All'attacco

Il villaggio bruciava.

I cadaveri degli abitanti con esso.

Le case erano state svaligiate, gli uomini uccisi e le donne stuprate.

Alcuni membri della Fratellanza osservavano compiaciuti quello spettacolo.

Giovanni pensò agli uomini nei campi.

Quando, al tramonto, sarebbero tornati non avrebbero trovato più nulla.

Non ci aveva mai pensato.

Non aveva mai pensato a niente e nessuno quando, insieme ai suoi confratelli, assaltavano e massacravano intere campagne e villaggi.

Pensò alla carestia.

Lui non era ancora nato quando quella terribile sciagura si era abbattuta sull'Italia e sul resto dell'Europa.

Suo padre, però, gliela aveva raccontata.

In quel periodo non c'era cibo.

Tutti gli uomini, sia ricchi sia poveri, morivano di fame.

Molti, colti da una fame rabbiosa, avevano cominciato a nutrirsi di carne umana.

Viandanti venivano assaliti da qualcuno più robusto e poi tagliati a pezzi, cotti al fuoco e divorati.

Molte persone che si recavano da un luogo all'altro per fuggire la carestia venivano sgozzate durante la notte. Spesso i bambini venivano attirati con un frutto o un uovo e poi venivano scannati e divorati.

I cadaveri dei defunti, in molti luoghi, erano strappati alla terra e servivano ugualmente a combattere la fame.

Nel mondo quindi, per punire i peccati degli uomini, aveva infierito per tre anni questo flagello.

Sua madre diceva che si era compiuta la parola di Isaia, il quale asseriva: «Il popolo non si rivolse verso Colui che lo percuoteva». C'era, infatti, negli uomini una certa durezza di cuore, congiunta con l'ottusità dello spirito.

I suoi pensieri furono interrotti da un grido.

Una donna, avvolta dalle fiamme, si diresse urlando verso di loro.

Non li raggiunse.

Una lancia l'aveva trafitta dritto al cuore.

Ruggero aveva sempre avuto un'ottima mira.

«Andiamocene» ordinò Facino Cane.

«Dobbiamo visitare ancora molti paesi» sorrise crudelmente.

Si misero in marcia.

Nessuno li notò.

Proseguirono fino a quando non si trovarono dinanzi a una torre cilindrica sormontata da una cupola. Le pareti della misteriosa costruzione erano lisce come il bronzo.

Non vi era un segno, un ornamento o un'iscrizione.

C'era solo un alone rossastro che spandeva la sua luce sull'erba, simile a una chiazza di sangue.

Si apriva, alla base, un'arcata scura che dava sull'interno, completamente avvolto nell'oscurità.

«Non mi piace» bisbigliò Andrea.

Facino Cane scrutò la torre.

«Che nessuno si avvicini a quel... A quella cosa» disse.

«Comandante, Adolfo è entrato là dentro!» quasi urlò Ruggero.

«Che cosa?».

«L'ho visto con i miei occhi».

Il capitano di ventura imprecò.

«Dobbiamo tirarlo fuori da lì. Giovanni, Andrea e voi tre laggiù seguitemi. Voialtri aspettateci qui» ruggì subito dopo.

Il giovane Fortebraccio notò l'espressione preoccupata del suo comandante.

Aveva forse paura?

Impossibile.

Facino Cane non aveva paura di niente.

Si diressero verso la torre, ma mentre stavano per varcare la soglia un rantolo ferino risuonò nella cavità del monumento, rimbombò profondo e rauco sotto l'immensa volta e poi subito esplose in un urlo lacerante, in un ruggito di tuono.

Tutti si immobilizzarono immediatamente, agghiacciati dall'orrore.

L'urlo bestiale si faceva sempre più vicino.

Giovanni si guardò disperatamente attorno, sperando di intravedere qualcosa.

Ci fu un bagliore.

Il giovane rimase pietrificato.

«Andiamocene» sentì dire a Facino Cane.

Non riuscì a muoversi.

Sentì un alito bollente sul volto.

Sentì la vita scivolargli via.

Poi vide qualcuno agitare una spada.

Una mano lo afferrò e lo trascinò lontano dalla torre.

«Sei impazzito? Volevi farti uccidere?» gli urlò Andrea.

Lui non rispose.

Era ancora troppo sconvolto.

«Che cosa è successo?» domandò, preoccupato, Ruggero.

Nessuno gli rispose.

«Siete bianchi come cadaveri!» disse un altro.

«Dov'è il capitano?» riuscì a dire Giovanni.

«È ancora là. Ti si è parato davanti per salvarti e...» tentò di spiegare Andrea.

«Eccolo, è lì!» esclamò Ruggero.

Facino Cane camminava lentamente verso di loro.

Era vitreo in volto.

La sua spada era bagnata di sangue.

«Se qualcuno di voi si azzarda a fare qualcosa senza il mio permesso, gli tiro fuori gli occhi dalle orbite! Sono stato chiaro? E ora andiamocene!» tuonò.

«E Adolfo?» chiese Ruggero.

Il comandante lo guardò come se stesse guardando un insetto estremamente fastidioso.

«È morto?».

Facino lo prese per la collottola.

«È morto? Questo chiedi? Morto è una bella parola al confronto di quello che è Adolfo adesso».

«I-io... Non è colpa mia. Io non ho fatto niente!».

«Tu non fai mai niente, Ruggero».

Lo lasciò andare.

«Andiamocene» ripeté.

Si allontanarono in silenzio.

Dall'apertura della torre uscì un respiro faticoso e dolorante, come dalla bocca di un condannato.

Giovanni si avvicinò al suo comandante.

«Grazie» gli sussurrò.

L'uomo gli mise una mano sulla spalla.

«Dimentica presto ciò che hai visto».

«È difficile. Adolfo era...».

«Dimentica. È meglio così».

«E voi capitano?».

«Io? Io non dimentico mai niente».


*


Il sole stava tramontando.

Un arancione cupo illuminò Roppolo.

Il paese si trovava in un'area in cui la Serra d'Ivrea si armonizzava alle ondulazioni collinari che sfumavano gradatamente nella pianura.

Punto centrale era il castello che, trovandosi in una posizione elevata e dominando il lago di Viverone, costituiva un ottimo punto di osservazione e di controllo sulla zona circostante.

Spiccava poi una torre, intorno alla quale era stato costruito un complesso costituito da un recinto, in origine formato probabilmente da pietre a secco messe secondo un metodo relazionato al metodo delle "Chiuse" di tradizione longobarda.

Un giullare vagava per le stradine, suonando una ghironda e cantando una composizione di Colin Muset:

Signor conte, ho suonato la viola

Davanti a voi, nella vostra dimora,

e non m'avete regalato nulla,

né pagato salario:

è villania!

Per la fede che devo a Santa Maria,

così non potrò stare al vostro seguito:

la mia scarsella è assai poco fornita

e la mia borsa tutt'altro che gonfia.

Signor conte, suvvia comandate

Quel che volete per me.

Signore, se v'aggrada,

suvvia, donatemi un bel dono,

per cortesia!

Chè ho desiderio, non ne dubitate,

di tornare dai miei:

quando faccio ritorno a borsa vuota

mia moglie certo non mi sorride!

Anzi mi dice:«Signor Babbalucco,

in che paese siete stato,

che non avete guadagnato nulla?

Troppo siete andato a spasso

Giù per la città.

Guardate com'è floscio il vostro zaino:

è pieno soltanto di vento.

Sia vituperato chi ha voglia

Di stare in vostra compagnia!».

La gente si affacciava alle finestre e gli lanciava dei pomodori, uova se era fortunato.

Il comandante delle truppe di Amedeo VIII guardava quella triste scena che si ripeteva tutti i giorni al tramonto.

Sospirò.

Avrebbe dovuto portarlo con sé a corte.

I suoi uomini ne sarebbero stati felicissimi.

Il suo signore, forse, un po' meno.

Sentì bussare alla porta.

«Avanti» disse.

Entrò uno dei vassalli.

«Signore, c'è qui un uomo che dice di dovervi parlare urgentemente» affermò.

«Di chi si tratta?».

«Non lo so signore».

Il comandante sospirò.

«Non hai pensato di chiederglielo?».

«No, signore. Posso, però, dirvi che dev'essere senz'altro un contadino».

«Tu dici?».

«Gli abiti che porta lo dimostrano».

«Molto bene allora. Fallo entrare».

Dopo qualche minuto fece la sua comparsa un ragazzo dai capelli castani e gli occhi blu.

I suoi vestiti erano logori, il viso e le mani sporche di terra.

«Puoi andare» ordinò il comandante al vassallo.

Il giovane rimase in silenzio.

«Hai qualche nuova da darmi?».

«Si, signore».

«Ti ascolto».

«Siamo stati attaccati, signore. Bande di uomini sono piombate sul nostro villaggio e l'hanno messo a ferro e fuoco. La stessa sorte è toccata anche ad altri paesi. Le campagne sono state saccheggiate, gli abitanti uccisi e...».

«Chi è stato?».

«Non lo so, signore. Ci hanno assaliti di notte...».

«Non hai visto uno stemma o qualcos'altro?».

«N-no... Però, mentre fuggivo, ho intravisto un uomo con i baffi e i capelli ricci che dava delle istruzioni a degli uomini».

«Potrebbe trattarsi del capitano della banda».

«Si, potrebbe».

«Che lavoro fai, figliolo?».

«Il contadino, signore».

«Da molto?».

«Da sempre, signore».

Il comandante lo guardò con attenzione, poi disse: «Quanti anni hai?».

«Ventitré signore».

«Peccato».

Il giovane si ritrasse prima che la lama potesse trafiggerlo nel petto.

«Sei veloce per essere solo un contadino».

«Bisogna esserlo se si vuole lavorare in fretta la terra».

Nuovo affondo.

Nuova schivata.

«Chi ti manda?» domandò il comandante.

«Nessuno, signore».

«Sono comandante delle truppe degli Acaja per un motivo. Non è così semplice riuscire a ingannarmi».

«Dite?».

L'uomo sorrise.

«Sei un ragazzo in gamba. Non mi dispiacerebbe averti dalla mia parte, ma immagino che rimarrai fedele alla Fratellanza».

Il giovane sorrise a sua volta.

«Molto bravo».

«Non ci è voluto molto a capirlo. Hai la carnagione troppo chiara per essere un contadino e mani troppo curate. Travestimento imperfetto».

«Invece è perfetto».

Il comandante lo guardò e poi capì.

Si girò, ma era troppo tardi.

Due possenti braccia lo strinsero intorno al collo.

Cercò di liberarsi, ma non ci riuscì.

I campanelli tintinnarono.

«Signor conte, ho suonato la viola

Davanti a voi, nella vostra dimora,

e non m'avete regalato nulla,

né pagato salario:

è villania!» canticchiò il giullare dietro di lui.

«Dovevo capirlo che era una trappola!» gridò adirato il comandante.

«Siete stato troppo sicuro di voi» gli rispose il finto contadino.

«Raggirato come un uomo qualunque!».

«O forse siamo noi che siamo stati troppo bravi».

Il giullare rise.

«Maledetti!».

«Che voi siate maledetto, comandante» sibilò il giovane dagli occhi blu prima di conficcargli un pugnale nel petto.

Tin, tin.

Il comandante cadde a terra.

«Addio, Ludovico di Saluzzo».

I due assassini si allontanarono, accesero due torce e le gettarono per terra.

«C-che fate? M-morirete an-che voi così» biascicò l'uomo in fin di vita.

«Non vi preoccupate. Io e Ruggero siamo ottimi scalatori» disse il finto contadino.

«Proprio così. Come avrei fatto a salire fin qui, sennò?» sorrise il finto giullare chiamato Ruggero.

Ludovico tossì.

Le fiamme si stavano propagando per la stanza.

«I-il nome... D-dimmi il tuo nome...».

«Giovanni. La tua morte si chiama Giovanni Fortebraccio».

Detto questo, il giovane si calò fuori dalla finestra insieme a Ruggero.

Il comandante scoppiò a ridere.

Il sole scomparve definitivamente.

Giunse la sera.

L'arancione lasciò il posto al blu e al nero.

Delle urla si propagarono nell'aria.

Le fiamme divorarono tutto.

Sul far della sera, avrebbe poi raccontato la storia, Roppolo fu incendiata.

Nella disperazione generale alcuni – non si sa chi, non si sa come – giurarono di aver udito delle risate dall'alto della torre del castello.



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