, probabilmente al pensiero che l'unica colpa che questa ragazzina rannicchiata dinanzi a lui aveva, era essere nata.

In quel momento, un pensiero piombò nella testa di Amelya come un fulmine al ciel sereno.

Logan.

Realizzò in quell'istante che il Demone aveva capito che lei era la Referet. Si domandava se sarebbe diventato una minaccia, se avrebbe cercato di ucciderla così come Jaxon le aveva raccontato.

«Jaxon,» lo chiamò, mentre il panico aveva iniziato a tessere i fili nella sua voce, «devo dirti una cosa.»

Lui si fece improvvisamente attento, intuendo che qualcosa non andava.

«Che succede?» chiese, guardandola attentamente.

«Ho incontrato Logan qualche giorno fa, credo che abbia capito chi sono.»

Jaxon balzò giù dal letto.

«Cosa?» quasi urlò. «Come fai a esserne sicura? Cosa ti ha detto?» domandò allarmato.

Amelya lo guardò sorpresa. «Aveva capito che non eri riuscito a cancellarmi la memoria, ha dedotto quindi fossi una Divium e poi ha detto che conosce solamente una Divium che vive tra gli umani» disse tutto d'un fiato.

Jaxon chiuse gli occhi, si passò una mano tra i riccioli biondi come a voler cercare di calmarsi.

«Cazzo!» sbottò all'improvviso, evidentemente senza riuscirci.

«Jaxon, mi stai spaventando» mugugnò Amelya, si alzò frettolosamente dal letto e si avvicinò all'Angelo piazzandosi davanti a lui. «Logan cercherà di uccidermi?» domandò, incrociando le braccia al petto.

«Non è solo lui il problema!» sbraitò frustrato Jaxon, spazientito dal fatto che la ragazza non stesse comprendendo la reale gravità della situazione.

«Allora spiegami!» scattò lei, fissandolo negli occhi con fervore.

Jaxon imprecò sottovoce, poi prese un enorme respiro.

«Amelya,» iniziò, in un tono molto più calmo rispetto a prima, ma che comunque lasciava ancora percepire tutta la sua agitazione, «se Logan dice ai Soldati Infernali che sei tu la Referet, avrai l'intero Inferno a darti la caccia.»

Quella realizzazione si poggiò nello stomaco della ragazza come un macigno.

«Quanto tempo fa vi siete visti?» chiese Jaxon subito dopo.

«Tre giorni fa» mormorò Amelya, mentre il terrore più reale e puro aveva iniziato ad annodarle le viscere.

Jaxon sospirò. «Se sei ancora viva vuol dire che Logan non ha ancora riferito di te a nessuno. Non so perché non l'abbia fatto, ma per noi questo è oro.»

«Che cosa facciamo adesso?» domandò Amelya, la flebile voce intrisa dal panico.

L'Angelo si strofinò il viso con una mano, poi tornò a fissare nei profondi e spaventati occhi azzurri la ragazza dinanzi a lui.

«Lo imprigioneremo.»

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