1
Il sole stava tramontando schivo dietro gli edifici di Wilmington. La primavera era alle porte, ma il freddo non era intenzionato a lasciare la città tanto presto e l'aria gelida pizzicava insistente le guance di Amelya, rendendole rosate. Le piaceva portare a spasso il suo cane Aragorn, un enorme Siberian Husky dal pelo folto bianco e nero, ma detestava davvero il freddo e questo le faceva storcere il naso. Si strinse nel cappotto e iniziò a giocherellare col guinzaglio dell'animale mentre lui trotterellava contento, annusando qualsiasi cosa gli passasse sotto il naso. Amelya fissò le logore sneakers grigie ai suoi piedi e pensò che avesse un disperato bisogno di un paio di scarpe nuove per la festa di sabato sera a casa di Mason. Forse, sarebbe riuscita a scroccare un po' di soldi a sua madre, quella santa donna non era in grado di dirle di no.
Provò a fare mente locale dei vestiti che aveva nel suo armadio: avrebbe potuto indossare l'abito blu che aveva comprato insieme a Kate al centro commerciale la settimana precedente. Chissà invece cosa avrebbe indossato Kate. Sicuramente qualcosa di audace, nel pieno stile "ragazza ribelle", che ormai la accompagnava da qualche mese.
Una brezza di marzo le accarezzò il viso pallido portando con sé il suono glaciale di un urlo che squarciò il silenzio del crepuscolo. Amelya si bloccò sui suoi passi. Un brivido le percorse la schiena. Prima ancora di poter pensare a cosa avesse sentito, il guinzaglio le scivolò di mano e Aragorn si tuffò in una folle corsa.
«No! Aragorn fermati!» urlò Amelya, ma il cane ormai l'aveva già seminata di qualche metro.
«Dannazione!» imprecò inseguendolo.
Senza la minima esitazione, dopo appena qualche metro, l'animale svoltò a destra, verso la periferia della città, come se già sapesse dove andare. Amelya tentò di chiamarlo più volte, ma senza alcun successo. L'enorme Siberian Husky la stava conducendo sempre più distante da casa sua, dai suoi genitori. Dopo qualche isolato, la ragazza era ormai certa di essersi persa. Quando fu quasi vicina ad arrendersi, con i polmoni doloranti e l'aria pungente della sera che le seccava la gola, finalmente l'animale si fermò. La ragazza lo raggiunse, trascinandosi negli ultimi passi con estrema fatica. Si portò una mano al petto dolente mentre con l'altra afferrò il guinzaglio da terra, ma quando provò a tirarlo per farsi seguire dal cane, quello non si mosse di una virgola.
«Per Dio, Aragorn, andiamo!» sbottò Amelya, stremata, ma quello rimase fermo: le zampe salde a terra, lo sguardo che si perdeva dentro il buio di un vicolo.
«Ma che ti prende?» domandò, scrutando anche lei a sua volta la stradina, senza però vedere alcunché.
A un tratto un rumore riempì quel buio. Amelya rimase interdetta, gli occhi sgranati a fissare il vicolo inghiottito dalla notte. Aragorn iniziò a ringhiare: la mandibola aperta a mostrare i canini appuntiti, la coda folta e alta, mentre i peli si drizzarono sul suo dorso disegnando sinuosamente la sua spina dorsale. Una strana sensazione si fece strada nel petto della ragazza: era invadente, caotica e soffocante. Le rapì definitivamente quel poco di respiro che le era rimasto mentre il cuore le scalpitava in gola. Non vedeva niente lì dentro, ma sentiva che c'era qualcosa. Qualcosa che le sottrasse ogni minimo brandello di coraggio lasciandola in balia degli eventi, come un ramoscello portato via dalla corrente di un fiume.
Amelya era come catturata e incantata dal nero del vicolo, le era impossibile anche solo distogliere lo sguardo o provare a chiamare aiuto. Si sentiva un tutt'uno con l'asfalto, imprigionata, legata a quel posto.
Pochi secondi che durarono un'eternità, poi qualcosa si mosse verso di lei, fugace e letale in quel pozzo di oscurità.
La sveglia suonò.
Amelya aprì gli occhi subito, come se non si fosse mai addormentata realmente. Quel sogno... era tanto che non lo faceva: il freddo di marzo sulla pelle; le passeggiate con Aragorn nel suo paese d'origine; i suoi genitori che l'aspettavano a casa...
La sveglia l'aveva trascinata via da un incubo, solo per farla ripiombare bruscamente in un altro.
Si mise a sedere, le mani a coprirle il viso: poteva sentire il terrore di quei ricordi abitare ancora le sue viscere.
Non sapeva come, non sapeva nemmeno il perché, ma quel giorno era stato l'inizio della fine. Quel preciso momento aveva dato il via a una catena di eventi inspiegabili e strazianti che le avevano strappato via la gioia di vivere che ogni diciassettenne dovrebbe avere.
Seduta sul letto, si stiracchiò la schiena dolorante e la prima cosa che i suoi occhi azzurri videro fu la pioggia che si abbatteva funesta sulla cittadina di Havre nel Montana. Le era sempre piaciuta la pioggia. Ogni volta le regalava quella sensazione di pace e tranquillità, di qualcosa di naturale, bello ma incompreso. Rimase qualche secondo a osservarla, in qualche modo la calmava. Sua madre diceva sempre che la pioggia è il pianto degli Angeli e quando una piccola Amelya le chiedeva: "Ma mamma, perché gli Angeli sono tristi?", sua madre le rispondeva: "Chi ti dice che siano tristi? Si può piangere anche d'amore".
Quanto le mancava sua madre. Quasi d'istinto afferrò tra le mani la sua collana: era un piccolo ciondolo a forma di cuore, sua madre gliela aveva regalato il giorno che aveva compiuto dieci anni. Aveva detto che l'avrebbe protetta sempre. Con l'unghia del pollice Amelya aprì il ciondolo che custodiva una piccolissima foto di lei e dei suoi genitori. Una lacrima le segnò il viso, subito cancellata via dal dorso della mano.
Amelya si passò le dita tra i capelli neri e arruffati, fece un lungo respiro, poi chiuse il ciondolo e si alzò in piedi. Quello non era il momento di lasciar libera la mente. Doveva abituarsi ai suoi demoni o essi l'avrebbero divorata.
Si diresse velocemente all'armadio dove prese e indossò le prime cose che i suoi occhi videro. Si pettinò con cura i lunghi capelli neri, poi afferrò lo zaino e scese le scale diretta in cucina. Non fece in tempo a varcarne la soglia che Aragorn le saltò addosso, mise le sue enormi zampe sul suo petto e le leccò il volto contento. Amelya lo accarezzò, infilando le dita nel suo pelo morbido e lucido. Aragorn era l'unica cosa che le rimaneva della sua vecchia casa, della sua vecchia vita. Appena dietro l'angolo, Amelya vide sua nonna Adele, intenta a preparare la colazione. Indossava un maglioncino blu, con le maniche arrotolate su fino ai gomiti. Uno chignon scomposto a legarle i capelli bruni finemente intrisi da ciocche bianche.
«Ciao nonna» la salutò.
L'anziana si voltò. «Buongiorno, tesoro» rispose, regalandole un sorriso così genuino che le fece brillare gli occhi marroni. «Ti ho fatto i pancake» aggiunse, mentre Amelya si sedeva a tavola.
Spostò i pancake dalla padella al piatto, poi si diresse verso Amelya e glielo porse.
«Grazie.»
L'anziana si sedette accanto a lei e diede una veloce occhiata al tavolo bandito dalla colazione per poi sfregarsi le mani ansiosa. Ritornò a guardare la nipote e pareva sul punto di dover dire qualcosa.
«Allora, sei...» si schiarì la voce, «sei entusiasta per il tuo primo giorno di scuola?» domandò titubante.
«No,» sentenziò frettolosamente Amelya, «odio i primi giorni. Avrei preferito che mamma e papà fossero ancora qui, così non avrei dovuto farne un altro» rispose schiettamente tra un boccone e l'altro. Forse fin troppo schiettamente. Aveva detto la verità, quello che le passava per la testa, ma non sempre dire la verità era la cosa giusta.
Amelya vide sua nonna diventare scura in volto, rattristandosi. Dispiaciuta, posò la sua forchetta e con la mano destra raggiunse quelle congiunte di sua nonna.
«Scusami» mormorò, e vide Adele accennarle un sorriso come a dirle "va tutto bene", ma non andava affatto tutto bene.
Di solito Amelya era più attenta a queste cose. In presenza di sua nonna evitava di lasciarsi sfuggire i suoi reali pensieri. Odiava essere un peso, ma soprattutto, odiava minare l'impegno che la donna metteva nell'andare avanti e nel prendersi cura di lei. D'altronde, lei aveva perso sua madre, ma sua nonna aveva perso la sua unica figlia.
Non appena finì i pancake, Amelya ingurgitò frettolosamente un sorso di succo, poi diede un fugace bacio sulla guancia ad Adele, si diresse verso la porta d'entrata e afferrò dall'appendiabiti borsa, giacca e ombrello per poi uscire di casa. Ad attenderla nel vialetto c'era l'auto di sua nonna: una Lincoln dell'86. Forse, un tempo, era stata anche un'auto bella, ma adesso la ruggine stava divorando il tettuccio e qualche volta il motore faceva strani rumori. Amelya aprì la portiera che cigolò pesantemente e salì in macchina, girò la chiave dell'accensione e la mise in moto.
Le ci volle più del normale per arrivare a scuola. Amelya conosceva poco quelle strade. Dove abitava prima, nel Delaware, le sembrava tutto più facile e intuitivo. Veniva a Havre abbastanza raramente, per la maggior parte delle volte era sua nonna che si univa a lei e ai suoi genitori durante le feste. Ricordando sua nonna Amelya si morse un labbro, sicuramente sarebbe stato meglio evitare quello che le aveva detto a colazione, ma questo non toglieva il fatto che fosse vero. Questo giorno le metteva addosso una pressione non indifferente. Erano passati mesi dall'ultima volta in cui era stata costretta a trovarsi in un'aula piena di persone. Dalla morte dei suoi genitori era riuscita gradualmente a isolarsi da tutto e tutti. Aveva perso le poche amicizie che aveva, insieme alla volontà di crearne delle nuove. Onestamente, però, non era sempre stato così. Nel Delaware, prima della morte dei suoi genitori, lei era sempre stata una ragazza solare e divertente. Qualcuno poteva persino dire che avesse una certa popolarità a scuola. Sicuramente una tragedia del genere ti cambia, ma lei non si sentiva solamente cambiata, lei si sentiva una persona completamente diversa.
Una volta parcheggiato davanti alla scuola, Amelya si concesse qualche minuto dentro la vettura, rubando degli istanti di pura tranquillità. Osservò in silenzio la pioggia che picchiettava il parabrezza. Era come se lì dentro il caos dei suoi coetanei che si accingevano ad andare a lezione non potesse raggiungerla. Con un sospiro di incoraggiamento, afferrò le sue cose e uscì dalla macchina. Le sembrò quasi come se un'enorme ago avesse perforato la bolla di sapone ovattata dove si trovava fino a poco prima. Aprì l'ombrello e si avviò verso l'entrata insieme agli altri studenti.
L'High School di Havre era più piccola rispetto alla sua precedente scuola. I corridoi erano invasi di studenti, alcuni erano in uniforme da football dai vividi colori bianco e blu. Amelya scrutò gli armadietti, il suo era il centosei e lo trovò poco dopo accanto a un volantino raffigurante un pony bianco su uno sfondo blu e una padroneggiante scritta sotto che la informava sul nome della squadra di football: I Blue Pony.
Non era mai andata matta per lo sport in generale, anche se nella sua vecchia scuola quando ancora le importava qualcosa di avere una vita sociale, le era capitato di uscire con qualcuno della squadra di football. Amelya sospirò: ricordare quella vita prima della morte dei genitori era come ricordare la vita di un estraneo. Non si riconosceva in niente di quella che era una volta; tutte le feste, le partite e le uscite di gruppo con i suoi amici sembravano ora sciocchezze di poco conto.
Aprì lo zaino ed estrasse il foglio con gli orari delle lezioni che la segreteria della scuola le aveva inviato tramite e-mail, poi sbloccò il suo armadietto e ci infilò dentro lo zaino. Scrutò la lista: la prima ora era dedicata a letteratura, poi c'era matematica, fisica e inglese. Prese i libri necessari e chiuse l'armadietto. Seguì attentamente i cartelli fissi alle pareti che le indicarono l'aula giusta. Quando vi entrò, la professoressa Imperhad era appoggiata alla cattedra con un libro in mano. Portava un completo marrone con giacca e gonna fino al ginocchio, i neri capelli lisci a caschetto le circondavano il viso sottile come il naso dove erano appoggiati dei fini occhiali neri. Appena si accorse di lei, la donna poggiò il libro sulla scrivania e le rivolse un sorriso.
«Tu devi essere la ragazza nuova, giusto?» domandò e il resto della classe parve accorgersi di lei solo in quel momento.
Amelya annuì.
«Bene, puoi accomodarti lì» disse e indicò un banco libero in seconda fila, vicino alla grande vetrata che dava sul cortile esterno. Amelya osservò qualche secondo i suoi compagni di classe, che le ricambiarono tutti lo sguardo, o meglio, quasi tutti.
L'unico che in quel momento non sembrava prestarle la benché minima attenzione era un ragazzo: ultima fila, capelli neri corvino, iridi talmente chiare da sembrare quasi bianche e una sfilza di tatuaggi che gli coprivano completamente la parte sinistra del collo per poi continuare sul braccio sinistro. Non sapeva bene perché, ma la incuriosiva. Lui, forse sentendosi osservato, alzò gli occhi e la guardò con una freddezza singolare.
Delle risatine di sottofondo la fecero rinsavire all'istante. Amelya strinse i libri più forte a sé, costrinse gli occhi a osservare il pavimento e fulminea si sedette dove la professoressa le aveva indicato.
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Per il resto della giornata Amelya cercò in tutti i modi di concentrarsi sulle lezioni, evitando attentamente di farsi notare. Non rivide quel ragazzo in nessun'altra classe e badò bene a non pensarci più di tanto. D'altronde avrebbe dovuto passare lì dentro molti altri giorni, le era utile essere invisibile.
Quel pomeriggio, Amelya tornò da sua nonna più stanca del solito. Aprì la bianca porta di quella che ormai era diventata anche casa sua, gettò la borsa in un angolo e con un sospiro appese giacca e ombrello all'appendiabiti.
«Sono tornata» comunicò con voce piatta, sperando che fosse udita ugualmente. Si sentiva persino troppo spossata per alzare la voce.
Dalla cucina proveniva un vociare sommesso. Che sua nonna avesse ospiti? Strano da parte sua, di solito era asociale tanto quanto lei.
Vi si diresse e scorse una ragazza dai capelli castani lunghi e mossi seduta al tavolo, la quale si voltò nell'esatto secondo in cui lei entrò in cucina.
«Oh, Amelya!» esclamò sua nonna, «lei è Monique, è la nipote di una mia vicina di casa. Ho pensato che poteste fare amicizia» le comunicò Adele, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
Amelya si congelò sul posto. Le sembrò di essere tornata a quando aveva cinque anni e i suoi genitori la spronavano a fare amicizia con le altre bambine. Dire di no avrebbe sicuramente offeso sua nonna, mentre dire di sì, l'avrebbe legata a una sconosciuta che probabilmente voleva essere lì tanto quanto lei. Si voltò un secondo a guardare la porta d'entrata, come se stesse valutando se scappare non fosse una scelta più saggia, poi però tornò a dedicare la sua attenzione all'ospite dinanzi a lei.
«Ciao Monique, sono Amelya» disse, in un tono così formale da essere completamente fuori luogo.
Quella per tutta risposta si alzò in piedi, le venne vicino a gran falcate e le tese la mano. «Ciao! Puoi chiamarmi Monie!»
Amelya le strinse la mano un po' sorpresa da così tanta euforia. Ora che poteva vederla più da vicino notò i suoi occhi marroni dello stesso colore dei capelli, gli zigomi alti e un visino a forma di cuore. Sembrava una ragazza molto dolce.
Ne susseguì qualche attimo di silenzio imbarazzante, dove Monique continuava a fissarla con un sorriso scolpito in faccia.
La ragazza si voltò a guardare Adele come a chiederle aiuto. Questa, come se avesse appena letto un enorme SOS sulla fronte della sua ospite chiese: «Bene, ora che vi siete presentate, Amelya, tesoro, perché voi due non uscite e vi andate a fare un giro?»
Amelya doveva decisamente aspettarselo. Rimase comunque qualche secondo di troppo in silenzio, per poi farfugliare: «Sì sì, certo. Sarà divertente.» Sfoggiò il suo miglior sorriso finto.
Monique le sorrise di rimando, visibilmente imbarazzata adesso, forse aveva notato che la sua nuova amica non era poi così felice di essere lì con lei. Le due presero le loro cose e sotto l'occhio vigile di Adele uscirono di casa. Aveva appena smesso di piovere, ma l'aria era ancora intrisa di umidità e un leggero venticello portava con sé l'odore pungente di erba bagnata. Amelya si strinse nella giacca mentre con una mano estraeva le chiavi dell'auto dalla borsa.
«Non sei obbligata, sai...» mormorò Monique e la guardò con degli occhi così feriti e tristi che ad Amelya fecero quasi male. Non amava allontanare le persone da lei, anche se a volte si sentiva in qualche modo obbligata a farlo. D'altronde però, non era nemmeno in grado di ferire qualcuno di proposito se non lo meritava e Monique non sembrava meritarlo affatto.
«Ma no, tranquilla. Mi va di uscire» mentì.
«Va bene allora» le disse Monique con un flebile sorriso. «Dove vuoi andare?» le chiese poi.
Amelya rimase un secondo spaesata. «Onestamente non sono di queste parti, non conosco molti posti qui. Consigliamene uno tu.»
Monique fece per pensarci su. «Okay, andiamo. Ti porto in un posto davvero carino.»
La condusse in un piccolo caffè in centro. All'esterno dava l'impressione di essere angusto e triste, ma non appena ne varcavi la soglia, rivelava tutta la sua bellezza. Era un locale piccolo ma accogliente. Le pareti erano a mattoni visibili, un insolito soffitto in legno e dei graziosissimi tavolini in ferro battuto.
Si sedettero entrambe e ordinarono da bere. Ci fu un imbarazzante silenzio iniziale, mentre Monique giocherellava col ciondolo del suo bracciale, un piccolo delfino d'argento, e Amelya fingeva di perdersi a guardare le mattonelle rosse intorno a lei.
«Allora...» esordì Monique improvvisamente, «oggi è stato il tuo primo giorno di scuola, no?»
Amelya annuì.
«Come ti è sembrata la Havre High School?» chiese subito dopo, senza nascondere un po' di incertezza.
«Non è male, anche se onestamente non ho parlato con nessuno, è difficile essere la nuova arrivata» rispose sinceramente Amelya.
«Che peccato, se ci fossimo conosciute stamattina ti avrei potuto far da guida.»
«Vai anche tu alla Havre High School?» domandò Amelya.
«Siamo un paesino minuscolo sperduto nel Montana, quella è l'unica scuola per miglia» rispose la ragazza.
In quel momento arrivò da bere. La cameriera porse ad Amelya il suo thè freddo mentre Monique aveva preso un frullato alla fragola.
«Hai ragione, a volte dimentico che non sono più nel Delaware» continuò Amelya, il tono intriso dall'amarezza.
«Come mai non abiti più lì?» chiese Monique, sorseggiando il suo frullato.
Amelya inspirò lentamente. Sapeva benissimo che questa domanda l'avrebbe portata a raccontare cose molto più profonde e dolorose, non sapeva se era pronta a farlo senza trasformarsi in una poltiglia di lacrime e singhiozzi.
«Diciamo che avevo bisogno di cambiare aria» rispose, rimanendo sul vago.
Monique rimase qualche secondo in silenzio, poi disse: «Non voglio farmi gli affari tuoi, ma se vuoi parlarne sono qui.»
Quella frase fece intuire ad Amelya che forse la ragazza che aveva dinanzi a sé, sapeva molte più cose di quanto ne desse a vedere.
«Tu che ne sai?» domandò, cercando di tenere un tono neutrale, ma si sentiva che era infastidita dalla cosa.
«Vivi da sola con tua nonna, mi sono fatta due domande sul perché» rispose Monique, mettendosi sulla difensiva.
Amelya sospirò. Era più facile parlare dell'argomento se la persona a cui lo stavi dicendo aveva già intuito una buona parte del discorso?
«Ho perso i miei genitori.»
Amelya aveva immaginato di dire questa frase a qualcuno altre volte prima di quel momento, ma nella sua testa assumeva un significato più profondo. Perso? Lei non aveva perso nessuno. Non è come perdere un oggetto o una partita di football. Questo era diverso, i suoi genitori le erano stati strappati via, come quando ti viene tranciato di netto un braccio o una gamba.
Abbassò lo sguardo e strinse tra le mani il bicchiere di the freddo.
«Mi dispiace molto» disse Monique in un tono che trasudava serio rammarico. «Sai, ho perso qualcuno anche io» aggiunse poco dopo e Amelya si ritrovò a osservarla con sorpresa. «Mia madre è morta quando avevo dieci anni, era malata. Mio padre invece...» si fermò e questa volta fu lei ad abbassare lo sguardo iniziando a fissare il tavolino.
«Se non sei pronta a dirmelo non importa» sussurrò Amelya.
«No è che... è strano dire queste cose a qualcuno che conosci appena» disse Monique in evidente imbarazzo, poi sollevò gli occhi marroni e lucidi sulla ragazza che aveva di fronte.
Amelya stava per risponderle quando Monique scosse la testa come a cacciare via un pensiero. «Ma non è importante, tanto se non te lo dico io lo farà qualcun altro a scuola, quindi...» farfugliò, più come se stesse ragionando con sé stessa.
Amelya aggrottò la fronte incuriosita, ma decise di non interromperla.
«Due anni fa mio padre venne accusato di aver rapinato un negozio di alimentari insieme ad altre persone. Durante la rapina un'impiegata morì. Sembra che non avesse un alibi per quella sera, così chiese a me di mentire in corte per lui e io lo feci. Avevo 15 anni, ero convinta fosse innocente e non volevo perdere anche mio padre.» Fece spallucce come se fosse la cosa più naturale al mondo, ma stava fingendo e si vedeva che cercava di dargli meno importanza rispetto alla realtà. Abbassò di nuovo lo sguardo sul tavolo. «Ma non lo era. Non era innocente. Il tribunale lo condannò a 35 anni di carcere.» Monique si prese una pausa, chiudendo gli occhi per qualche secondo. «Avevo falsamente testimoniato per salvarlo, ma ero minorenne, quindi non ebbi conseguenze gravi dal punto di vista legale. Tutto il paese però seppe il mio nome. Seppe chi ero e chi avevo cercato di proteggere. Venni etichettata nei peggiori modi possibili e mi ritrovai contro anche chi aveva promesso di starmi vicino. I genitori dei miei amici vietarono loro di uscire con me e in poco tempo divenni quella che aveva difeso un rapinatore e un assassino. Lentamente, l'intera città mi isolò.» Più ne parlava e più si vedeva che la ferita era ancora lì, ben visibile. In un certo senso era come se anche lei avesse perso entrambi i genitori. Così estranee eppure così simili.
«Mi dispiace tanto Monie, davvero» disse Amelya.
«Grazie» rispose la giovane, regalandole un debole sorriso.
In quel momento Amelya ebbe la sensazione di doversi aprire anche lei con Monique, di condividere con lei un pezzo della sua personale tragedia. Sapeva che era pericoloso farlo, ma forse se si fosse astenuta dal rivelare troppo, avrebbe evitato di rischiare di mettere in pericolo anche lei. Era una cosa completamente assurda e lo sapeva, non era costretta a dirle nulla, forse non era nemmeno pronta a parlarne, ma in un certo senso sentiva di averne bisogno.
Inspirò lentamente. «Mio padre è morto in un incidente stradale ad Aprile, mia madre, divorata dal dolore, si è suicidata un mese dopo.» Lo disse così, tutto d'un fiato, come quando ci si leva un dente marcio. Provò ribrezzo per quella frase: le cose per lei non erano andate proprio così. Chiuse gli occhi e scosse la testa cacciando via un'immagine dalla sua mente. L'unica e sola immagine che l'avrebbe tormentata per sempre.
Monique rimase qualche istante con la bocca semi aperta a fissare Amelya, poi la chiuse improvvisamente e corrucciò la fronte. Dopo qualche secondo, allungò una mano e afferrò quella di Amelya guardandola negli occhi azzurri.
«Mi dispiace così tanto, nessuno dovrebbe passare quello che hai passato tu» mormorò.
«Noi,» la corresse Amelya, «quello che abbiamo passato noi.»
Amelya le sorrise ricambiando la stretta di mano. Si sentiva un po' meglio, averlo detto ad alta voce per la prima volta dopo mesi aveva sicuramente aperto una breccia in quel blocco emotivo che ormai la accompagnava da un po'. Forse l'aveva aiutata il fatto che Monique fosse una completa estranea, per assurdo, dirlo a qualcuno con cui non si aveva nessun tipo di legame lo aveva reso più semplice. Non che facesse meno male, ma condividerlo con una ragazza come Monique che sicuramente poteva capirla mise una nota positiva in una giornata che non era iniziata nel migliore dei modi.
Le due ragazze passarono il resto del pomeriggio a parlare di argomenti molto più leggeri. Venne fuori che anche Monique viveva con sua nonna e che era stata proprio lei, essendo una cara amica di Adele, a convincere la ragazza a presentarsi a casa sua. Le due nonne erano convinte che Amelya e Monique avessero molto in comune e che sarebbero potute diventare amiche e che magari avrebbero potuto addirittura infondersi coraggio l'un l'altra.
Forse, pensò Amelya, non avevano visto male.
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