THE TIME

Francesca

Sentivo il suono delle campanelle della chiesa vicino alla torre, un suono che sembrava farsi sempre più forte, avvolgendo la mia mente in una morsa di angoscia. Ogni tintinnio era un promemoria della mia situazione, della mia prigionia. La stanza era piccola e buia, con un letto scomodo, una sedia e un piccolo tavolo di legno scuro, consumato dal tempo. La finestra, infissa nel muro, era un semplice pezzo di legno chiuso, un varco verso un mondo che ora sembrava così lontano e inaccessibile.

Cleopatra era nella stanza accanto, o almeno lo era fino a quando le avevo intimato di scappare. Non volevo che anche lei condividesse il mio destino, anche se il suo aiuto sarebbe stato prezioso.

Lei é la protettrice delle Francesche, un legame ancestrale che si era tramandato di generazione in generazione. Lei sapeva che se fossimo cadute sotto il controllo di Elisabeth, avremmo vissuto in un incubo eterno, imprigionate nel suo gioco di potere. La sua fuga, però, mi aveva lasciata con un vuoto nel cuore e la paura di non rivederla mai più.

Non potevo immaginare come fosse per lei, dover assumere una forma così straordinaria, trasformarsi in serpente per sfuggire. La mia mente si affollava di immagini di Cleopatra, scivolosa e furtiva, che strisciava via nella notte, mentre io rimanevo intrappolata in quella torre, priva di un destino certo. Il dolore per la sua partenza si mescolava con il desiderio di proteggerla, ma sapevo che la sua scelta era stata la più saggia.

In fondo, Cleopatra aveva sempre avuto il potere di scegliere il suo cammino. Aveva fatto la scelta giusta per sé, ma ora dovevo fare la mia.

La torre era diventata la mia prigione, un luogo di isolamento che amplificava ogni pensiero oscuro. La stanza, piccola e spoglia, era un rifugio di disperazione. Non avevo più la forza di lottare; la paura si era radicata nel mio cuore, rendendomi paralizzata.

Mi alzai di scatto, il cuore in gola, mentre osservavo il piccolo scaffale che avevo trascinato sotto la finestra. Con tutte le mie forze, cercai di arrampicarmi per vedere oltre. Le mani tremavano mentre spingevo il mio corpo in alto, ogni muscolo teso nell’ansia di quel momento. Finalmente, alzai lo sguardo e ciò che vidi mi gelò il sangue nelle vene.

Vidi Hanry in braccio a Elisabeth, la mia mente si bloccò, incapace di elaborare la scena davanti a me. Il suo piccolo corpicino sembrava così vulnerabile tra le braccia della mia nemica. Ogni fibra del mio essere si strinse in una morsa di angoscia. Elisabeth alzò lo sguardo verso di me, il suo volto segnato da un ghigno trionfante, come se stesse assaporando ogni momento della mia sofferenza.

Misi le mani contro la finestra, le palme appoggiate sul vetro freddo, quasi cercando di attraversarlo per afferrare mio figlio. «Hanry!» urlai, la mia voce un misto di disperazione e furia. Ogni parte di me bramava di proteggere quel bambino, il mio bambino, eppure mi sentivo impotente. Le mie mani tremavano, non solo per il freddo, ma per il terrore che mi attanagliava.

Non potevano sentirmi; la torre era troppo in alto. Il vento gelido soffiava attraverso le fessure della finestra, ma il mio cuore batteva forte. Dovevo agire in fretta. Scesi dallo scaffale, il legno scricchiolava sotto il mio peso mentre cercavo di mantenere l'equilibrio. Ogni movimento era un atto di sfida, un tentativo disperato di rimanere lucida in quel mare di disperazione.

Il giardino era pieno di narcisi, i loro petali bianchi e gialli danzavano nel vento come piccoli raggi di sole. Ricordai quel giorno felice, un ricordo che sembrava appartenere a un’altra vita. Mia sorella indossava un vestito color verde, il suo colore preferito, e sembrava una piccola fata nel suo abito di chiffon leggero. Io e lei ridevamo, inseguendoci tra i fiori, mentre nostro padre ci osservava con un sorriso affettuoso.

Elisabeth, con la sua voce dolce e melodiosa, corse verso di lui e disse: «Ti voglio bene, papà.» Gli posò una mano sul viso, e lui, con gli occhi colmi di amore, rispose: «Vi amo così tanto.»

In quel momento, tutto sembrava perfetto. La gioia era palpabile, e la luce del sole avvolgeva il giardino come un caldo abbraccio. Ma ora, quel ricordo dolce era solo un eco lontano, e la realtà era ben diversa. La torre, il freddo, la paura di perdere mio figlio… tutto si riversava su di me come un’onda implacabile. Mi strinsi nella mia angoscia, desiderando tornare a quei momenti innocenti, a quel papà amorevole che ci abbracciava e ci proteggeva.

Adesso mio padre mi odiava per essere andata a letto con Demon. La consapevolezza di aver deluso la sua fiducia mi attanagliava il cuore come una morsa di ghiaccio. Mentre riflettevo su questo, la porta si aprì lentamente, rivelando il sacerdote. Era padre Erik, e il suo volto esprimeva una serietà che aumentò il mio timore.

«Cosa ci fate qui, padre Erik?» chiesi, cercando di mascherare l’ansia nella mia voce. Non avevo voglia di confrontarmi con le sue parole di giudizio, né di ascoltare le sue prediche su come la mia vita fosse diventata una spirale di disgrazie.

«Francesca, mia cara e dolce Francesca,» disse padre Erik, mentre mi mise le mani sul viso, i suoi occhi pieni di una dolcezza che non mi aspettavo in quel momento così buio. «Saranno l'angelo più bello di tutto il paradiso.» Le sue parole avevano un effetto calmante, ma non potevo ignorare il peso della mia situazione.

Lui sapeva quanto fosse importante la fede per me, quanto significasse ogni messa a cui partecipavo, ogni confessione che facevo. Fino a quando la mia vita non era stata stravolta da Demon, avevo trovato conforto e sicurezza nella mia religione. Ma dopo tutto quello che era successo, dopo il tradimento e la perdita, sembrava che la mia fede fosse evaporata, sostituita da una disperazione profonda e incolmabile. In El Dorado, avevo riscoperto qualcosa di simile, ma era fragile, come una fiamma tremolante nel vento.

«Padre Erik,» dissi, la mia voce tremante mentre cercavo di rimanere lucida. «Perché sei qui? Non dovresti essere con gli altri?»

«Non posso abbandonarti, Franny,» rispose, la sua espressione diventò seria. «So che hai passato momenti difficili. Ma sono qui per confessarti. Domani ci sarà la tua esecuzione.»

Erano passati già quattro giorni da quando ero rinchiusa in questa torre. Ogni istante si sentiva come un'eternità, e la mancanza di cibo mi aveva indebolito. La mia mente vagava, ma il pensiero costante era quello della mia imminente esecuzione. Non sapevo se avrei dovuto sentirmi sollevata o terrorizzata.

Guardai padre Erik con occhi pieni di disperazione. «Lei sa quando morirò, padre?» La mia voce tremava, quasi fosse impossibile pronunciare quelle parole.

Lui sospirò, il suo sguardo si fece serio, come se volesse prepararmi alla dura verità. «Vostra sorella ha preferito un modo particolare per sbarazzarsi di te. Ha scelto di decapitarti con la spada. La morte sarà molto più veloce e indolore.»

La mia mente si svuotò per un momento. Il suono delle sue parole si fece eco dentro di me. La decapitazione. Immaginai il clangore del metallo, il freddo del ferro, l’istante fatale. Non ero mai stata una persona che si fosse mai preoccupata della morte, ma ora la idea di quella fine così brutale mi faceva venire le lacrime agli occhi.

«Perché, padre? Perché così tanto odio tra noi?» chiesi, la mia voce rotta dal dolore. «Non avrei mai pensato che potesse arrivare a questo.»

«Il potere e l'invidia sono forze terribili, Francesca. Elisabeth è consumata dal suo desiderio di controllo, e la tua esistenza è un costante promemoria delle sue debolezze,» rispose.

L'atmosfera nella piccola stanza era densa di tensione e tristezza. Sentivo il peso delle mie parole, mentre osservavo padre Erik sedersi di fronte a me. Le sue mani erano ferme, e il suo sguardo si fece penetrante, pronto ad ascoltare.

«Bene, dobbiamo confessarti,» disse, la voce ferma e rassicurante.

Presi una sedia e mi sedetti, con le mani che tremavano leggermente. Mi diede il mio rosario e lo misi intrecciato nella mia mano destra, il legno caldo sembrava darmi un po' di conforto. Con un sospiro profondo, chiusi gli occhi per raccogliere i miei pensieri.

«Padre, devo confessarle che l'unico peccato che abbia mai fatto è stato... ho fatto atti impuri nella nostra chiesa, padre,» dissi, la voce tremante. Le parole mi uscirono di bocca come se avessi liberato un peso insopportabile.

Padre Erik rimase in silenzio per un momento, riflettendo. «Francesca, la carne è debole, e in un momento di vulnerabilità può succedere. Ciò che conta è come affrontiamo le conseguenze delle nostre azioni,» disse con tono calmo.

«Io... ho tradito i miei principi,» confessai, un groppo in gola. «Ogni volta che mi avvicinavo a quella chiesa, sentivo un conflitto dentro di me. Era come se fossi in un luogo sacro, ma io stessa l’avevo profanato. Sapevo di non doverlo fare, eppure non ho saputo resistere.»

«Le tentazioni possono essere potenti, Franny. Ma anche se hai peccato, c'è sempre un cammino verso la redenzione,» rispose lui, e le sue parole risuonarono in me come un eco.

«Non sono sicura di meritare la redenzione, padre. Ho danneggiato le persone che amavo, ho tradito la mia fede e ora… ora non ho altro che rimpianti,» dissi, le lacrime cominciavano a scendere lungo le mie guance.

«Il primo passo verso il perdono è riconoscere i propri errori. Non puoi cambiare ciò che è successo, ma puoi scegliere come reagire. Devi accettare il tuo passato e affrontare il futuro con il coraggio di chi ha imparato dalle proprie scelte,» spiegò, guardandomi negli occhi.

«Cosa posso fare, padre?» chiesi, cercando un barlume di speranza.

«Continua a pregare, chiedi perdono e ricorda che la vera forza risiede nella capacità di rialzarsi dopo una caduta. Ogni giorno può essere una nuova opportunità,» rispose, il suo tono incoraggiante. «E ricorda, non sei sola. La tua fede può guidarti anche nei momenti più bui.»

«Certamente, padre, pregherò,» dissi, mentre il peso della confessione si alleggeriva sul mio cuore. Feci il segno della croce con le mani, un gesto che rappresentava la mia connessione con la fede e con le mie radici. Le parole che uscivano dalle labbra di padre Erik sembravano un canto sacro, una preghiera che risuonava nelle pareti della mia anima tormentata.

Si alzò in piedi, il suo volto sereno e concentrato. «Che tu possa vivere in eterno, altezza,» disse, mentre il suo sguardo rifletteva un misto di compassione e rispetto. Le sue mani si alzarono in un gesto di benedizione, e io non potei fare a meno di sentire il calore della sua energia positiva.

«Spirito Santo,» pronunciò, e la sacralità delle sue parole mi avvolse come un abbraccio. In quel momento, la mia mente si riempì di immagini di un futuro che avrei desiderato ardentemente: un futuro per Hanry, per il mio bambino, per la mia famiglia.

«Amen,» dissi in coro con lui, il suono della nostra voce che si univa creava un legame invisibile, una connessione che andava oltre le parole e i gesti.

Mentre il sacerdote si allontanava, il peso della mia condizione tornò a colpirmi. La mia mente correva verso il pensiero di Hanry, mio figlio, e la vita che avrebbe potuto avere. Dovevo combattere per lui, per dargli un futuro, anche se le ombre della morte si avvicinavano.

Mi voltai verso la finestra, i narcisi nel giardino sembravano brillare anche sotto il cielo grigio. Il ricordo di momenti felici trascorsi con mia sorella e mio padre tornò a farmi visita, e un sorriso malinconico si fece strada sul mio volto. Ma sapevo che il tempo era dalla mia parte solo fino a un certo punto. Dovevo trovare un modo per sopravvivere, non solo per me stessa, ma soprattutto per Hanry.

La porta si aprì nuovamente e mi voltai, il cuore che batteva più forte. La figura che mi si parò davanti era inaspettata: Demon. Con indosso una corona, emanava un'autorità che non avrei mai voluto associargli. L'idea che si fosse unito in matrimonio con quella pazza di Elisabeth mi colpì come un pugno nello stomaco.

«Altezza,» disse con una voce ferma, ma un velo di tristezza velava le sue parole. Non potevo guardarlo in faccia; mi girai e mi sedetti sul letto, sentendo il freddo legno sotto di me.

«Sei venuto qui per deridermi, Demon?» chiesi, la mia voce un misto di rabbia e dolore. «Sei diventato un uomo importante, ora che sei il marito di quella donna. E io sono qui, rinchiusa come una prigioniera.»

Lui fece un passo avanti, il suo sguardo penetrante che cercava il mio. «Francesca, non sono qui per deriderti,» rispose, cercando di mantenere la calma. «Sono qui perché… perché voglio che tu sappia la verità.»

«Quale verità?» chiesi, il tono carico di sarcasmo. «Quella che ti sei scopato Cleopatra, la mia migliore amica? E che hai frequentato anche delle prostitute? Non raccontarmi che pensavi a me mentre lo facevi, perché non assomiglio a nessuna di loro! Se lo facessi, significherebbe che non mi hai mai voluto davvero. Se fossi stata uguale alle altre ragazze, saresti stato felice di farmi parte della tua vita.»

Il suo sguardo si fece duro, e un velo di imbarazzo si dipinse sul suo viso. «Francesca, non è così. Non mi importa di loro. Tu sei l’unica che voglio»

«Basta!» urlai, interrompendolo. «Non ho bisogno delle tue scuse! Ho visto come ti comportavi, come ti divertivi con Cleopatra mentre io ero lì, a lottare con il mio cuore spezzato.»

Lui mi accarezzò la spalla, ma il suo gesto, invece di confortarmi, mi fece sentire ancora più vulnerabile. «Non toccarmi,» sussurrai, spostandomi nel letto, cercando di allontanarmi da quel contatto che bruciava sulla mia pelle. «Vattene, vattene, Demon! Io non ti ho mai amato e mai lo farò. Il fatto che porti il tuo bambino dentro di me mi ha fatto allontanare da te e dalla mia fede. Vattene, non voglio più vederti!»

Le mie parole, cariche di dolore, risuonarono nella stanza. Demon rimase in silenzio, il suo sguardo incredulo e ferito, come se le mie parole avessero inflitto un colpo fisico al suo cuore. Ma non mi importava. Avevo bisogno di proteggere me stessa, di mettere distanza tra di noi.

«E non pensare nemmeno di andare all’esecuzione domani,» continuai, il mio tono divenne più deciso. «Non voglio che tu sia presente. Non voglio che la tua presenza renda tutto questo ancora più insopportabile.»

Lui si bloccò, i suoi occhi cercavano i miei, pieni di una vulnerabilità che non avevo mai visto prima. «Francesca, ti prego, ascoltami. Non voglio che tu muoia. Ci deve essere un modo per salvarci, per salvarlo.»

«Non puoi fare niente,» dissi, cercando di mantenere la mia voce ferma nonostante il tumulto di emozioni che mi assaliva. «L'unica cosa che puoi fare è andartene.» Le mie parole suonavano come una condanna, eppure c'era una parte di me che implorava che lui rimanesse, che trovasse un modo per salvarmi.

Demon si abbassò, i suoi occhi penetranti cercavano i miei, e in un istante che sembrò eterno, mi prese il mento tra le dita. «Ti amo,» sussurrò, prima di avvicinarsi e baciarmi. Il suo bacio era dolce e disperato, un misto di passione e tristezza, come se volesse trasferire in quel gesto tutto l'amore che non era riuscito a esprimere a parole.

Mi sentii sopraffatta. La sua bocca si posò sulla mia con una dolcezza che mi fece vacillare, ma non potevo cedere.

Quando il bacio finì, mi lasciò con un sapore agrodolce sulle labbra. «Devo andare,» disse, il suo tono più serio, carico di rassegnazione. Si alzò, lasciando un vuoto incolmabile tra di noi. Con un ultimo sguardo, si voltò e uscì dalla stanza, la porta che si chiuse dietro di lui con un tonfo secco, come un funerale per quello che avevamo condiviso.

Rimasi lì, avvolta nel silenzio, la mia mente in subbuglio. Le lacrime iniziarono a scendere silenziosamente, solcando il mio viso. Sentivo il peso della mia scelta, il peso della mia vita che stava per cambiare drasticamente. La verità era che, nonostante tutto, il mio cuore si era spezzato un po’ mentre lo vedevo andarsene, ma non potevo permettere che quel dolore mi frenasse.

Mi misi nel letto e mi scesero alcune lacrime. Sentivo il cuscino assorbire il mio dolore, ma ogni singola goccia che scivolava sul mio viso sembrava portare via un pezzo di me. La solitudine mi avvolgeva, e il peso della mia situazione mi schiacciava. Rimasi lì, immobile, mentre i ricordi affioravano uno dopo l'altro, mescolandosi con la paura del futuro che mi attendeva.

***
Il mattino dopo, le mie tre dame mi aiutarono a vestirmi. Indossai un elegante vestito viola che si adattava perfettamente al mio corpo, con un corsetto stretto come piaceva a me. Ogni dettaglio sembrava un atto di ribellione contro il destino che mi attendeva.

Mi guardai nello specchio, e per un attimo, scordai la realtà che mi circondava. La mia immagine riflessa era di una nobildonna forte e determinata, nonostante le circostanze. «Grazie», dissi alle mie dame, che mi osservavano con uno sguardo misto di tristezza e ammirazione.

Un'altra dama mi porse il mantello, foderato di pelliccia morbida, dello stesso colore viola del mio abito. La sua carezza era gentile, come se volesse infondermi un po' di coraggio. Mi avvolsi nel mantello e sentii il calore avvolgermi, quasi come se fosse un abbraccio. Ma nel mio cuore, una fredda ansia mi attanagliava, mentre il pensiero dell'esecuzione si avvicinava sempre di più.

Senti la porta aprirsi, e un consigliere entrò nella stanza. La sua presenza era austera, e il suo sguardo era serio. «Site pronta?» chiese, la voce ferma.

Annuii, cercando di mantenere la calma nonostante il battito accelerato del mio cuore. «Sì, sono pronta», risposi con determinazione, anche se il mio stomaco si contorceva in preda all'ansia.

Il consigliere fece un segno con la mano, e io seguii le sue indicazioni. Le mie dame si fermarono, lasciandomi andare, e mentre mi incamminavo verso il mio destino, sentivo il peso della mia situazione gravare su di me come un macigno. Ogni passo sembrava un’eco della mia vulnerabilità, ma cercavo di mantenere la testa alta, di mostrare la dignità di una Francesca che non si sarebbe piegata.

Camminammo verso la piazza, dove la folla era già radunata. Le persone si allungavano verso di me, cercando di toccare il mio mantello, come se volessero accarezzare un ultimo frammento di quella che un tempo era stata la loro principessa. Ma non distolsi lo sguardo; non volevo vedere i loro volti, i loro occhi curiosi o giudicanti. Il mio cuore batteva forte, un ritmo incessante che rimbombava nelle orecchie, ma continuai a camminare, mantenendo la mia compostezza.

Arrivai al centro del podio, dove il boia già attendeva accanto al ceppo di legno. Il consigliere si avvicinò, pronto a proseguire con il rituale, ma lo fermai, la mia voce ferma ma decisa. «Posso dire qualcosa, prima?»

Per un attimo esitò, ma poi annuì, facendomi un piccolo gesto con la mano per andare avanti. Mi girai verso il popolo, la mia gente, e presi un respiro profondo. «Cari cittadini di Hyperborea,» iniziai, la mia voce che risuonava chiara e forte sopra il brusio. «Oggi siete qui per assistere alla mia condanna. Una condanna che, vi assicuro, non merito. La mia unica colpa è stata quella di amare e di vivere in un mondo che non mi ha mai voluto. Sono stata giudicata per errori che non ho commesso, per tradimenti che non ho mai voluto.»

Ci fu un mormorio nella folla, ma io continuai, i miei occhi puntati dritti davanti a me. «Ma non voglio chiedere pietà, non è per questo che sto parlando. Voglio solo che sappiate la verità. Io, Francesca Blair di Hyperborea, non sono stata mai altro che una figlia, una sorella, una madre… E se oggi devo morire, morirò con la consapevolezza di non aver mai tradito ciò in cui credevo.»

Sospirai, sentendo la tensione scendere dalle spalle. «Ricordatevi di me come volete, ma sappiate che il vero tradimento non è stato il mio. Il vero tradimento è stato di chi ha voluto nascondere la verità, di chi ha voluto vedermi cadere per coprire i propri peccati.»

Poi, per un attimo, lasciai che il silenzio si posasse sulla piazza. Un silenzio pesante, carico di tutte le parole che non avrei mai più potuto dire. «Che Dio abbia pietà di me, così come spero che un giorno voi possiate trovare la forza di cercare la verità.» Feci un passo indietro e annuii al consigliere.

Mi voltai, pronta ad affrontare il mio destino, la testa alta, con la dignità di chi sa che, anche nella morte, la verità non potrà mai essere cancellata.

Le mie dame, con gesti delicati ma decisi, mi tolsero il mantello e il vestito, lasciandomi solo in una sottoveste leggera. Sentivo il freddo dell'aria sulla pelle, ma non tremavo. Ero pronta. Mi inginocchiai davanti al ceppo, il blocco di legno dove sapevo che la mia vita avrebbe trovato il suo termine. Feci il segno della croce, il rosario intrecciato nella mia mano destra come ultimo legame con la mia fede, poi lo baciai, lasciando che le labbra si posassero per un istante sul freddo dei grani di preghiera.

Mi piegai in avanti, appoggiando la testa sul ceppo, sentendo la superficie ruvida contro la mia guancia. Il boia, un uomo alto e robusto, si fece avanti, impugnando la spada con entrambe le mani. Il suono della lama che scivolava fuori dal fodero risuonò nell'aria, un sibilo metallico che sembrò tagliare il silenzio.

Chiusi gli occhi e lasciai andare un ultimo respiro, mormorando una preghiera silenziosa. Sentii il vento sollevarsi, un ultimo abbraccio della terra prima che il colpo finale cadesse.

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