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Vetro. Migliaia di cocci di vetro scricchiolavano e stridevano sotto i suoi scarponcini neri. Amelya si avvicinò alla macchina grigia con il vento che le accarezzava i capelli dello stesso colore della notte. Poi sangue. Rosso e copioso sporcava l'asfalto colorando i cocci come in un quadro moderno e macabro. Silenzio. Per Amelya, il mondo perse improvvisamente i suoi rumori; le voci dietro di lei si spensero, il rombo dei motori delle auto in fila sull'asfalto si zittirono, gli alberi che circondavano la strada smisero di muoversi sinuosi al vento. Il mondo, ora ovattato e lontano, smise di esistere per lei. Si sentiva frastornata, intontita, come il momento in cui ti svegli di colpo da un sogno profondo e per un attimo non riesci nemmeno a capire dove ti trovi o come ti chiami. Si avvicinò ancora, osservando il cofano della macchina accartocciato che abbracciava un enorme albero sul lato della strada. Il parabrezza segnato da migliaia di crepe. Era ancora su, al suo posto, ma dava la sensazione di poter crollare in migliaia di pezzi se solo lo si fosse sfiorato con un dito. Amelya poggiò la mano sinistra su tre enormi e paralleli solchi che squarciavano il lato sinistro della vettura, quello del guidatore e con le dita ne seguì il percorso finché non sentì qualcosa di bagnato sporcarle l'indice. Portò la mano verso di sé e la fissò per pochi secondi, giusto il tempo per realizzare una verità violenta: quello era il sangue di suo padre.
L'intorpidimento si infranse, il mondo le piombò addosso impetuoso e crudele: le sirene della polizia dietro di lei; lo sceriffo che parlava a sua madre poco distante; le auto ferme sulle corsie e il vociare sommesso dei presenti. Suo padre era morto.
La ferocia con cui lo realizzò, in quel momento, la privò di tutte le sue forze. Si sentì spossata, mentre le viscere le si contorcevano nel ventre e il cuore le divorava i battiti. Rimase ancora lì qualche secondo a osservare la goccia di sangue macchiarle l'indice, poi chiuse gli occhi e le sembrò per un istante di poter ancora sentire la voce di suo padre, i suoi baci sulla fronte, il rumore della sua macchina sul vialetto di casa che avvisava sempre il suo ritorno...
Una mano le toccò una spalla. Aprì gli occhi, infastidita che qualcuno avesse osato strapparla via da quel dolce ricordo.
«Signorina, non può stare qui» la rimproverò un agente di polizia.
Amelya si voltò a fissarlo, lo sguardo cupo. Era arrabbiata. Non sapeva bene perché, forse non era nemmeno colpa dell'agente, ma sentiva una collera inumana divorarle lo stomaco e avvamparle il viso. Stava per rispondere quando lo Sceriffo si intromise. «Lasciala pure, Donald, lei è la figlia» disse l'uomo lanciando ad Amelya un'occhiata di pietà.
La figlia. Non sarebbe mai più stata sua figlia, la sua bambina. Ebbe la sensazione che qualcosa le avesse afferrato il cuore e glielo avesse stretto in una morsa fino a sgretolarlo. L'agente annuì e se ne andò, mentre lo Sceriffo si avvicinò e prese posto accanto alla ragazza.
«Amelya, giusto?» chiese.
Lei annuì, tornando a fissare la macchina dinanzi a sé.
«Mi dispiace molto per quello che è successo a tuo padre» disse l'uomo, in un disperato tentativo di consolarla. «Sono sicuro che ora lui sia in un post...»
«Cosa ci faceva mio padre qui?» lo interruppe Amelya.
Lo Sceriffo la fissò perplesso.
«Lavorava in centro, non avrebbe mai preso questa strada per tornare a casa» disse Amelya, forse più a sé stessa che allo Sceriffo.
Lui rimase in silenzio qualche secondo, si sistemò i bottoni della camicia beige sulla pancia prorompente e poi disse: «Forse aveva delle commissioni da queste parti.»
«Non aveva nessuna commissione, io o mia madre lo avremmo saputo. E poi siamo nel bel mezzo della foresta» rispose lei stizzita.
«Forse voleva fare un giro» rispose lo Sceriffo.
«Un giro?» domandò Amelya, quasi prendendolo in giro per l'assurdità delle sue parole.
«Amelya, magari stava andando a trovare qualcuno» borbottò, grattandosi la fronte, facendo intendere ben altro che un semplice amico.
«Mio padre non aveva un'amante!» scattò la ragazza, guardando lo Sceriffo dritto negli occhi.
«Non sto dicendo questo» si difese l'uomo, mettendo le mani avanti. Amelya distolse lo sguardo da lui, temeva che tutta la sua rabbia repressa potesse esplodere da un momento all'altro. «Sto solo dicendo che le cose brutte accadono, Amelya, dobbiamo farci forza e superarle e imparare a farcene una ragione.»
Amelya si perse a osservare la macchina di suo padre distrutta, con il sangue che impregnava il sedile del guidatore.
«Io non lo posso accettare» mormorò la ragazza.
Sentiva che non era stato il destino a fare questo, era stato ben altro.
La sveglia la trascinò nuovamente via da quel sogno. Amelya aprì gli occhi quasi subito e rimase a fissare il soffitto, mentre alla sua sinistra quell'aggeggio infernale continuava a suonare invadente. Erano mesi che ogni notte continuava a sognare e rivivere sempre le stesse cose. Ogni volta che la sera giungeva e lei chiudeva gli occhi, sapeva che avrebbe fatto un viaggio nei luoghi più oscuri della sua mente. Era stanca. Perché doveva continuare a rivivere quei momenti? Quando avrebbe trovato un po' di pace? Sospirò. Allungò il braccio e zittì la sveglia. Quella mattina si preparò con estrema lentezza, prendendosi lunghi attimi per fare le cose più semplici. Voleva concedersi il maggior tempo possibile nella tranquillità della sua cameretta. Quando giunse il momento di scendere in cucina da sua nonna, scoprì di non avere poi così tanta fame. Scese le scale frettolosamente e svoltò l'angolo.
«Tesoro, ti ho preparato la colazione» la avvertì la donna.
«In verità, oggi non ho molta fame» le comunicò Amelya.
Quella si voltò a guardarla. «Oh piccola, che succede?» domandò l'anziana, la fronte corrucciata dalla preoccupazione.
Amelya fece spallucce. «Niente» disse, abbassando lo sguardo al pavimento. Sapeva che se l'avesse guardata negli occhi, sua nonna l'avrebbe letta alla perfezione come uno dei suoi amati romanzi rosa.
«Dai, mangia qualcosa» rincarò, continuando a osservarla dalla testa ai piedi, come se stesse cercando una ferita visibile. Ma nessuna delle sue ferite lo era.
Amelya prese una mela dal cesto di frutta accanto a lei e gliela mostrò per rassicurarla. Adele fece un sorriso forzato. Si vedeva che non era contenta che saltasse la colazione, ma conosceva la nipote e sapeva che in questi casi era inutile insistere. Amelya si voltò e infilò la mela nella borsa. Forse, dopo le sarebbe venuta fame, ma ora il cibo era il suo ultimo pensiero.
Non appena varcò la soglia di casa vide Monique che la aspettava appoggiata all'auto di Amelya, con il telefono tra le mani. Non appena l'amica si accorse di lei, mise il dispositivo nella tasca dei suoi blue jeans.
«Oh, ciao!» la salutò Monique, con un sorriso a trentadue denti.
«Ciao» ricambiò Amelya, con lo stesso entusiasmo di un delinquente al patibolo.
«Tutto bene?» chiese Monique cupamente, mentre il sorriso le spariva repentino dal viso.
«Solito» rispose la ragazza, fingendo disinteresse. Monique fece una smorfia. «Dai, andiamo» continuò Amelya e le due salirono in auto per recarsi a scuola.
Il suo primo giorno di scuola, Amelya era riuscita a passare praticamente inosservata. Ebbe addirittura la sensazione che fosse diventata invisibile. Era esattamente quello che voleva, quindi non se ne lamentò affatto. Quel giorno però le cose cambiarono drasticamente. Non appena varcarono la porta d'ingresso, si ritrovò gli occhi di decine di ragazzi e ragazze su di lei e Monique. Inizialmente ne rimase stupita non capendo il perché, poi si ricordò cosa le aveva detto Monique il giorno prima e della sua pessima fama nel paese. Amelya era contenta di questa nuova amicizia che stava nascendo con lei, ma non credeva che questo l'avrebbe messa al centro dell'attenzione. Si voltò a fissare la ragazza accanto alla sua destra, che camminava con la testa bassa badando bene a non fissare nessuno negli occhi, come se temesse di essere fulminata se solo avesse osato farlo. Arrivarono all'armadietto di Amelya e Monique rimase lì vicino, come se avesse persino paura a spostarsi da sola. Vedendola particolarmente a disagio, Amelya cercò di distogliere l'attenzione da quello che stava accadendo.
«Io ho matematica come prima lezione, tu?» chiese, mentre prendeva un libro dall'armadietto.
Monique sollevò appena lo sguardo. «Sì, anche io» mormorò.
In quel momento gli occhi castani della ragazza si persero dietro le spalle di Amelya, diventando grandi e vitrei. Amelya ne seguì lo sguardo e vide un ragazzo alto e magro dai capelli rossi che le fissava a qualche metro da loro. Come se fosse stato caricato dal fatto che entrambe si erano accorte di lui, quello si avvicinò a grandi falcate alle due ragazze.
«Bene bene,» iniziò, mostrando un sorriso sbilenco, «pare che la disagiata si sia trovata un po' di compagnia.» Rise guardando prima Monique e poi Amelya. «La tua amica lo sa che nel tempo libero difendi assassini e rapinatori? Eh, ratto di fogna?» inveì, esaminando Monique con disgusto.
Quella si fece piccola dietro Amelya, abbassando lo sguardo al pavimento.
Amelya sentì montare la rabbia dentro di sé. Non le importava che conoscesse Monique solo da due giorni, se c'era una cosa che la ragazza non tollerava, erano i prepotenti e chi si sentiva giustificato nell'umiliare qualcun'altro. Strinse i pugni fino a far diventare le nocche bianche.
«Lasciala in pace» sibilò.
«Perché? Sennò che fai?» istigò lui, ora concentrando tutta la sua attenzione unicamente su Amelya.
Lei digrignò i denti; sentiva un'adrenalina irrefrenabile inondare le sue vene come energia pura. Si voltò e afferrò saldamente la porticina dell'armadietto ancora aperto. Lo strinse così forte che le dita iniziarono a farle male.
«Non mi dire che difendi questo reietto?» continuò lui lanciando un'occhiataccia a Monique. «Sarebbe un vero peccato, sei così carina...» così dicendo, alzò una mano verso Amelya. Forse per accarezzarla, forse per tirarle uno schiaffo, non aveva importanza. In quell'istante, Amelya reagì come se tutto il suo corpo fosse pronto a difendersi da un pericolo imminente. Gli bloccò il polso con la mano sinistra, mentre la mano destra si strinse intorno al collo del ragazzo.
Lui crollò in ginocchio davanti a lei, gli occhi marroni grandi e spaventati, mentre il viso con la mancanza di ossigeno diventava lentamente dello stesso colore dei suoi capelli. Amelya non si accorse di quanto realmente stesse stringendo la sua presa, finché lui non mugugnò sofferente e bisbigliò: «Lasciami... ti prego...»
Ma Amelya non lo fece. «Chiedile scusa» infierì.
Lui non rispose.
«Chiedile scusa, ho detto!» insistette.
«Scusa! Scusami!» biascicò lui con la voce rauca e il respiro corto.
Amelya rimase ancora lì, col polso del ragazzo stretto in una mano e la sua gola nell'altra. Sentiva ancora la rabbia circolarle in corpo come un veleno e nutrire ogni fibra del suo essere, nonostante il ragazzo si fosse scusato. Era strano, non si era mai sentita così prima d'ora. Aveva questa strana sensazione, come se ne volesse ancora, come se volesse ancora questa forza, questo potere che le scorreva dentro. La sensazione di avere le cose sotto controllo, di decidere, di...
«Amelya!» Monique la riportò alla realtà.
Lasciò la presa sul ragazzo e lo vide quasi cedere sulle sue ginocchia e crollare sul pavimento. Si portò il braccio al petto mentre con l'unica mano sana si massaggiò la gola dolorante. La fissò con gli occhi spalancati in un misto di terrore e odio. Aprì la bocca come per dire qualcosa, forse un insulto, ma ci ripensò quasi subito. Si alzò dal pavimento e indietreggiò lentamente, poi si voltò andandosene via a grandi falcate.
«Stai bene?» chiese Monique, il che era assurdo considerando che non era a lei quella a cui le stavano quasi per rompere il polso. Sapeva benissimo però che Monique non si riferiva al suo stato fisico, quanto a quello mentale, e lì onestamente non ne era poi così sicura. Cosa le era preso?
In quel momento si guardò intorno e scoprì con stupore che aveva tutti gli occhi puntati su di sé. L'intera Havre High School la stava fissando e giudicando con insistenza. Non appena si accorsero di essere stati scoperti, i suoi coetanei distolsero lo sguardo e iniziarono a parlare tra di loro. Tutti, tranne uno. Dall'altra parte del corridoio lo stesso e identico ragazzo che aveva notato il giorno prima in classe, la stava studiando con attenzione. Se ne stava semplicemente lì, con le spalle appoggiate agli armadietti e le muscolose braccia conserte sul torace. Una brutta sensazione si fece largo nel suo stomaco. Rimasero a fissarsi per un tempo che parve quasi interminabile. Dopodiché, spinta dalla curiosità di saperne il nome, Amelya si voltò verso Monique.
«Chi è quello?» le chiese, puntando il dito verso di lui. Ma il tempo di indicarlo ed era svanito.
«Quello chi?» ribattè Monique, scrutando il corridoio.
Amelya rimase interdetta, l'espressione accigliata. Eppure, lei lo aveva visto, vivo e vegeto, lì che la fissava come un maniaco qualunque.
«Sei sicura di stare bene?» domandò nuovamente, ora seriamente preoccupata.
Amelya tornò a guardarla, le fece un debole sorriso. «Sì, sto bene, scusami. Sono solo un po' stanca, ho dormito male.»
Monique la guardò poco convinta, ma non volle insistere, forse aveva intuito che non ne avrebbe comunque ricavato nulla. «Okay» concluse.
Le due raccolsero le ultime cose e si avviarono verso la lezione di matematica.
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Il sole stava tramontando dietro le immense montagne del Montana quando Amelya, appisolata sul divanetto posto dinanzi all'enorme finestra della sua cameretta, si svegliò improvvisamente. Aveva i compiti aperti sulle gambe stese e la schiena dolorante per la posizione rigida e innaturale che aveva assunto assopendosi. Ultimamente le capitava di crollare poco prima di cena, addormentandosi un po' ovunque. Sicuramente dipendeva dal fatto che la notte dormiva sempre poco e male. Si illudeva che col tempo sarebbe migliorato, che gli incubi sarebbero prima o poi andati via, ma questo non accadeva mai. Era ormai passato un po' dal suo primo giorno di scuola, temeva che questa sua stanchezza potesse gravare maggiormente sui suoi già mediocri voti scolastici. Amelya sospirò, spostando una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio destro. Poggiò la fronte al vetro della finestra e si perse a osservare gli alberi davanti a lei e molto più distanti le montagne che si ergevano maestose baciate sulle loro cime dagli stanchi e ultimi raggi di sole.
In quel momento qualcosa attirò la sua attenzione. Durò letteralmente un battito di ciglia, ma lo vide: c'era qualcuno che la stava osservando fuori dalla finestra, lì nascosto tra gli alberi. Non ebbe il tempo materiale per capire chi fosse ma ne era assolutamente certa.
Poggiò il libro sul divanetto e protese le mani sulla finestra scrutando ogni minuscolo movimento dinanzi alla sua abitazione.
Sentì la paura insinuarsi nelle sue viscere. E se...? No, non poteva essere. Distolse gli occhi dalla finestra e si rifiutò di pensarci ancora. Scostò con noncuranza il libro che aveva aperto sulle gambe e si gettò sul letto. Si strofinò il viso con le mani. Le squillò improvvisamente il telefono. Sussultò: da un po' di mesi a questa parte non era più abituata a essere chiamata al telefono. Non aveva molti amici, sua nonna sapeva appena digitare il suo numero di telefono e i suoi genitori... beh, loro non avrebbero mai più potuto chiamarla.
Si allungò afferrando il telefono sul comodino.
«Pronto?»
«Ciao Amelya!» esclamò Monique dall'altro capo del telefono.
«Ciao Monie» rispose lei, con meno entusiasmo dell'ormai amica, ma nonostante questo non appena la sentì un timido sorriso si dipinse sul suo volto.
«Tutto bene?» chiese quella.
Per un secondo i pensieri di Amelya andarono alla figura sinistra che credeva di aver visto fuori dalla sua finestra.
«Sì» rispose, forse poco sincera, ma non voleva parlare di questo a Monique o sarebbe stata costretta a raccontarle tutto e avrebbe perso la sua amicizia così velocemente come l'aveva conquistata. «E tu?» aggiunse poco dopo.
«Anche io» rispose Monique un po' titubante.
Ci fu qualche secondo di silenzio imbarazzante, ed era strano perché con la parlantina di Monique non c'erano mai silenzi. Sembrava turbata da qualcosa.
«Sicura vada tutto bene?» chiese Amelya
La sentì sospirare.
«Io ecco, volevo solo ringraziarti per come mi hai difesa qualche giorno fa, contro Oliver.»
«Non devi ringraziarmi» rispose lei.
«Invece sì. Non sono abituata a qualcuno che prende le mie difese e tu non eri affatto tenuta a farlo. Avrei dovuto ringraziarti subito, ma ero spaventata.»
«Spaventata da cosa?» non appena Amelya fece la domanda, una vocina nella sua testa le suggerì: È spaventata da me?
«Io...» iniziò quella, ma Amelya la interruppe subito.
«Sei spaventata da me, Monique?» chiese la ragazza tutto d'un fiato. Il fatto che l'avesse chiamata col nome intero e non con l'abbreviazione con cui lei si faceva chiamare da tutti diede un tono molto più serio alla domanda.
Monique esitò. Amelya non sapeva se fosse perché era spiazzata dalla domanda o perché aveva colto nel segno. Il silenzio durò non appena un paio di secondi, sufficienti però ad Amelya per non attendere ulteriormente una sua risposta.
«Monie, io non so cosa mi sia preso, te lo giuro, ma non gli avrei mai fatto seriamente del male. Ho visto come ti stava trattando e mi sono arrabbiata, mi sono arrabbiata tantissimo e non sono riuscita a controllarmi, e...» Amelya sputò tutto d'un fiato. Si portò una mano alla bocca tentando di fermarsi dal blaterare ancora.
«Amelya» la chiamò Monique, ma la ragazza non rispose. Chiuse gli occhi e per un secondo sentì rivivere quel momento. La rabbia, la furia incontrollata che scorreva nelle sue vene come adrenalina pura. Il potere che ne derivava, ma anche la paura. La paura di poter davvero nuocere a qualcuno. «Amelya?» chiamò Monique nuovamente.
Si tolse la mano dalla bocca e fece un lungo respiro. «Si?»
«Amelya io non ho paura di te» disse in tono calmo.
«Cosa?» domandò confusa lei.
«Amelya, io ti ammiro. Sei una ragazza forte. Hai subito le peggiori cose al mondo eppure non hai esitato un secondo a difendere qualcuno che conoscevi da appena qualche giorno. Probabilmente ti sei creata anche dei nemici a scuola a causa mia.»
«Monie...» iniziò Amelya.
«No,» la interruppe Monique, «non pensare nemmeno per un secondo che io abbia paura di te! Io vorrei essere come te, vorrei avere il tuo coraggio e la tua determinazione. Vorrei poter riuscire a non avere paura di niente e nessuno e invece sono costantemente spaventata.» Monique si fermò per riprendere fiato. «Non ho provato a ringraziarti prima perché ero spaventata dal fatto che tu potessi pensare che fossi una debole, che avessi bisogno di protezione costante.» Amelya la sentì sbuffare. «Ma adesso onestamente non mi importa più. Sono contenta di averti conosciuta e di averti come amica.»
«Oh Monie...» mormorò Amelya. «Anch'io sono contenta di averti come amica.»
Monique non aggiunse altro, non ce n'era bisogno. Entrambe seppero in quel momento che quella conversazione le avrebbe unite più di prima. Le due giovani spostarono gli argomenti della loro chiamata su altro. Per di più pettegolezzi e frivolezze, proprio come dovrebbero fare due diciassettenni. Amelya pensò che questa sensazione le piacesse tantissimo, questa... normalità. In così poco tempo avevano legato così tanto e la cosa le sembrava completamente assurda. Non aveva avuto questo tipo di rapporto nemmeno con Kate, la sua ormai vecchia amica del Delaware. La stessa che dopo la sua partenza smise anche solamente di scriverle. Con Monique era diverso, era come se fossero entrambe sulla stessa lunghezza d'onda. Da un lato la cosa le piaceva, dall'altro invece ne era terrorizzata. Nulla di buono veniva dallo starle accanto e purtroppo lo aveva imparato a sue spese. Forse, se avesse lasciato fuori Monique da tutto quello che realmente le passava per la testa, non ne sarebbe stata coinvolta e magari, avrebbe potuto godersi la rassicurante sensazione di avere per la prima volta una vera amica.
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