La visita del conte
Notte.
A Casale Monferrato regnava la quiete.
Tra le strade deserte passarono due carrozze, le quali tuttavia non si incrociarono.
Una di esse si fermò davanti a un palazzo.
Due persone scesero e, mano nella mano, sparirono all'interno dell'edificio.
Non si udiva alcun rumore. Regnava il completo silenzio.
A un certo punto una candela venne accesa e si udirono dei lievi passi che si muovevano in direzione del cortile interno.
«Guarda quante stelle, Giovanni» osservò allegramente Angelica.
Lui sorrise e poi si sedette trascinando con sé sua sorella.
Rimasero così, abbracciati, a osservare il bel cielo notturno.
«Quando eravamo piccoli spesso venivamo qua di nascosto per vedere il guerriero mascherato, ti ricordi?» domandò la giovane Fortebraccio.
«Come potrei dimenticarmene? Il guerriero mascherato era il nostro mito».
«Penso che fosse il mito di tutti i bambini».
«Già, però solo noi l'abbiamo visto».
Angelica rise.
Scoppiò a ridere anche Giovanni.
Il guerriero mascherato non era mai esistito in realtà, però tutti i bambini erano convinti del contrario e più volte avevano giurato di averlo visto.
Probabilmente avevano ragione: quando si crede fortemente all'esistenza di qualcosa, allora essa esisterà per davvero.
«Sai, a dispetto di come è incominciata, questa è stata la serata più bella della mia vita» disse sua sorella dopo un po'.
Lui sorrise sornione.
«Può ancora migliorare» le sussurrò all'orecchio facendola arrossire.
Si alzarono.
Giovanni strofinò il suo naso contro quello di Angelica e poi la baciò.
Si staccarono quando sentirono un rumore in lontananza.
Probabilmente erano i loro genitori che tornavano dal ballo.
Si guardarono.
A malincuore entrarono in casa e si diressero nelle rispettive stanze.
«Buonanotte amore mio» sussurrò Giovanni.
Angelica, senza fare rumore, prima di entrare in camera, lo abbracciò e gli diede un lieve bacio sulla bocca.
«Buona notte a te».
Si addormentarono entrambi con il sorriso sulle labbra.
Il giorno successivo il sole splendeva alto nel cielo azzurro.
Non si vedeva una nuvola all'orizzonte.
A Giovanni sembrò quasi che il cielo rispecchiasse il suo stato d'animo.
Era felice e ciò oscurò tutte le sue preoccupazioni e paure.
Si vestì in fretta e, senza farsi vedere, si diresse nella stanza di sua sorella.
Prima di poterla raggiungere però andò a sbattere contro qualcuno.
Stava già pensando a una scusa qualsiasi quando si accorse che la persona contro la quale era andato a sbattere era Angelica.
Entrambi sorrisero.
Lui le afferrò la mano e la condusse lontano da sguardi indiscreti.
Sentendosi al sicuro, la attirò a sé e la baciò.
«Audendum est: fortes adiuvat ipsa Venus [1]» bisbigliò Angelica.
«Speriamo aiuti anche noi, allora».
Sua sorella appoggiò la testa sul suo petto.
«Giovanni... Non tornerai da Lucia, vero?».
Lui le prese il volto tra le mani e disse: «Non ce n'è motivo. A me lei non interessa. Io amo solo te!».
«Davvero?».
«Se avessi avuto sette vite avrei potuto nascere in sette città diverse, avrei potuto mangiare quello che si mangia in sette vite e poi mi sarei innamorato sette volte della stessa persona. Mi sarei sempre innamorato di te».
Angelica lo abbracciò forte e gli diede un bacio.
«Se andasse così tutte le mattine sarebbe fantastico!» sorrise Giovanni.
Lei gli diede un colpetto sul petto.
«Devo andare alla gilda adesso, ma questo pomeriggio sono tutto tuo!» affermò dandole un altro bacio.
Si allontanò in fretta da lei vedendo approssimarsi alcuni dei servitori.
«A dopo» le sussurrò.
«A dopo».
Il giovane percorse allegramente le strade di Casale salutando con gioia i passanti.
Non si scompose nemmeno quando vide Bruto.
Quest'ultimo spalava ancora letame per il vecchio Tobia secondo preciso ordine di Facino Cane.
Gli stava bene. Se fosse stato per lui avrebbe spalato letame a vita. Non meritava sorte migliore.
«Ehi ragazzo allegro!» lo chiamarono Andrea e Ruggero.
«Ti è successo qualcosa di bello?» domandò de' Pozzo.
«Si, qualcosa» rispose facendogli l'occhiolino.
«Aaaah, vecchio mio!» gli batté una mano sulla spalla.
«Donne?» tirò a indovinare Ruggero.
Giovanni assentì.
«Chi è la fortunata?».
Il giovane fece finta di niente e entrò nella gilda.
«Ah, vuoi mantenere il segreto? Tanto prima o poi ce lo dirai!».
I due amici lo rincorsero all'interno dell'edificio.
Incrociarono Facino Cane che li trascinò nel suo studiolo.
«Visto che sembrate avere voglia di fare movimento, ho una missione per voi».
I tre assassini deglutirono.
«Come sapete, Teodoro II dichiarerà a breve guerra a Amedeo VIII. Il marchese può contare su molti alleati. Tra questi vi è il conte di Saluzzo, il quale però, prima di appoggiare apertamente il nostro signore chiede che venga liberata una fortezza conquistata dagli Acaja».
«Quale fortezza?» domandò Andrea.
Qualcuno parlò.
Un uomo dai folti capelli neri e occhi color nocciola, dal portamento elegante e raffinato, si fece avanti.
«Sono Federico II di Saluzzo» si presentò.
Il giovane Fortebraccio ricordò che anche il comandante dell'esercito degli Acaja che aveva ucciso a Roppolo era di Saluzzo.
Strane coincidenze.
Il conte, dopo aver appreso i nomi dei presenti e aver guardato con un certo interesse Giovanni, spiegò loro che cosa voleva che facessero.
«Questo è quanto. Mi aspetto la massima riservatezza» concluse.
«Sarà rispettata. I miei uomini partiranno subito e non credo di essere in errore dicendo che saranno di ritorno entro dopodomani al massimo» sorrise affabile Facino Cane.
«Molto bene».
Federico II posò sul tavolo un sacco pieno di monete e poi disse: «Questo è un anticipo. A missione compiuta ognuno di voi riceverà il doppio. Ora, vogliatemi scusare, ho degli affari importanti da sbrigare».
Uscito, Ruggero esclamò: «Per la miseria, sono un sacco di soldi!».
«Che cosa ti aspettavi, è un conte» sorrise Andrea.
«Poche chiacchiere. Prendete i cavalli più veloci e partite immediatamente» ordinò Facino.
«Voi non venite con noi?».
«Oh, non ce n'è bisogno. Sono sicuro che ve la caverete egregiamente. Giovanni, affido a te il comando di questa missione».
Il giovane fece un leggero inchino.
Era felice per il ruolo di primo piano che gli era stato assegnato, però questo voleva dire che non avrebbe potuto vedere Angelica.
Si incupì.
«Finito questo compito, potrai tornare dalla tua bella!» gli sussurrò Andrea capendo il suo turbamento.
Aveva ragione.
Sarebbe tornato presto così avrebbero potuto stare insieme.
Prima di arrivare alle scuderie incontrò un servo di casa Fortebraccio e lo pregò di avvertire i suoi familiari della sua partenza, in particolare sua sorella.
Salì in groppa a un magnifico cavallo marrone e, insieme ai suoi compagni, partì alla volta della fortezza.
*
I giovani assassini raggiunsero la fortezza in tarda serata.
Era questa una costruzione ottagonale che a distanza appariva come un tetragono i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte su cui si innervavano a strapiombo. Guardando dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse mastio e torrione. Tre ordini di finestre dicevano il ritmo trino della sua sopraelevazione cosicché ciò che era fisicamente quadrato sulla terra appariva spiritualmente triangolare nel cielo.
Man mano che si avvicinavano, notarono che la forma quadrangolare generava, a ciascuno dei suoi angoli, un torrione eptagonale di cui cinque lati si protendevano all'esterno - dunque quattro degli otto lati dell'ottagono maggiore generava quattro eptagoni minori che all'esterno si manifestavano come pentagoni.
Era una fortezza imponente e difficile da espugnare.
La missione si stava rivelando più complessa del previsto.
Giovanni, insieme ai suoi compagni, notò che vi erano molti monaci all'interno dell'enorme costruzione.
Uccidere un monaco era cosa sacrilega anche per un assassino.
«Che facciamo?» domandò Ruggero.
«Non possiamo uccidere tutti. Sono in troppi» corrucciò la fronte Andrea.
«L'unica soluzione è scovare colui che detiene il comando, farlo prigioniero e ordinargli di liberare la fortezza» osservò il giovane Fortebraccio.
«Facile a dirsi, ma difficile a farsi».
«È l'unica possibilità che abbiamo».
Fu a quel punto che notarono un gruppo di flagellanti.
Ogni flagello era una specie di bastone dal quale sul davanti pendevano tre corde con grossi nodi. Questi nodi erano attraversati da spine di ferro incrociate, molto appuntite, che li passavano da parte a parte sporgendo dal nodo stesso per la lunghezza di un chicco di grano o anche più. Con questi flagelli si battevano il busto nudo, così che questo si gonfiava assumendo una colorazione bluastra deformandosi. A volte si conficcavano le spine di ferro così in profondità nella carne che riuscivano a toglierle soltanto dopo ripetuti tentativi.
I tre assassini si guardarono e, nascosti i cavalli, con circospezione, si unirono al movimento dei flagellanti riuscendo così a entrare nella fortezza senza destare sospetti.
Appena ne ebbero la possibilità si staccarono da loro.
«Perfetto, siamo dentro!» gioì Ruggero.
«Ora non ci resta che trovare il comandante» sussurrò Andrea.
«Dividiamoci e troviamoci qui tra un'ora» ordinò Giovanni.
Separatisi, il giovane Fortebraccio interrogò le poche persone presenti per le stradine: l'ora del coprifuoco era già passata da un pezzo.
Riuscito a scoprire l'ubicazione della chiesa, vi si diresse con passo deciso.
Trovandovi la porta aperta vi entrò.
Alcuni monaci stavano sistemando sull'altare una croce d'argento.
«Non potete entrare, signore» lo rimproverò uno.
«Ne sono consapevole, ma ho bisogno di confessarmi» rispose Giovanni.
«Tornate domani mattina».
«Vi prego, è di vitale importanza».
«Vi confesserò io» sorrise un monaco sui quarant'anni.
A differenza degli altri, aveva un aspetto allo stesso tempo gioviale e severo.
Sistematisi nel confessionale, il giovane disse: «Perdonatemi padre perché ho peccato».
«In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti».
«Amen».
«Che cosa vi turba?» chiese il monaco.
«Confiteor Deo omnipotenti, et tibi, pater. Sono venuto a conoscenza di un fatto grave, assai grave. Degli uomini vogliono attentare alla vita del comandante della fortezza».
«Non mi sorprende. Il comandante ha subito cinque attentati solo in queste ultime due settimane».
Giovanni rimase con la bocca aperta senza sapere bene cosa dire. Non immaginava una risposta simile.
«Non c'è da preoccuparsi. Visti gli ultimi avvenimenti, ha aumentato le misure di sicurezza. Tuttavia, mi prendo personalmente il compito di informarlo di quanto mi avete detto».
«Siate benedetto».
«Ora ditemi qual è il vostro peccato».
Silenzio.
«I-io... Io, per un momento, solo per un momento, ho desiderato mantenere questo segreto per me sperando che gli attentatori avessero successo. Dio misericordioso mi perdoni!» esclamò teatralmente il giovane assassino.
«Sperare nella morte di qualcuno è male. Il Signore ci ha insegnato ad amare il nostro prossimo come un fratello indipendentemente da tutto».
«Lo so padre, e mi pento profondamente per il mio turpe pensiero. Mio Di mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi, e molto più perché ho offeso Te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire dalle occasioni prossime di peccato.
Signore, misericordia, perdonami».
«Dite cinque Ave Maria per una settimana. Ego te absolvo a peccatis tui».
«Grazie padre».
Giovanni stava per uscire dal confessionale, quando il monaco lo fermò: «Sento che c'è qualcosa d'altro che vi turba. Qualcosa di molto profondo».
Il giovane lo guardò stupito. Che cosa intendeva?
«Lo percepisco dal vostro sguardo, dal vostro modo di comportarvi. Non abbiate timore ad aprirvi. Dio è misericordioso e giusto».
"Angelica".
Senza nemmeno rendersene conto, Giovanni si ritrovò a pensare a sua sorella e all'amore peccaminoso che provava nei suoi confronti.
Sapeva che il suo amore era sbagliato, però... Però lo faceva stare bene e lo rendeva felice. Felice come non mai.
«I-io... Io amo una persona che non dovrei amare» sussurrò.
«L'amore è la cosa più bella e dolce che nostro Signore ci abbia concesso. L'amore, se retto da bontà e sentimenti puri, non può essere sbagliato».
«Non nel mio caso».
«Sapete cosa è la felicità?».
Il monaco non attese la sua risposta.
«È un bacio rubato. Un messaggio inaspettato. Lo sguardo intenso di un passante. È udire con sorpresa la voce di chi ami. È una boccata d'aria fresca dopo una giornata rinchiusa in una stanza. È un sorriso. È una passeggiata al sole dopo settimane di pioggia. È un profumo nuovo. È il sorriso di un bambino. È una confidenza tra fratelli. È un'emozione improvvisa. È la luna piena. È un abbraccio affettuoso. Non pensate al domani, a cosa farete e se sarete felice. Godetevi il momento presente, è l'unico che possedete. Non chiedetevi se ci saranno le opportunità giuste, createle. Non domandatevi se domani pioverà. Oggi vedete il sole, ed è questo che conta. Apprezzate ogni emozione, ogni lieve respiro. Sono queste le nostre dosi di felicità che il Signore misericordioso ci ha concesso. Chiudete gli occhi e ascoltate il battito incalzante del vostro cuore. Non è questa la felicità?».
Giovanni guardò il suo confessore in silenzio.
Quest'ultimo sorrise e poi, facendo il segno della croce disse: «Indulgentiam, absolutionem, et remissionem peccatorum tuorum tribuat tibi omnipotens et misericors Dominus. Amen.
Dominus noster Jesus Christus te absolvat: et ego auctoritate ipsius te absolvo ab omni vinculo excommunicationis, suspensionis, et interdicti, in quantum possum, et tu indiges. Deinde ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen».
«Amen».
Il giovane rimase seduto, interdetto.
Quel monaco era diverso da tutti gli altri.
Non sapeva spiegarselo, ma era come se egli avesse realmente capito quello che provava. Sembrava avergli letto nel profondo dell'anima.
Si sentì scoperto, ma anche più tranquillo.
Sorrise.
Poi uscì dal confessionale e dalla chiesa.
Vide il monaco salire delle scale e scomparire dentro un imponente edificio.
Lo seguì.
Non aveva tempo di tornare indietro e avvertire Andrea e Ruggero perciò fischiò due volte.
Nel silenzio della sera quel segreto richiamo avrebbe attirato la loro attenzione.
Poi, fondendosi con le ombre della sera, entrò nel luogo in cui avrebbe trovato il comandante della fortezza.
[1] Bisogna osare: Venere stessa aiuta i coraggiosi.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top